Eroe ed Onore nel Cinema Americano e Giapponese – Capitolo 4: Giri, Ninjo, Honne e Tatemae

Tengoku-to-jigokuNel 1959, il film “Anatomy of a Murder”, diretto dal grande regista austriaco naturalizzato negli USA Otto Preminger e unanimemente considerato come uno dei migliori legal-drama di sempre, si fregiò della Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia, dove fu premiata l’interpretazione di James Stewart; in quell’occasione, i nostri distributori fecero il miracolo di tradurre in modo letterale il titolo originale, chiamando così “Anatomia di un Omicidio” la versione italiana di quel celebre film  e lasciando in questo modo integra tutta la potenza evocativa di quelle parole, con le quali gli autori  avevano voluto indugiare sull’aspetto analitico ed investigativo della vicenda.

Così, quando nel 1964, gli stessi personaggi italici ebbero il compito di distribuire la carismatica pellicola di Akira Kurosawa “Tengoku to jigoku” (che tradotto significa all’incirca “Il Paradiso e l’Inferno”), come prima cosa tagliarono via una mezz’ora abbondante di film (104 minuti per la versione italiana, contro i 140 di quella giapponese ed internazionale), quindi, con l’abituale provincialismo con cui si sono sempre contraddistinti e che ancora oggi continua a creare mostri, forti del successo al botteghino del film di Preminger, s’inventarono per la pellicola giapponese il titolo di “Anatomia di un rapimento”, di per sé anche bello, ma che allontana in modo ingannevole il focus dello spettatore dal vero cuore dell’opera di Kurosawa, ossia il doppio conflitto tra quattro potenti istanze etiche: Giri, Ninjo, Honne e Tatemae.

Kingo-Gondo-02

In questo film, infatti, il leggendario regista nipponico (insieme ai suoi fidatissimi co-sceneggiatori Hideo Oguni, Ryûzô Kikushima, and Eijirô Hisaita) ci racconta la storia di Kingo Gondo, manager di un importante calzaturificio, fortemente deciso a contrastare la deriva immorale impressa all’azienda dagli altri soci (i quali avrebbero voluto cominciare a produrre scarpe con materiali sempre più scadenti, aumentando così i margini di profitto ed accorciando anche i tempi di obsolescenza, per i quali i consumatori sarebbero stati costretti a sostituire in poco tempo le stesse scarpe); un destino beffardo lo costringerà però a vivere una vicenda a fortissime tinte drammatiche, di taglio noir, in cui il suo animo sarà più volte dilaniato dallo scontro tra giri (il senso del dovere) e ninjo (la risposta emozionale personale), dovendo inoltre scegliere, in momenti cruciali, se accondiscendere al suo honne (il nostro vero desiderio) o se obbedire invece al tatemae (il comportamento da tenere in pubblico e che gli altri si aspettano da noi).

Nei tre capitoli precedenti di questa mia lunghissima digressione, avevamo visto come la figura dell’eroe si differenzi, tra la cultura popolare occidentale (americana ed europea) e quella giapponese, già nelle sue origini archetipe, legate in un caso al Codice Cavalleresco Medievale e nell’altro al Bushidō, insieme di regole non scritte che dai samurai si è con il tempo innervato nella prassi comportamentale dell’intera nazione del sol levante.

Sense-of-DutyPer meglio comprendere ora quest’ultimo passaggio, nella creazione delle valenze dell’eroe, bisogna considerare quanto, nelle sceneggiature delle opere cinematografiche e televisive nipponiche (sia come live action, come di animazione e persino nei videogames) siano ancora molto importanti, le continue contrapposizioni tra le due coppie di concetti sopra citati: in Giappone è infatti lo stesso pubblico che pretende che l’eroe sappia mettere equilibrio tra giri e ninjo e che quando honne e tatemae confliggono egli sappia prendere la giusta decisione, perché il vero mestiere dell’eroe, in Oriente come in Occidente, è sempre quello di fare la cosa giusta, ma se per noi occidentali quella capacità si declina attraverso lo sprezzo del pericolo e l’audacia di fare ciò che nessuno osa fare, per il pubblico nipponico significa saper compiere il proprio dovere, a tutti i costi, anche aldilà della morte stessa.

Esemplare la comprensione di questo concetto operata da un autore di cinema statunitense come Jim Jarmusch che, con il suo “Ghost Dog: The Way of the Samurai” (da egli stesso, scritto e diretto nel 1999), mette in scena una parabola samurai quasi sospesa nella metafisica, con un killer della mafia che comprende come la potente e completa devozione ad un ideale di uno spirito di un guerriero permetta persino di completare un colpo fatale, lanciato con la spada contro un nemico, anche se nel frattempo la vita fosse tolta fisicamente dal suo corpo.

Ghost-DogTornando alla trama di “Tengoku to jigoku”, osserviamo ora come questi conflitti si manifestino praticamente da subito e giochiamo a vedere come situazioni identiche sarebbero state risolte diversamente in un qualsiasi film nord-americano.

Il manager Kingo Gondo, per effettuare quella scalata societaria che gli sarebbe servita per affermare la sua idea di industria eticamente corretta, decide di ipotecare tutti i beni suoi e della sua famiglia ed ottenere in questo modo la somma necessaria: egli sa di correre un grandissimo rischio, perché se fallirà nel suo piano, perderà in un sol colpo sia il lavoro, sia la sua credibilità professionale ed inoltre ridurrebbe anche sul lastrico la sua famiglia, ma il suo ideale è potente almeno quanto la sua determinazione.

Detectives-at-work

Appena ottenuta la somma, però, si abbatte su di lui un’immane disgrazia, poiché un rapitore senza scrupoli dichiara di aver sequestrato suo figlio e di volerlo uccidere se non gli verrà immediatamente pagata un’enorme somma di denaro, così ingente che lo spettatore comprende subito come questa prosciugherebbe in un colpo tutti soldi che Gondo ha accumulato: quindi, se il nostro eroe non pagherà, condannerà a morte suo figlio, ma se pagherà, ogni suo piano di successo lavorativo, familiare e sociale verrà cancellato.

Immaginatevi adesso quei conflitti etici di cui parlavamo prima e di come la coscienza di essi inizi a fare pressione sul nostro eroe, attraverso anche le aspettative dei familiari e della società e persino della stessa polizia, che ovviamente si mette sulle tracce del criminale.

Playing

Evitiamo di soffermarci sulla pur straordinaria tecnica narrativa, con la quale il regista descrive gli accadimenti in modo altamente incisivo (l’incipit espressionista con il figlio vestito da cowboy che per gioco finge di sparare ed uccidere tutti i presenti in casa, il balletto delle telefonate anonime tra il rapitore e Gondo, con la polizia scientifica intenta ad ascoltare e registrare ogni cosa, il gioco di sguardi tenebrosi tra gli investigatori ed i familiari, le grandi vetrate dell’enorme casa lussuosa del manager, dalle quali, come in un castello feudale, si osserva dall’alto lo spettacolo desolante delle case polari nelle stradine sottostanti) e che hanno reso questo film un grande successo di pubblico sia in patria che all’estero: la lezione di cinema che oggi ci serve è invece quella dei contenuti e dei valori che propone per la nostra figura dell’eroe e del concetto di onore.

Police-in-actionMalgrado il corpo investigativo abbia messo a disposizione di Gondo ogni mezzo tecnico possibile ed anche le migliori menti investigative, per il protagonista della storia la giusta decisione da prendere è ancora ovvia, così il manager comunica al rapitore che pagherà il riscatto, ma a questo punto il destino lo mette di fronte al vero dilemma morale: per un errore, infatti, il ragazzo rapito non è il figlio di Gondo (che rientrerà a casa serenamente, senza nemmeno immaginare cosa sia accaduto), ma il suo compagno di giochi e coetaneo, ossia il figlio dell’autista personale, il signor Aoki; il rapitore, inoltre, anche dopo aver scoperto l’errore, insiste nella sua minaccia di uccidere il ragazzo se non verrà pagato e Gondo si ritrova con la responsabilità di decidere della vita o della morte di un essere umano, colpevole solo di trovarsi nel posto e nel momento sbagliato o meglio di avere come padre un servitore della persona davvero minacciata.

CommandoNon penso di aver bisogno di dirvi come la vicenda si svilupperebbe adesso in un film statunitense, perché di fronte ai vostri occhi scorreranno di certo le immagini di non so quanti film dall’incipit simile: dal western, all’action, dal fantasy alla fantascienza, abbiamo in Occidente una storia dell’intrattenimento ricolma di plot che si risolvono regolarmente tutti con l’eroe che salva capra e cavoli, debellando la minaccia (salvando il mondo, persino, in certi casi) e riportando a casa gli ostaggi, anche a costo di usare la sua persona come pegno sacrificale per la buona riuscita dell’operazione, perché questo è quello che il pubblico occidentale chiede all’eroe, al personaggio di fantasia che viene ritratto come erede di quel codice cavalleresco, che ha prodotto centinaia di migliaia di cavalieri solitari, votati al martirio e pronti ad immolarsi contro ogni evidenza ed ogni parere.

LeonCosì si è comportato Sinbad nel film Dreamworks “Legend of the Seven Seas” (nel quale il protagonista, in nome dell’amicizia, rinnega il suo essere un ladro e sfida la morte e l’ira degli dei per salvare il suo amico dal patibolo, invece di godersi il bottino), e così avrebbe fatto anche il Colonnello John Matrix, protagonista del film “Commando” con Arnold Schwarzenegger o come anche John McClane (il protagonista dei vari “Die Hard”, sempre da solo contro tutto e tutti) e così farebbe uno qualsiasi degli eroi nati dalla penna di Luc Besson, forse il massimo esponente europeo di quel processo di traduzione degli stilemi del cowboy americano nel cinema del vecchio continente, come testimoniato dalle sue sceneggiature, scritte per se stesso o per altri registi, quali quelle di “Léon”, “Le cinquième élément”,“Wasabi”,“ Danny the Dog”, “3 Days to Kill”, ed i franchise “Transporter” e “Taken” (quest’ultima saga, poi, persino comicamente scambiata da molti, per via del taglio narrativo e per la presenza di Liam Neeson, per una produzione americana e non francese, come invece è).

Taken-3La lista dei film americani ed europei che vedrebbero l’eroe risolvere quei conflitti in un modo semplice e altamente prevedibile è gigantesca e noi l’abbiamo solo appena scalfita, ma in Giappone le cose andavano e vanno ancora molto diversamente e così torniamo all’eroe di Kurosawa, che deve onorare il suo status sociale di uomo ricco e potente, con gli obblighi conseguenti all’essere l’unico personaggio di questa commedia (tragedia) umana in possesso delle risorse economiche necessarie per salvare dalla morte il ragazzo sequestrato: non pagare significherebbe che la sua emotività (ninjo) avrebbe la meglio sul senso del dovere (giri) e che l’interesse personale ed il suo benessere (honne) verrebbero anteposti al dovere sociale (tatemae); questo non è ovviamente possibile per un eroe giapponese che sia davvero tale e quindi per questo motivo Gondo pagherà la somma al rapitore, che rilascerà il figlio del suo autista sano e salvo, ma nel contempo perderà il suo lavoro e tutti i suoi beni.

E’ a questo punto della trama che si apre un ulteriore enorme divario, tra gli sviluppi che i due diversi pubblici (occidentale e nipponico) si aspettano da un film che ha narrato le gesta di un eroe di questo tipo: in America, il campione che ha fatto la cosa giusta sarebbe comunque premiato in qualche modo, diciamo con una forma pragmatica di riparazione fisica o economica, che vedrebbe, per esempio, i soci senza scrupoli del manager andare in galera per qualche losco intrallazzo, lasciando all’imprenditore onesto carta bianca per proseguire la gestione dell’azienda oppure con i suoi vicini e concittadini che, colpiti dal suo gesto, fanno una cordata per ricomprare la casa  persa al nostro paladino (replicando quello stile che fu canonizzato da Frank Capra nel suo indimenticabile “It’s a Wonderful Life – La vita è meravigliosa”).

It's-a-Wonderful-LifeIn Giappone, invece , il lieto fine è già nell’appagamento che il pubblico ottiene guardando il protagonista compiere il suo dovere malgrado i terribili ostacoli e non si sente, quindi, la necessità di un riconoscimento ulteriore: quella giapponese non è, quindi, una masochistica e cinica mancanza di happy end, quanto piuttosto un senso di completezza che non abbisogna di ulteriore specificazione e questo perché la loro cultura popolare è legata a fil doppio a valori (etici, laici e religiosi) provenienti dal confucianesimo e dalla filosofia zen (padri del bushidō), i quali, come è noto, hanno precetti e priorità decisamente diverse da quelle indicate agli anglosassoni dal calvinismo e dal protestantesimo.

Per questo motivo, nella seconda parte del film, la figura di Gondo quasi si eclissa, comparendo solo in poche sporadiche scene e nel finale, durante un incontro sotto tono con il rapitore oramai in carcere (nulla di catartico, nessuno scontro fisico o rivelatorio di chissà quale mistero o colpa nascosta), perché il suo personaggio, potente e combattivo nel primo tempo (non a caso il personaggio di Kingo Gondo è stato affidato all’attore feticcio di tutti i samurai, Toshiro Mifune), appare ora ridimensionato, consolato in qualche modo solo dal cortese trattamento che gli riserveranno tutti gli organi di stampa (dove verrà dipinto come un eroe dei suoi tempi) e dall’affetto di sua moglie e di suo figlio, orgogliosi di essere familiari di un uomo che ha saputo nelle avversità restare fedele al suo senso dell’onore ed a cui perdoneranno di aver perso per le sue azioni tutti gli agi e le comodità a cui erano abituati.

Ginjiro-Takeuchi-kidnapperQuando si parla di questo film di Kurosawa, viene spesso dimenticato che il plot di partenza è tratto fedelmente dal romanzo poliziesco “King’s Ransom” (“Due colpi in uno” in italiano), il decimo della lunghissima serie chiamata “87th Precinct” (87° Distretto) e scritto nel 1959 da Ed McBain, pseudonimo del romanziere italo-americano Salvatore Lombino, noto al pubblico anche con l’altro nom de plume  di Evan Hunter, con cui firmò tra l’altro la sceneggiatura del film di Alfred Hitchcock “The Birds”; questa precisa paternità aiuta a comprendere maggiormente la diversità nel trattamento operato da Kurosawa in fase di scrittura e realizzazione.

Tutta la meticolosa descrizione della macchina organizzativa della polizia, fatta da McBain nel libro, viene riportata con splendida efficacia sullo schermo da Kurosawa, con un grande rispetto anche per la caratterizzazione dei personaggi (compreso l’industriale di calzature Kingo Gondo, che nel libro ha il nome di Douglas King), ma quando si arriva a metà della storia, dopo che Gondo ha pagato il riscatto ed il ragazzo sequestrato viene lasciato libero, allora il film di Kurosawa parte per un’altra strada, distaccandosi in modo totale dal romanzo americano (nel quale si assisterà, invece, ad un lungo e feroce corpo a corpo tra il protagonista, Douglas King ed il rapitore).

The QuestNel secondo tempo della pellicola, in questa sorta di film dentro al film, allo spettatore viene mostrata, in modo didascalico e quasi documentaristico (con un ricercato rallentamento dell’azione drammatica) la prosecuzione dell’azione investigativa, fino alla cattura del criminale e dei suoi complici, mostrando tutti gli elementi per una pacata comprensione dell’accaduto; per altro, come già accaduto in altre opere del maestro giapponese (come “Yoidore Tenshi – L’angelo Ubriaco” del 1948 o “Nora Inu – Cane randagio” del 1949), il criminale responsabile ci viene presentato senza alcuna delle tipiche caratteristiche del comune malvivente: è un giovane medico disoccupato, che la sua personale crisi economica ha trasformato in un livoroso nemico dei ricchi e dei potenti.

Red-smokeL’unica potentissima concessione emotiva che Kurosawa regala allo spettatore in questa parte di film è la geniale intuizione di colorare di rosso il fumo che esce dalla ciminiera dell’ospedale, dove i complici del rapitore stanno bruciando le due valigette usate per la consegna del riscatto: la tecnica, di colorare manualmente dei fotogrammi di una pellicola in bianco e nero, appartiene agli albori del cinema, ma solo due registi prima di Kurosawa l’avevano usata per sottolineare un unico specifico dettaglio colorato in un intero film in bianco e nero: Eric von Stroheim (che fece dipingere d’oro un letto matrimoniale nel suo “Greed – Rapacità” del 1924) e Sergej M. Ejzenštejn (che colorò di rosso la bandiera sulla Bronenosets Potëmkin nell’omonimo suo film del 1925); negli USA furono celebri gli utilizzi di tale tecnica fatti da due estimatori di Kurosawa, ovvero Francis Ford Coppola (che la usò in modo assai vistoso nel suo “Rumble Fish – Rusty il selvaggio” del 1983) e Steven Spielberg (di cui tutti ricordano il cappottino virato rosso acceso della bimba ebrea nel ghetto del mastodontico affresco sull’olocausto di “Schindler’s list” del 1993).

schindler's-list-red-coat-girlA conclusione di questa disamina su “Tengoku to jigoku”, sottolineiamo infine che, mentre nel libro di McBain il protagonista è un industriale tutto di un pezzo che finisce per ergersi a giustiziere, scontrandosi direttamente con il rapitore, nel film di Kurosawa il duello è tutto sociale, perché, come scopriranno proprio gli investigatori (comparse silenziose nel primo tempo e protagonisti indiscussi nel secondo), l’idea del rapimento e del riscatto preteso era solo un modo per attaccare e colpire un uomo, Kingo Gondo, che veniva visto dalla gente comune come un principe di sangue, un nobile che non viveva nella stessa sfera sociale degli altri: viene così anche svelato il significato del titolo (quello originale, s’intende), dove il jigoku, l‘inferno, è proprio il quartiere popolare della povera gente, che ogni giorno guarda con invidia e rancore verso l’alto, verso quel tengoku, quel paradiso irraggiungibile, costituito dalle abitazioni dei ricchi.

Lasciamo ora in modo definitivo il maestro Kurosawa e tutta la sua cinematografia, che in due puntate ci ha consentito di studiare e delineare a fondo le differenze sotanziali tra le istanze etiche dell’eroe e le aspettative del pubblico, distinte tra Occidente ed Oriente.

Live-in-FearNella prossima ed ultima puntata, chiuderemo il cerchio aperto all’inizio, con un film dal sapore solo apparentemente occidentale che mostrerà in modo spiazzante tutta la sua diversità etnica e cluturale.

Ancora una volta, invoco il vostro perdono per la mia logorrea e ringrazio per la pazienza mostratami!


 

In questo post abbiamo parlato dei seguenti film:

It’s a Wonderful Life”, USA, 1946
Scritto da Frank Capra, assieme a Frances Goodrich e Albert Hackett
Diretto da Frank Capra
(liberamente tratto dal romanzo “The Greatest Gift” di Philip Van Doren Stern)

Tengoku to jigoku”, JAP, 1963
Scritto da Akira Kurosawa, Eijirō Hisaita, Ryuzo Kikushima e Hideo Oguni
Diretto da Akira Kurosawa

Ghost Dog: The Way of the Samurai”, USA, 1999
Scritto e diretto da Jim Jarmusch
Interpretato da Forest Whitaker

Sinbad: Legend of the Seven Seas”, USA, 2003
Scritto da John “Gladiator” Logan
Diretto da Tim Johnson e Patrick Gilmore


 

30 pensieri su “Eroe ed Onore nel Cinema Americano e Giapponese – Capitolo 4: Giri, Ninjo, Honne e Tatemae

  1. ho una nostalgia dei film di Besson anni 90… Giusto l’altro giorno ho pensato di recuperare Lucy e mi sono chiesta cosa stessi guardando esattamente. Comunque ogni volta che passo per di qui ne esco con un pezzo cultura cinematografica in più 😀 bel pezzo

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    • Non avevo mica visto il tuo commento, Blackgrrrl!
      Sta crescendo a livelli preoccupanti la mia incomunicabilità con WordPress…
      Anche a me manca tanto il Besson anni’90, anche se ho recuperato (dal baratro dove lo avevo abbandonato) “The Family – Malavita” ed ho anche rivalutato “Angel-A”…

      Vedo ora che hai scritto un nuovo post… ma c***o!
      Non mi accorgo più di nulla!! Ora vado a leggere…

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      • su malavita ci avevo fatto un pensiero all’epoca ma poi mi era caduto in prescrizione 😀 è bello? io so solo che ho finito Lucy e volevo un film su Black Widow. Scarlett Johansson mi piace molto ma appunto speravo che Lucy non fosse un’occasione sprecata come mi hanno invece detto in molti, ho preferito vederlo. Spero il prossimo sia migliore. 😀

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        • The Family” non è certo all’altezza del miglior Besson, ma ha dei momenti splendidi, in particolare il personaggio della Pfeiffer… è adorabile quando fa saltare in aria i supermercati che le stanno sulle palle… La figlia è poi straordinaria…

          Besson è strano… altalenante, gigione, geniale, pigro… passa da farse clownesche interise di campanilismo marsigliese a epopee spaziali… Però, penso che la cartina tornasole per sapere se lo si apprezza davvero sia uno dei suoi film più controversi, ossia “Les Aventures extraordinaires d’Adèle Blanc-Sec“: se ti ha fatto schifo, Besson ti sfuggirà nella sua cmpletezza, se invece lo hai amato (come ho fatto io) allora gli perdonerai dopo le peggiori nefandezze, come perdoneresti ad un bimbo piccolo la candela di muco che gli scende dal naso…

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          • hai detto “Michelle Pfeiffer” e “fa saltare in aria i supermercati che le stanno sulle palle”, I’m sold. No a parte gli scherzi, lei la adoro, e le parti sopra le righe le escono meravigliosamente 😀 va bene lo recupero e me lo tengo per le serate senza pretese.
            Proverò a vedere l’altro che hai detto e farò la prova del nove 😀

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  2. Fatico a trovare altre parole per descrivere la perfezione di questa serie di articoli. Non posso far altro che ringraziarti per questa lezione di cinema e di cultura che attraversa tematiche, popoli, epoche e lo fa attraverso il cinema, il più potente mezzo di comunicazione di sempre, che rispecchia la situazions culturale, sociale di una nazione, sempre, mostrando al pubblico ciò che più si avvicina al modo di pensare della massa. Complimenti!

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  3. Questo post per me è stato un tuffo al cuore. Ho avuto una prima accelerazione dei battiti quando ho visto Forest Whitaker, attore che adoro e che invecchia come il vino (vedere The Butler per credere); poi ho visto uno dei miei miti personali, Arnold, seguito a ruota da Liam Neeson, e a quel punto la goduria è aumentata a dismisura. Tra l’altro, è perfettamente logico giustapporre queste due figure: Arnold è stato l’eroe degli action movies anni 90, e quando li ha abbandonati per la politica Neeson ha raccolto quasi subito il testimone, dando un’impostazione del tutto nuova ad una carriera che fino a quel momento era orientata soprattutto verso i film d’autore. Quella di Neeson è quindi una sorta di “doppia carriera”, un po’ come quella di Matthew McConaughey. Quest’ultimo però ha fatto il percorso inverso, passando dai film di poche pretese ai titoli impegnati e d’autore.
    Ma torniamo al tuo post, caro kasabake. Il mio cuore ha accelerato ancora quando hai fatto riferimento ad altri due film che ho adorato, Rusty il selvaggio e Schindler’s List. Del primo ricordo soprattutto un adorabile dialogo tra i personaggi di Mickey Rourke e Matt Dillon: il primo condivide con il secondo una serie di riflessioni profondissime ed incantevoli sulla vita, e il personaggio di Matt Dillon, non essendo molto intelligente, non riesce a cogliere il senso del discorso. E’ smarrito, quasi inquietato da quel fratello che ammira tanto, ma che lo sovrasta in modo così abissale da provocare in lui anche un evidente disagio. E così gli risponde: “Tu parli difficile.” E Matt Dillon, da grande attore quale è, pronuncia quella battuta con un tono di voce abbattuto, che esprime perfettamente il senso di inferiorità che il suo personaggio sta provando in quel momento. O forse è merito del doppiatore italiano, ma tant’è. 🙂
    Su Schindler’s List poi è bene non dire niente: fa parte di quei film (come In mezzo scorre il fiume, Il dubbio, Bobby e tanti altri) che non mi sento all’altezza di recensire, perché la loro bellezza non può venire espressa a parole. Va soltanto ammirata, come fa Matt Dillon con Mickey Rourke in Rusty il selvaggio.

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    • I tuoi ricordi cinematografici sono così potenti e vivi che lasciano in segno anche in me quando te li leggo nei commenti, in genere ancor più intimi dei tuoi post.
      Per alcuni registi ho una vera e propria venerazione, che spesso scavalca la critica oggettiva: tra questi c’è Francis Ford Coppola, di cui con poche eccezioni ho amato praticamente tutto e “Rusty” è incredibilmente una delle sue pellicole meno conosciute eppure anche delle più espressive ed è stato bello leggere la tua citazione dei quel dialogo ed incontro.
      Su “Schindler’s” concordo con te: non riuscirei neanche io scriverci sopra una recensione, perché avrei timore di sporcarlo, in qualche modo; malgrado questo, lo cito spessissimo, per lacune scene, per il violino lamentoso e struggente della sua musica, per quella fotografia magnificamente espressiva e poi per Liam Neeson, immenso in quel film, grandissimo interprete, che passa dal macchiavellico al passionale e non può non commuoverti quando alla fine cerca di barattare persino l’anello delle nozze con qualche altro ebreo da portare in salvo… poi te lo ritrovi nei film scritti e prodotti da quel pazzerellone di Besson, ad indossare l’abito che fu di Bruce Willis (oramai un po’ l’ombra di ciò che era, più a suo agio negli spot Vodafone che non in un film action) e quella strana combriccola di ex-agenti operativi della CIA, quella sorta di team-up di pensionati con le palle dei tre “Taken”, beh, mi è entrata nel cuore…
      Grazie di essere passato a lasciare il tuo gradito omaggio, un calorosa stretta di mano da amico ed una mano sulla spalla che ti rincuora come un sorriso.

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  4. Non avevo sentito parlare di Tengoku to jigoku… chiedo scusa per la mia ignoranza, Kasabake-san!

    Comunque un articolo come sempre molto approfondito che sinceramente non mi ha annoiato per niente.
    R

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  5. Trovo ed ho sempre trovato le due anime: USA – Giappone così in contrasto, quasi in modo intollerabile tra loro. Sono più propenso a sentire la vita vicina alla visione nipponica, non perché mi piaccia di più o non solo, quanto per una fedeltà alla realtà maggiore e una ragionevolezza maggiore. Eppure tutte e due le filosofie sono esplose in guerre, invasioni e spargimenti di sangue inenarrabili. Com’è possibile? Mah!
    Questo tuo post mi fa cambiare il finale di uno dei miei raccoti-in-corso. Grazie davvero.

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  6. I tuoi post hanno un unico e sostanziale difetto: sono pubblicati sempre nel w-end, quando io invece sono solito prendere le distanze da WP e dal WEB in generale e li lascio risuonare come echi lontani i cui gorgoglii giungono attutiti al mio orecchio. E così, quando poi il lunedi mi accingo a leggerti e a risponderti, ormai la fiamma della tua cultura ha già abbagliato i più e a me resta veramente poco da dire o da aggiungere.

    Ma stavolta, per mia fortuna, nessuno ha già evidenziato l’aspetto più interessante di questo lucido e brillantissimo post

    (non posso più usare l’aggettivo “bello” abbinato a un tuo post, mi è arrivata la diffida direttamente dal CEO di WordPress perchè ho abusato di questo accoppiamento. A poco è servita la mia protesta nella quale rimarcavo il fatto che mi limitavo a ribadire un dato di fatto. Lui si è inalberato ancora di più e mi ha rivolto serie minacce che non mi sono sentito di ignorare. Spero mi perdonerai).

    LA RELATIVITA’

    Quando in terza liceo studiando filosofia sul Veca mi imbattei nei capitoli dedicati a Albert Einstein strabuzzai gli occhi. Il mio primo pensiero, testuali parole, fu: CAZZO CENTRA EINSTEIN CON LA FILOSOFIA?
    Già allora ero conscio della mia ignoranza e bastarono pochi paragrafi per capire come mai uno dei più importanti fisici e divulgatori scientifici della storia dell’umanità fosse trattato in uno dei più completi manuali di filosofia per studenti.

    LA RELATIVITA’

    Appunto. Ma non come matematica formula (eugualeemmeccialquadrato) bensì come forma mentis grazie alla quale si è in grado di osservare avendo contemporaneamente più prospettive, tutte ugualmente consapevoli e concrete, corrette ma anche sbagliate.
    Può sembrare banale, ma così non è. Innanzitutto perchè prima di un certo modo di fare scienza il concetto non era proprio definito, ma poi anche perchè l’operazione è molto più complessa di quanto possa sembrare a prima vista. Non si tratta di “mettersi i panni dell’altro”, bensì si tratta di saperli addirittura “vivere”.

    Il mondo non è piatto e la sua sfericità implica che metà della Terra sia al sole e l’altra metà al buio. Entrambe le realtà sono vere, ma se non sappiamo assumere entrambe lo prospettive o sceglierne una più lontana che ce le faccia osservare entrambe simultaneamente, non potremo mai neppure concepire questa cosa banale.
    Tu hai l’enorme merito di saper divulgare questo difficilissimo concetto mentre l’argomento da te affrontate ha l’altrettanto nobilissimo merito di esemplificarlo alla perfezione.

    E così, leggevo questo fulgidissimo periodo
    quella giapponese non è, quindi, una masochistica e cinica mancanza di happy end, quanto piuttosto un senso di completezza che non abbisogna di ulteriore specificazione e questo perché la loro cultura popolare è legata a fil doppio a valori (etici, laici e religiosi) provenienti dal confucianesimo e dalla filosofia zen (padri del bushidō), i quali, come è noto, hanno precetti e priorità decisamente diverse da quelle indicate agli anglosassoni dal calvinismo e dal protestantesimo
    per un breve istante mi sono sentito di nuovo un ingenuo diciottenne alle prese col suo Veca nell’arduo tentativo di capire ciò che non è di immediata comprensione, ossia che la conoscenza non è fatta di verità bensì di prospettive.

    Grazie di cuore Herr Professor Kasabake!!!!!

    PS: L’Herr Professor conclusivo non è solo un omaggio ad Einstein, ma anche e sopratutto segno dell’involontaria influenza che sta avendo su di me il libro che sto leggendo attualmente, che tu sicuramente conoscerai: La Svastica sul Sole (The Man in the High Castle) di Philip Dick. Sto colmando questa lacuna narrativa con grande piacere e ho trovato bizzarro che questo libro faccia mescoli proprio la cultura giapponese e occidentale, proprio come tu stai facendo con questa mirabile saga di post giunta al penultimo appuntamento.
    Ora però chiudo sul serio, prima che il Signor WordPress mi mandi direttamente la scomunica per eccessiva verbosità 😀

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    • Come sempre (come spesso), quando leggo un tuo commento ad un tuo post, il mio cervello parte in quarta, come se avesse ricevuto una dose di qualche strano allucinogeno che mi fa aprire nuove porte su terreni che pensavo già esplorati ed allora, con le tue metafore, con i tuoi omaggi, con la tua cultura classica ed umanistica (ma più viva della mia, più giovane ed aggiornata), mì’incammino verso nuovi pensieri: persino la mia sintassi si modifica e mi diverto a sperimentare, giocando con le valenze delle parole (non a caso tu spesso modifichi i fonemi tendo ferma la freccia semantica di un vocabolo e crei nuove parole… uno dei plus dei tuoi articoli…).

      Considerando la foto che ho messo qui sotto, penso sia già notevole se hai letto fin qui… Io stesso avrei recuperato questo periodo dopo aver esaminato con scrupolo l’immagine di Marina Orlova che tiene in mano un libro…

      Marina-Orlova

      L’immagine è un omaggio a te ed alla tua capacità di farmi sempre sentire più importante di quanto io non sia, il che è una bella cosa, considerato che, tolti pochi santi o asceti, tutti gli esseri umani sono sensibili alla vanteria.

      Dunque, ben vengano i tuoi accostamenti quasi irriverenti (non per me, ovviamente, che sono l’indegno ricevitore di tali paragoni improponibili… da Einstein al tuo Veca… che poi, questo “tuo” messo davanti ad un autore, un pronome possessivo che fa stare più vicini noi, comuni mortali, dei titani del pensiero e della letteratura… un vezzo così da umanista che abbiamo entrambi… come il papà di Indy, quando nel terzo film della saga, dopo aver brillantemente sgominato la minaccia del pilota di caccia che voleva abbatterli sulla spiaggia, usando uno stormo di pennuti, recita a memoria il “suo” Carlo magno…).

      Mi sovviene un verso di un giovane poeta americano, che diceva:

      La migliore risposta alla tomba di un bambino
      è sedersi e giocare a fare il morto

      Stessa cosa, parafrasando, vale con i tuoi commenti, profondi e ricchi di contenuti:

      L’unica risposta ad un commento polidimensionale di Lapinsù
      è dare briglia sciolta alla tastiera e far volare il cervello
      in infiniti Out Topic

      Un abbraccio a distanza.

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      • Caro Kasabake,
        le virtù che ricerco nelle altre persone sono poche: bontà, onestà, intelligenza.
        E un corollario di quest’ultima è la capacità di saper stimolare e pungolare l’intelletto acchè produta nuovi pensieri, nuove idee, nuove riflessioni così da capire meglio se stessi, gli altri, il mondo e – per quanto sia possibile – la vita.
        Il fatto che per il breve istante necessario a leggere il mio commento io abbia rappresentato questo per un’altra persona mi riempie di orgoglio, un orgoglio così smisurato da vergognarmene.

        Buona giornata amico.

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