Eroe ed Onore nel Cinema Americano e Giapponese – Capitolo 1: Il Cowboy

The-Serachers-John-Wayne-as-Ethan-EdwardsScratch an American movie hero, and you’re likely to find a gunslinger somewhere below the surface! (Gratta la superfice di un film americano di genere eroico ed è molto probabile trovarci sotto, da qualche parte, un pistolero cowboy)”, così sentenziò a suo tempo la brillante giornalista di Chicago, Tasha Robinson.

Questa affermazione non è una solo una bella frase ad effetto, pronunciata con il solito stile massimalista dei giornalisti statunitensi, ma un enunciato che conteneva una grande verità: per chiunque (sia esso uno storico del cinema o un semplice appassionato come me) guardi un film o una fiction televisiva di genere action o bellico, per lo più di produzione statunitense, ma anche per estensione occidentale in genere (come vedremo poi), risulta infatti abbastanza evidente che il modello ed il prototipo dell’eroe americano derivi proprio dal canone, stabilito a suo tempo da quel prodotto dell’industria culturale statunitense in cui si narravano le gesta dei pionieri, in una versione romanzata e distorta del vecchio West, dove il bene ed il male, il giusto e l’ingiusto, venivano declinati attraverso figure mitologiche, spesso completamente avulse dalla realtà, ma di fortissima valenza epica, ossia il cosiddetto genere Western.

StagecoachSia chiaro da subito che non ho intenzione di affrontare in questa sede gli aspetti etici e storici più complessi di tale operazione culturale, ma solo la valenza ontologica, che dietro lo specifico filmico ha costruito la figura ed il concetto di eroe stesso nella cultura cinematografica e televisiva americana, esprimendosi in un contesto narrativo in cui pur divenendo tutto metaforico, veniva ugualmente raccontato agli spettatori come fosse stato reale: i film erano quindi parabole di una religione, narrata attraverso esempi visivi ed un’aneddotica fatta di scene madri e personaggi immortali, con cui infine il cinema rivelava la nascita di una fetta importante della nazione americana.

Stabilita tale limitazione, sarà per noi vero western solo quella cinematografia che esalta le figure del cowboy, delle giubbe blu, dello sceriffo di confine e che demonizza (senza appello e senza redenzione) gli Indiani, i Pellerossa, ossia tutti quei popoli che sono oggi, giustamente, chiamati “nativi americani” e che di fatto sono stati oggetto di un genocidio perpetrato in modo intenzionale, pianificato militarmente, politicamente discusso e strategicamente applicato.

Red-RiverI veri western che c’interessano, quindi, non sono decisamente quelli del crepuscolo del genere, ovvero quelle opere, per lo più realizzate negli anni ’70 e zone temporali limitrofe, ipocritamente prodotte da parte della stessa Hollywood che anni prima aveva brutalizzato la verità storica, nelle quali il tentativo di ristabilire equità morale produsse spesso film artisticamente scadenti dal punto di vista tecnico e narrativo, ma divenuti famosi solo per il nuovo e diverso punto di vista nei confronti della tradizione razzista (uno fra tutti, la pretenziosa ed ingiustamente sopravvalutata pellicola “A Man Called Horse – Un uomo chiamato cavallo” del 1970, di Elliot Silverstein, con un Richard Harris che deve a questo film la sua inutile notorietà).

No, i film che interessano il nostro più ampio discorso sull’eroe americano sono quelli dell’età dell’oro del genere, quelli in cui Hollywood cantò le gesta di eroi solitari nelle terre selvagge a occidente degli USA (wild west), cowboy in un perpetuo confronto tra natura e civiltà, costantemente in  difesa di una estrema libertà da ogni costrizione sociale e cercando la simbiosi con quella pianura americana, nella quale l’aratro degli agricoltori e la ferrovia segneranno per sempre la fine sia dei bufali che degli indiani.

Winchester-73Osserviamo che il cowboy americano è di fatto un cavaliere, un mandriano di vacche ed anche un esploratore di terre di confine: questo lo rende fratello di tanti suoi omologhi in giro per il mondo e per la storia, come i gauchos ed i vaqueiros dell’America latina e del Messico (da questi ultimi, poi, i cowboy statunitensi presero inizialmente sia l’abbigliamento tipico, sia il dizionario: mustang, lasso, sombrero, chaparro, bronco…), ma anche come i csikos ungheresi, i cavalieri andalusi o i cosacchi russi ed ucraini.

Tuttavia, nessuno degli altri è mai andato aldilà della creazione di miti ed eroi tutti interni alla loro storia e cultura: nessuno altro, ha effettivamente mai generato un mito con una popolarità internazionale anche solo lontanamente paragonabile a quella del cowboy statunitense.
Questo chiaramente rende già di per sé il cowboy americano un unicum, ma vediamo di scoprire di più sulla sua eccezionalità.

High-NoonCominciamo anzitutto col dire che, raccontati oggi, con lo sguardo illuminato di un cineasta contemporaneo (penso ai fratelli Coen del loro bellissimo “True Grit – Il Grinta”, versione datata 2010 del classico ed omonimo romanzo di frontiera del 1968 di Charles Portis, da cui già nel 1969 fu tratto un celeberrimo film), quei mandriani del selvaggio ovest apparirebbero come dei disadattati psicopatici, ma sbaglieremmo anche se cercassimo davvero di storicizzare quelle figure, perché ne tradiremmo la natura leggendaria di esploratori e rifugiati, provenienti da altre forme di civiltà.

Si sappia, infatti, che il cowboy cinematografico è solo un invenzione narrativa, una splendida metafora di libertà individuale e di rigetto del confine e della legge delle corporazioni, ma anche, nel suo lato oscuro e pericoloso, di rifiuto dell’immigrato e della demonizzazione di tutte le razze non ariane.

The-Man-Who-Shot-Liberty-ValanceDal punto di vista letterario e cinematografico, il genere western nasce negli Stati Uniti con l’inizio del 20° secolo ed ebbe il suo primo massimo esponente in Tom Mix, per poi scindersi nelle due anime che l’hanno sempre contraddistinto: l’intrattenitore che mette in mostra i suoi trucchi e le sue abilità con la pistola ed il cavallo, in stile Buffalo Bill e l’eroe romantico, forte e timido, quel silenzioso uomo di azione che fu incarnato per sempre dall’epica figura di John Wayne.

Questi è il nostro campione, perché se già con i suoi film western più belli canonizzò in modo imperituro la tipologia del cowboy hollywoodiano, altresì, con le sue interpretazioni in film di soggetto bellico e più in generale avventuroso, esportò la medesima freccia semantica dell’eroe, nata nel western, applicando le sembianze di tale archetipo a tutti gli altri generi cinematografici ove si richieda un eroe: per questo motivo, possiamo serenamente affermare che nel caso di John Wayne, più che di un interprete popolarissimo, parliamo di una vera leggenda.

Sands-of-Iwo-JimaPermettendoci per un istante una brevissima deviazione, prendiamo a prestito dal genere bellico un film dove si può osservare al meglio quella reincarnazione degli ideali western operata dallo stesso Wayne di cui parliamo, “Sands of Iwo Jima (Iwo Jima, deserto di fuoco)”: in questa pellicola del 1949, il nostro divo interpreta il sergente Stryker, addetto all’addestramento rapido dei marines per la prima linea, quindi un soldato con il difficilissimo compito di preparare alla morte giovani uomini, facendo loro sacrificare ricordi, sentimenti e famiglia sull’altare della patria; le valenze religiose e salvifiche di questo ruolo sono palesi e l’impatto della recitazione di Wayne gli varrà anche la nomination all’oscar.

Una sequenza valga per tutto il film: atterrato ad Iwo Jima, allo scopo di conquistare gli insediamenti nemici, Stryker osserva inerme lo sterminio dei suoi uomini operato dai mitraglieri tedeschi, la morte straziante proprio di quei ragazzi che aveva preparato alla battaglia; il sergente, a quel punto, si sgancia dal suo zaino e dalla sicurezza della sua postazione, corre in mezzo al campo di battaglia, afferra gli esplosivi dal cadavere di uno dei soldati, sfreccia su per le scale posticce, fatte di canne di bamboo, del bunker nazista, passando letteralmente in mezzo ai proiettili che gli fischiano attorno, si ferma persino di fronte alle cannoniere nemiche, innescando l’esplosivo, noncurante dei colpi che arrivano da ogni parte, in attesa che passi il tempo necessario per permettere all’esplosione che vuole creare di fare il maggiore danno possibile, quindi, senza ancora morire, lancia le bombe nel bunker tedesco e salta in aria per la conseguente esplosione; una morte sacrificale che permetterà la libera avanzata delle truppe americane, con conseguente vittoria e bandiera issata con orgoglio dai marines sul monte Surobachi.

The-Quiet-ManA più di 26 anni dalla sua morte, il Duca (Duke, così infatti era soprannominato il nostro) è ancora oggi venerato negli USA come la personificazione stessa dell’eroe americano: coraggioso, tenace, inflessibile e portatore di grandi valori morali, ogni suo ruolo cinematografico, dal primissimo come protagonista nel giovane Ringo Kid di “Stagecoach (Ombre rosse)”, fino all’estremo saluto dell’anziano personaggio di John Bernard Books in “The Shootist (Il pistolero)” (l’ultima interpretazione di Wayne, tre anni prima della sua morte), è stato sempre visto dal pubblico degli spettatori in totale identificazione tra l’uomo ed il personaggio.

Alla sua morte, l’allora Presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter dicharò: “[…] John Wayne was a symbol of many of the most basic qualities that made America great: the ruggedness, the tough independence, the sense of personal conviction and courage, on and off the screen, reflected the best of our national character (“John Wayne era un simbolo di molte delle maggiori fondamentali qualità che hanno fatto grande l’America: la robustezza, la tenace indipendenza, la coscienza delle proprie convinzioni ed il coraggio che, dentro e fuori dello schermo, riflettono il meglio del nostro carattere nazionale) […]”

The ShootistDopo quell’incredibile generazione di film, che consacrarono la Monument Valley (dove sono stati per decenni ambientati i maggiori film western) come un luogo dello spirito americano , il mito del cowboy divenne una sorta di ideale planetario e non solo per l’ovvio potere mediatico con cui la cultura americana globalizzò tutto l’occidente, sdoganando ed imponendo come dominante la sua cultura popolare (dove tutto appariva più grande, più bello e più estremo, come conseguenza dell’anarchismo insito nel codice genetico del capitalismo americano), ma per quella dimensione utopica in cui ogni storia western veniva ambientata, un sogno vivente secondo il quale gli Stati Uniti del 19° secolo vennero per decenni rappresentati quasi come uno società senza stato, dove uomini armati si aiutavano a vicenda, con o senza licenza di uccidere.

In questa operazione Wayne non fu solo, poiché, senza altro indugio, diciamo subito che nella storia del cinema occidentale c’è stato un regista che ha rappresentato sia la figura del massimo esponente del genere western, sia quella del massimo divulgatore di tale genere e quest’uomo fu John Ford, classe 1894, incredibilmente prolifico ed ancora oggi considerato un modello per moltissimi direttori di scena, non solo americani (oltre che da personalità americane illustrissime come Orson Welles, Clint Eastwood, Steven Spielberg, Martin Scorsese e tantissimi altri, gli attestati di stima espressi anche da giganti della settima arte stranieri, quali François Truffaut, Akira Kurosawa, Wim Wenders, davvero non si contano).

The-Searchers-01Infine, per quella meravigliosa coincidenza d’intenti, di storia e di evoluzione casuale, ci fu un film dove tutto questo venne rappresentato in modo esemplare, ma anche contemporaneamente messo pericolosamente in crisi, un’opera di altissimo valore artistico, tra i film più importanti della storia del cinema, dove sia il regista John Ford, sia l’attore protagonista John Wayne raggiunsero, assieme, un climax di vigore, tensione emotiva, capacità comunicativa ed esemplarietà parabolistica che ha davvero pochi eguali nella storia della settima arte, un film che da solo riassume tutto ciò che riguarda questo primo capitolo della nostra digressione: “The Searchers (Sentieri Selvaggi)”.

Con una coscienza quasi preveggente, da parte di Ford, dell’incredibile simbolicità visionaria di questa pellicola, il film inizia con una porta che si spalanca sull’esterno, aprendo le buie mura domestiche di un interno verso la luce del sole e finisce con la medesima inquadratura e medesima porta che si chiude: in entrambe le occasioni, perfettamente incorniciato nella luce dell’uscio, come un’inquadratura dentro l’inquadratura, il personaggio di Ethan Edwards (all’inizio delle storia, egli entra nella vita di questa famiglia di coloni americani, che sta per essere dilaniata dagli accadimenti del destino ed alla fine, dopo che questa si è ricongiunta grazie al suo intervento se ne va da solo, perché per lui, eroe solitario, non c’è posto in quella casa e forse in nessuna).

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Joseph Campbell, uno dei più eminenti storici statunitensi delle religioni e dei miti, spiegava nei suoi saggi che l’eroe è un uomo che dapprima lascia la sua famiglia (o comunità), attraversa poi un periodo di iniziazione (immaginiamo, nel caso di Ethan Edwards, che questo possa essere stato il suo servizio durante la guerra civile, a cui si fa riferimento nei suoi racconti all’inizio del film) per ritornare infine a casa sua come uomo cambiato, in grado di salvare il popolo dal male che lo tormenta.

The-Searchers-03The Searchers” è la storia di una missione di recupero e salvataggio, anzi è la storia di tutte le storie di questo tipo, il modello su cui l’intera cinematografia dei film di azione americani si baserà: tornato da un’esperienza militare di cui vengono appunto forniti confini incerti e misteriosi, Ethan assisterà all’inganno con cui i demoniaci indiani Comanche attireranno lontano dalla fattoria gli uomini della famiglia, per arrivare poi di nascosto, a notte fonda, distruggendo, violentando ed uccidendo tutte le donne rimaste a casa ed infine rapendo le fanciulle più giovani; già 16 anni prima, Ethan aveva vissuto l’incubo ed il dolore straziante della sua donna violentata ed uccisa dagli indiani ed ora tutto questo si ripete sotto i suoi occhi e sarà la goccia che farà traboccare il vaso, trasformando Ethan in una furia omicida, determinata a scovare i rapitori, massacrarli senza pietà e riportare le ragazze rapite a casa.

Quando, infine, dopo anni ed anni di ricerche, Ethan rintraccerà la ragazza rimasta prigioniera degli Indiani, sarà tentato persino di ucciderla, perché la troverà trasformata, nell’aspetto e nei modi, dopo tutto quel tempo più simile ad una donna Comanche che non ad una bianca ariana americana: una follia ed un odio, cresciuti negli anni e registrati in modo magistrale dal regista e dall’interprete, in una narrazione che influenzerà per sempre tutto il cinema occidentale.

The-Searchers-02Una storia di prigionia, caccia all’uomo, redenzione e riconciliazione, che ha tenuto tutta l’America incollata prima al libro e poi allo schermo cinematografico e che ha palpitato con i nervi scoperti, immedesimandosi nei vari personaggi, soffrendo per Ethan e perdonandogli tutti i suoi eccessi di giustiziere.

Nel Marzo del 2013, in un suo intervento scritto sulla rivista “The Hollywood Reporter”, il grande regista Martin Scorsese equipara l’odio profondo che il personaggio di Ethan Edwards, protagonista della pellicola, ha nei confronti dei Comanche, a quello che Achab ha nei confronti di Moby Dick nel romanzo di Melville: un paragone grandioso, ma decisamente non azzardato, se pensiamo che verosimilmente il character di Ethan è il più spaventoso, violento e determinato che lo stesso Wayne abbia mai rappresentato in tutta la sua carriera.

Nella prima parte del film, c’è un’impressionante sequenza in cui Ethan, durante le sue ricerche, dopo essersi imbattuto con il suo gruppo nel cadavere di un indiano Comanche sepolto sotto una roccia, fa saltare fuori del cranio, tra la perplessità generale dei suoi compagni, entrambi gli occhi del morto a colpi di pistola: Ethan odiava talmente tanto quelle popolazioni, colpevoli senza possibilità di pentimento, che il suo desiderio di sterminio lo aveva portato persino ad interessarsi delle loro tradizioni e leggende, finendo anche per credere in esse e così, con il suo gesto violento, seguendo i dettami della loro religione, aveva tolto all’anima del defunto anche la possibilità di entrare nelle terre degli spiriti, costringendola invece a vagare per l’eternità, come uno dei tanti venti che soffiano sul deserto.

Taxi-DriverThe Searchers” è una storia di follia ed ossessione, che diventa un viaggio dentro l’inferno per salvare il cuore innocente di una fanciulla dai mostri che la tengono prigioniera, come nella sceneggiatura di Paul Schrader scritta per “Taxi Driver” di Scorsese o in maniera ancora più evidente come nel plot della pellicola “Hardcore”, sempre scritta da Schrader ed in questo caso anche diretta, con un George C. Scott novello Ethan Edwards, alla ricerca disperata di sua figlia, scomparsa nel sottobosco dei film a luci rosse.

Per questa puntata ci fermiamo qui: nel prossimo capitolo, prima di vedere come l’individualismo sfrenato, dell’eroe americano così concepito, si scontri con il senso del dovere sociale insito nella cultura giapponese, andremo nel futuro di Star Trek, insieme all’epica del passato.


In questo post abbiamo parlato dei seguenti film:

Stagecoach bannerStagecoach”, USA 1939
Regia di John Ford, sceneggiatura di Dudley Nichols
dal romanzo di Ernest Haycox “The Stage to Lordsburg” del 1937

Sands of Iwo Jima bannerSands of Iwo Jima”, USA, 1949
Scritto da Harry Brown e James Edward Grant
Diretto da Allan Dwan, interpetato da John Wayne

The-Searchers-bannerThe Searchers”, USA, 1956
Sceneggiatura di Frank S. Nugent dal romanzo omonimo di Alan Le May
Regia di John Ford, interpretato da John Wayne.

The-Shootist-bannerThe Shootist”, USA, 1976
Scritto da Glendon Swarthout, Scott Hale e Miles Hood Swarthout
Diretto da Don Siegel

Taxi-Driver-bannerTaxi Driver”, USA, 1976
Sceneggiatura di Paul Schrader
Regia di Martin Scorsese, interpretato da Robert De Niro e Jodie Foster

Hardcore bannerHardcore”, USA, 1979
Scritto e diretto da Paul Schrader
Interpretato da George C. Scott, Peter Boyle e Season Hubley

True-Grit-bannerTrue Grit”, USA, 2010
Scritto e diretto da Joel Coen ed Ethan Coen
Interpretato da Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Matt Damon e Josh Brolin


 

35 pensieri su “Eroe ed Onore nel Cinema Americano e Giapponese – Capitolo 1: Il Cowboy

  1. Questo sì che è un Signor Articolo! La tematica che stai affrontando mi piace molto e soprattutto hai toccato temi riguardante la visione del cowboy molto interessante. E quindi nel prossimo articolo parlerai di Star Trek? Non vedo l’ora di leggerlo allora!

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    • Grazie tantissimo, Butcher: mi sostieni sempre, ad ogni articolo e sappi che ovviamente è una cosa che mi fa molto piacere, soprattutto quando si scrivono post molto complessi come questo, su vicende articolate e difficilmente riassumibili in poche parole se non si vuole rischiare di essere superficiali!
      C’è un filo conduttore molto chiaro, che lega la figura dell’eroe nella letteratura occidentale dagli antichi greci ad oggi, ma come un fiume, anche questo filo a volte scorre sotto terra per poi riemergere di colpo in modo visibile… in questi post io mi sono posto l’obiettivo di seguire questo percorso, ma lo farò andanti avanti ed indietro, complicando un po’ le cose per non essere troppo didascalico… perché ad un certo punto, all’inizio del ‘900 la nascita del cinema ha preso dalla letteratura i suoi archetipi e li ha trapiantati in celluloide…
      Con Star Trek andremo fintamente nel futuro per tornare ai miti greci e poi ad Artù e da là al Giappone… perché se un cavaliere prende il nome di samurai non cambia solo l’armatura, ma anche il codice d’onore…
      Persone come te rendono bello scrivere!

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  2. Ovviamente con questo post mi hai mandato in brodo di giuggiole. E’ tutto ottimo: la parte sulla storia del western, l’analisi della figura di John Wayne (e detto da un superfan come me vale doppio), perfino la scelta delle foto e dei film di cui parlare… tutto semplicemente perfetto.
    Tra le foto che hai scelto, la più bella è quella tratta da Il pistolero. Non soltanto perché è un film che ogni fan del Duca porta nel cuore, ma anche per il suo valore simbolico: lì non c’è soltanto un uomo che insegna a sparare a un ragazzino, ma il cinema di ieri (simboleggiato da John Wayne) che tramanda i suoi insegnamenti al cinema di oggi (personificato da Ron Howard), nella speranza che riesca a preservare i suoi valori fondamentali. E Ron Howard in una certa misura continua ad essere un baluardo del cinema di alta qualità, del cinema “come si faceva una volta”. Dico in una certa misura perché alterna film grandiosi (come quelli con il suo alter ego Russell Crowe) a dei meri prodotti commerciali, confezionati con ottima cura magari, ma privi di quell’anima che puoi trovare anche nel peggior film di John Wayne.
    Non c’è dubbio che lo stesso Ron Howard sia molto affezionato al western: non a caso, dopo il boom con A beautiful mind, si cimentò proprio in questo genere con The Missing. Purtroppo fu un film in cui sbagliò tutto lo sbagliabile: fu un errore farlo subito dopo A beautiful mind (con il quale nessun film avrebbe retto il confronto), fu un errore farlo durare 137 minuti, fu un errore pensare di poter conciare Tommy Lee Jones come un capellone e pensare di poter risultare credibile. Il risultato fu un megaflop, dopo il quale Ron Howard si guardò bene dal ripetere l’esperimento. Ma ripeto, preferisco un film malriuscito ma “con anima” (come The Missing) a un film in confezione extralusso realizzato senza un briciolo di sentimento (come Angeli e demoni).
    P.S.: Il Duca ti stringerebbe la mano e ti darebbe una vigorosa pacca sulla spalla per aver parlato così diffusamente di Ethan Edwards. Amava così tanto quel personaggio che chiamò Ethan uno dei suoi figli.

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    • Se fai una torta ed a dirti che sei stato bravo non è tua moglie o un tuo amico, ma Gino Fabbri, il pasticciere di Granarolo che ha vinto a Lione la kermesse come campione del mondo di pasticceria, di ceto sai di aver fatto una buona torta, anzi ottima.
      Se ti fa i complimenti, per il tuo articolo sulla genesi dell’eroe nel cinema d’azione, nello specifico capitolo dedicato al genere western, non un blogger qualsiasi ma quello che è forse il più grosso esperto ed appassionato di quel genere e che non a caso ha scelto come nome su WordPress quello di Wwayne, beh, allora sai di essere arrivato al traguardo.
      Non dico altro e mi godo la tua medaglia, Duca!

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  3. Eeeeeh maestro, io con i western centro come i cavoli a merenda, gli unici due che ho visto sono il sukiyaki di takashi miike (epico) ed il django del quentin (epico) per il resto la mia cultura si ferma ai due trinita’ (epici) indi ben vengano gli approfondimenti che aprono il mio zuccone 😀 applausi, meritatissimi applausi.

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  4. Faccio ammenda e ammetto di non essere un “follower” [per usare un termine moderno così a simboleggiare appunto la mia distanza ai temi in questione] del western e in vita mia ne ho visti solo una manicata [tra cui IL GRINTA dei Coen che ha un posto speciale nel mio database mentale di film visti 😉 ].

    Il tuo articolo però è talmente bello, appassionato e scritto bene che me lo sono divorato in un sol fiato e mi ha fatto sentire in colpa per non aver mai recuperato quei grandi classici e quelle pietre miliari che hanno reso il cinema americano [e non] quello che è oggi!
    Perché sono perfettamente consapevole di quanto il western abbia influenzato la settima arte e avere un bagaglio di conoscenze su questi argomenti aiutano a vedere il cinema moderno con occhi diversi. Ed è quello che fai tu! La forza scorre potente in te Maestro Kasa!

    Aspetto con ansia i prossimi capitoli 😉

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    • Non speravo di ricevere due elogi da due blogger che stimo così tanto e non lo dico per piaceria, perché li leggi i miei commenti e lo sai che ti stimo!
      Inoltre, vuoi sapere la cosa buffa?
      Da giovane non sopportavo il genere western ed anzi soffrivo come un cane quando mio padre sceglieva titoli di quel tipo quando la sera si guardava la TV, figurarsi quando poi si andava al cinema: erano altri tempi e già il telecomando era un lusso…
      Poi, con l’università è cambiato tutto: ho incontrato persone che mi hanno insegnato la visione critica e non preconcettuale delle cose ed ho aperto gli occhi su un mondo nuovo, come Harry Potter o Luna Lovegood che riescono a vedere i Thestral ed ho cominciato a riguardarmi pellicole che avevo semplicemente rimosso sotto le macerie delle visioni RAI.
      Su WordPress ho poi incontrato il blogger Wwayne, fiero conoscitore ed estimatore del genere western, comprese le pellicole meno note ed allora ho rinfocolato la passione.
      Quindi, come vedi, fosse solo dipeso da me, non ne avrei visto uno di film western, probabilmente, ma si sa che la vita è strana…

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  5. Eccomi qui, sono in ritardo! Sono stato una giornata a Napoli (hai presente quei viaggi organizzati in pullman?), sono tornato da poco a casa e ho parecchie ore di sonno arretrate… quindi perdonami ma non ho la forza di leggere per bene e di commentare adeguatamente questo meraviglioso articolo per ora. Domani tornerò qui e scriverò il mio “vero” commento. Stay tuned!

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  6. Come hanno scritto PizzaDog e Wwayne, anch’io non ho una grande cultura del genere western, nonostante non sia uno di quelli che evita a tutti i costi film di questo genere (anzi è da un po’ di tempo che ho intenzione di “scoprire” questo genere). Proprio per questo mio desiderio di conoscenza legato al western il tuo articolo cade a pennello e, nonostante abbia visto solo Taxi Driver dei film da te citati, ho riletto un paio di volte ciò che hai scritto, non per capirlo meglio, perché è scritto egregiamente e scorre grazie alla tua solita eleganza nella scrittura, ma per perdermi con te nell’approfondita analisi che parte dal cowboy per poi analizzare le influenze del western sul cinema americano e occidentale, ma anche sulla cultura popolare a stelle e strisce e sull’individualismo ed i valori del tipico eroe americano portatore di una morale superiore, pronto a diffonderla e a farla rispettare con ogni mezzo possibile. Aspetto con ansia il prossimo, anzi, i prossimi articoli, per seguire il filo logico sul quale sei in bilico come il funambolo Petit tra le Torri Gemelle, leggero, libero e appassionato, intento a salutare il pubblico con grazia, senza mai perdere l’equilibrio. Complimenti Kasa!

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    • Un commento possente, fiero e generosissimo con me, Dave!
      Grandiosamente affettuoso, poi, il paragone con il funambolo, che è poi quello di “The Walk” del tuo Zemeckis, il tuo penultimo post nel vecchio formato, prima del passaggio a quello nuovo di “Ultimissime”.
      Bruci tappe e traguardi con la velocità e l’eleganza di una Bugatti Veyron Supersport, eppure continui sempre a restare una persona educatissima ed un amico sorridente.

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  7. Ultimamente commento i tuoi post sempre “dopo l’amen”… ma tant’è… meglio tardi che mai, no???

    Per farmi perdonare, comincio subito con una delle mie solite digressioni.

    Quando frequentavo il liceo, studiai su un libro cui sono rimasto sempre affezionato.
    Aveva la copertina rossa di cartone morbido – troppo morbido, tanto che presto si gualcì irrecuperabilmente – ma non ne ricordo il titolo esatto. Ricordo però che era scritto in eleganti caratteri Times New Roman che, bianchi sullo sfondo rosso, si stagliavano delicatamente. Ricordo anche che, da qualche parte nel titolo, figuravano le parole “mitologia greca”. Ma ricordo, soprattutto, che l’autore\curatore del libro rispondeva al nome di LUCIANO CANFORA.

    A beneficio dei molti che ignorano chi sia questo signor Canfora, dico che, senza essere esagerati, è uno dei più importanti storici dell’antichità greco-romana.

    Ebbene, in questo libro – invero complicato per un 15enne – venivano analizzate tutti miti greci, poi destrutturati e ricostruiti sia sotto l’aspetto linguistico che sotto quello puramente epico e simbolico, per riadattarli poi all’attualità e infondere nuova luce e nuovi significati a storie che, di primo acchito, possono sembrare banali vicende o leggende, ma che in realtà nascondono innumerevoli significati simbolici.
    Ad esempio: un bambino di V elementare può credere che l’Odissea è SOLO il racconto di un viaggio di ritorno a casa, ma l’analisi profonda del testo omerico ci dice molte altre cose sul personaggio di Ulisse e circa le sue imprese. La sete di conoscenza, innanzitutto, la sua umanità, la sua intelligenza, il suo desiderio di capire che si affianca a quello di scoprire, il suo essere “eroe 2.0” rispetto al guerriero Achille del precedente poema, l’Iliade (ti prego, perdonami il neologismo azzardato). La poliedricità della figura di Ulisse fu mirabilmente sintetizzata da Dante in uno dei versi più famosi della Commedia: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza. Queste parole sono le “più perfette” possibili da mettere in bocca al re di Itaca.

    Quel libro di Canfora, concludendo, è stata una pietra miliare delle mie letture in quanto mi ha insegnato sopra ogni altra cosa che qualunque testo, qualunque linguaggio e qualunque storia possono avere molti livelli, molti strati e quindi molti significati. Di più: mi ha fornito gli strumenti per riconoscere quei livelli e quei significati, tradurli e infine comprenderli.

    Pertanto, Kasabake, sappi che d’ora in poi io ti nomino mio personalissimo “Canfora della Settima Arte”, in quanto leggere questo tuo ultimo post (come per altro leggere anche gli altri” ha avuto su di me lo stesso effetto che ebbe la lettura del libro rosso di Canfora tanti anni fa.

    PS: Immagino che storcerai un po’ il naso per il paragone con questo signore – ahimè defunto – canuto e discutibilmente pettinato, tuttavia sono certo che ne saprai cogliere la valenza simbolica e, se si può dire, intellettuale!!!!

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  8. Parentesi

    Potrebbe essere il mio epitaffio, scritto sulla lapide, ma anche il titolo di un racconto fantastico di varia umanità.

    Parentesi, appunto: le apro in continuazione.

    Prima Parentesi.

    Il tuo post è arrivato quattro ore fa, senza alcun avviso, alcuna notifica, né via mail, né in altro modo ed ovviamente me ne sono accorto solo causalmente… la cosa mi sta snervando perché oltretutto rispondere ai commenti mi diverte quanto farne e così rischio anche di sembrare uno che snobba gli amici…

    Seconda Parentesi.

    Luciano Canfora è un mito, una leggenda egli stesso, una specie di Robert Langdon ante-litteram ed ha un posto d’onore nei ricordi di qualsiasi studente di Lettere e Filosofia, quale io sono stato: Canfora sta alla storia dei miti, quanto Roland Barthes sta alla storia della letteratura o a Noam Chomsky alla linguistica.

    Prolifico a dismisura, divulgatore eccellente ed incredibilmente arguto.

    Essere paragonati anche solo scherzosamente ad un simile pilastro è fonte di orgoglio pressoché infinito…

    Terza Parentesi.

    Siamo malati dello stesso morbo, quello che io e te potremmo chiamare la AES (Adam and Eve Syndrome), la Sindrome di Adamo ed Eva, dalla partenza lontanissima che facciamo quando in una digressione affrontiamo un concetto che desideriamo non venga frainteso e soprattutto di cui vogliamo che chi legge comprenda tutte le implicazioni: tu sei anche molto bravo a moderarti, io no…

    Finite le parentesi, vengo a risponderti al commento come avrebbe fatto una persona non affetta da AES…

    Sapevi da quanto tempo avevo in gestazione questa serie di post, di cui questo sopra è solo il primo capitolo (non sarà poi tanto lunga, la serie, comunque) e con la coscienza che fosse un polpettone mica da ridere, ho accolto i commenti tuo e degli altri amici con grande gioia!

    Mi paragoni ad un grande esegeta e non perdo neanche tempo a dirti quanto sia immeritato l’accostomento e quasi blasfemo, perché semplicemente me lo tengo stretto per accrescere la mia autostima.

    Ringrazio il cielo di aver notato casualmente il tuo commento, perché il piacere di leggerlo è stato fortissimo ed il solo pensiero che lo perdessi mi spaventa…

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    • Mi raccomando, non fare mai verbo a mia moglie di questa storia dell’AES: potrebbe prenderla come scusa per internarmi. Non che possa biasimarla per questo… ma sai com’è… mi spasso troppo a scrivere fregnacce su WP.

      Fortunatamente non scrivo solo fregnacce, le alterno a discorsi seri, più rari ma cionondimento sinceri.
      E quando ti ho paragonato a Canfora non scherzavo: ero serissimo. Va da sè che tu non sia esattamente come Canfora, altrimenti non staresti qui a perdere tempo con me e a leggere i commenti che scrivo quando fuori il sole è ancora nascosto dietro l’orizzonte, tuttavia tu eserciti su di me la stessa forza riflessiva ed esegetica che a suo tempo mi instillarono le letture di Canfora. E tanto mi basta.

      Come direbbe un signore barbuto che entrambi amiamo, io ti leggo e affermo: La forza scorre potente in questo ragazzo

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    • Grazie tantissimo, Cerach! Mi fanno particolarmente piacere le tue lodi, proprio perché ci conosciamo da poco e quindi so che non sono alterate da complicità dettate dall’amicizia o dall’abitudine.
      Perciò, sono onorato.

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    • Grazie Fed! Mi fa moltissimo piacere che tu abbia apprezzato la mia digressione!
      La tua presenza mi permette di rivolgere a te, che sei fotografo e cultore di fotografia (non sono necessariamente cose che convivono) la seguente domanda: considerando che esiste da sempre uno strano legame (tra sudditanza e fonte di ispirazione) tra un grande cineasta e la grande fotografia (lo stesso modo di percepire e guardare la realtà, il cogliere un attimo o una molteplicità di attimi che divengono un’azione, la costruzione dell’immagine scenica e del campo cinematografico che ricorda il lavoro del fotografo ed infine l’arduo compito del direttore di scena stesso che deve illuminare il set), come vedi la convivenza tra le due arti (fotografia pura e cinema)? Non hai l’impressione che quando un cineasta si esprime con la fotografia (penso a quelle che scattava per gusto personale uno come Kubrick) o quando un fotografo si cimenta nella regia (penso ai lavori di David LaChapelle o di Sam Taylor-Johnson), tendono entrambi ad essere, come dire, un po’ ingessati?

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      • Grazie kasabake per la replica. Sono appassionato di cinema e di fotografia (che pratico a livello amatoriale), l’argomento è spinoso perchè in merito all’indubbio rapporto che c’è tra le due arti, si può dire tutto e il contrario senza colpo ferire. senz’altro ispirazione, composizione e pre-visualizzazione sono i elementi chiave di collegamento.
        La Taylor e La Chapelle li conosco in modo marginale perchè la loro è un genere di fotografia molto concettuale (direi più vicina all’artwork). Io non mi sono evoluto in quel senso, sono rimasto legato alla fotografia classica (paesaggi alla Ansel Adams per intenderci o istantanee alla Casrtier-Bresson) e peraltro non ho visto nessuno dei loro Film. Invece su Kubrick posso dire che se non fosse il grande regista che abbiamo conosciuto, sarebbe stato un grande fotografo, dal mio punto di vista (che evidentemente non collima con il tuo) le sue sono foto molto potenti esattamente come i suoi film. Se osservi attentamente i suoi scatti ti rendi conto della relazione emotiva che instaura con il soggetto, diventa quasi invisibile perciò il soggetto è rilassato quasi mai posa. Non è per niente facile eseguire quegli scatti mettici poi anche la difficoltà tecnica delle analogiche tempi/esposizione/diaframma focheggiatura etc.
        Mi sono sempre chiesto invece come mai i grandi direttori della fotografia del cinema non vengano anche considerati grandi fotografi. Per rimanere in tema prendi John Alcott, la fotografia grandiosa di Barry Lyndon (per non parlare di 2001 ma quella è un’altras toria) vale un quarto di tutto il film. Eppure chi lo conosce come fotografo? Oppure avrai visto sicuramente Hidalgo Oceano di Fuoco, fantastica fotografia ma chi saprebbe dire chi è il fotografo se non ci si informa prima! My two cents!!

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        • E’ un piacere leggere le cose che dici a proposito della fotografia e del rapporto tra le due arti e concordo che l’argomento si presta a considerazioni talmente ampie da riuscire a dire tutto ed il contrario di tutto nella stessa analisi: senza dubbio la Fotografia è più solipsistica ed individuale (a prescindere dalla committenza, artistica o commerciale… penso ad Avedon…) e davvero penso che sia preponderante il concetto stesso di “scatto”, l’istante catturato (anche se la tecnologia sta facendo sfumare un modello prima dai contorni nettissimi), così come nel cinema è preponderante la “scena” o meglio la “sequenza” e la differenza è tutta là, probabilmente, nel confronto tra il significato e l’emozione che trasmette un’immagine statica (da guardare e da riguardare, anche stampata, anche ruotandola) e ciò che invece comunica un flusso di immagini, che da immagini statiche giustapposte una vicino all’latra crea la magia del tempo che scorre.
          Penso, ossia, che il cinema non sia una semplice evoluzione della fotografia, ma un diverso modo di usare le immagini per comunicare, una diversa sintassi ed un diverso linguaggio, con tutti i miliardi di distinguo (penso a quello che diceva Godard su come il cinema proseguisse l’esame della realtà iniziato dalla fotografia, ma anche quel modo di vedere era solo uno dei tanti possibili e non quello definitivo.
          Per altro, i confronti tra le arti sono sempre forieri di profonde considerazioni (per anni si è discusso del valore artistico di un quadro o di una foto che ritraessero la realtà in modo reale o distorto o iperreale).
          Sui registi fotografi e viceversa si potrebbe scrivere un’enciclopedia: adoro Kubrick e sono certo che il tuo giudizio su lui fotografo sia assolutamente condivisibile (preciso che quando parlavo di “ingessato” non volevo esprimere una nota di demerito, ma una considerazione estetica).
          Spero di poter continuare a parlare con te in futuro!

          P.S. Henri Cartier-Bresson è il mio fotografo preferito, mentre tra i giovani contemporanei apprezzo tantissimo il lavoro dello spagnolo Walter Astrada, ma potrei continuare a lungo e pensa quello che potresti are tu, che ti muovi nel tuo ambito!!

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          • Il tuo discorso, con i molti riferimenti e richiami, non fa una grinza e credo che tu abbia toccato il punto chiave in questi due passaggi “istante catturato=fotografia” e “sequenza=cinema”, la differenza è questa e il collegamento è questo.
            Catturare l’attimo può essere anche banale, ma se ti trovi nel posto giusto al momento giusto allora quello scatto diventa unico ed esclusivo. Insomma se sei nel posto giusto devi solo premere il pulsante, “noi pensiamo al resto” come diceva la pubblicità della Kodak. Non parlo di chissà che cosa c’è una foto di Steve McCurry ad esempio di un ragazzino che corre preso di spalle e sta per uscire dalla scena. Bene quella è un’opera d’arte se poi la rapportiamo alla fotografia di McCurry che è spesso costruita e posata lo è ancora di più. Oppure, dato che ti piace Bresson, prendi “Derriere la Gare Saint-Lazare” uno degli scatti più famosi. Quando ha fatto quella ripresa Bresson aveva 24 anni e non era nessuno e dietro quell’immagine c’è tutta una storia che un giorno con un po’ di fantasia vorrò pubblicare sul mio blog. Sarà stato un colpo di fortuna per HCB, chissà, sta di fatto che è un capolavoro assoluto (anche se non tutti la pensano così) .
            Il Cinema invece è sequenza, sono fotogrammi uno dietro l’altro, ma di certo non puoi essere fortunato nemmeno un po’, il Cinema (quello con la C maiuscola) è grandi sceneggiature, progetto, fatica, lavoro, organizzazione etc etc!!
            Dei giovani fotografi conosco e apprezzo Astrada anche se tra i miei preferiti nel fotoreportage c’è senz’altro Alex Majoli. Un saluto!

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            • Concordo su tutto quello che dici, compresi gli esempi mirabili di cui hai parlato: non vedo l’ora di leggere un tuo articolo sullo scatto celebre di HCB anche per chi, come me, non è profondo conoscitore ma solo amante.
              Tra l’altro ti metteresti in un ginepraio, perché HCB è passato da mito da osannare, a padre putativo da demolire ed infine (sembra ora) ad un grandissimo artista da collocare e storicizzare.
              Ognuno cerca di vedere nelle foto ciò che vuole vederci lui stesso, altri cercano di vedere cosa ci vedeva l’artista, altri infine entrambe le cose e la fotografia da sempre, ancor più del cinema e della pittura (con quel misto di casualità, fortuna, tecnica, strategia e sensibilià) si presta a questa molteplicità di letture.
              A volte l’intento del fotografo è netto, palese, potentissimo, altre volte invece sfumato, accennato, quasi casuale, come una barra in mezzo al campo, un errore che diviene cifra stilistica…
              Ma poi l’arte è anche questo? Errori che divengono significanti ed interpretazioni che si affastellano creando nuove forme.
              Non è facile parlare di fotografia ed invidio chi ci riesce: io ti ho letto con passione in questi semplici commenti, quindi sorrido a quanto potrebbe piacermi un articolo lungo su un tema così dibattuto!
              Sono sempre stato curioso di incontrare qualcuno che potesse, con una vulgata adatta anche a chi non è fotografo amatoriale o professionale, potesse parlare di fotografia in modo sereno, senza preconcetti, spiegando a persone come me quanto le cose sono cambiate, come si fa una bella foto oggi e chi sono gli esponenti più attivi ed interessanti della scena.
              Cavoli, ti servirebbe un secondo blog… e magari una seconda vita (la prima dove vivi e ti guadagni da vivere, mentre la seconda per condividere i tupoi pensieri!).
              Buon week-end, con stima e simpatia.

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              • Grazie, grazie troppo gentile. Non sembra affatto che tu sia così profano di fotografia possiedi le giuste chiavi di lettura ed usi terminologie corrette (non potrebbe essere altrimenti dato che scrivi cose così interessanti sul “mito” e ne sai tanto sulla storiografia del cinema).
                Fai centro quando dici “come una barra in mezzo al campo, un errore che diviene cifra stilistica” infatti non è mai il fotografo (ma si potrebbe estendere a qualsiasi altra forma d’arte visiva no?) ma di fatto qualcun altro che coglie (o stabilisce, dipende dall’autorevolezza di costui) gli aspetti artistici che trasforma lo scatto (o l’immagine etc) in “opera”.
                Forse li conosci già, ti allego alcuni indirizzi di blog, più o meno famosi, molto interessanti in merito agli argomenti che abbiamo trattato, fotografia, cinema e quant’altro:
                Punto di Svista http://www.puntodisvista.net/
                Fotocrazia http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
                Con altrettanta stima e simpatia, bw, Fed

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  9. E l’ho riletto una terza volta oggi questo tuo articolo… perché sì, in quell’orizzonte scrutabile solo ad occhi socchiusi che è il west, che è la frontiera, un po’ come per il samurai tra i petali di pesco, anche il cowboy nel canyon ci sta benissimo. Ed in fondo è giusto così, che esista anche quel western lì, fatto di ombre rigorosamente rosse e pistoleri, liberi, davanti al loro bivacco da spegnere col caffè avanzato al primo rumore.

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  10. Oramai io e WordPress siamo due entità distinte, che navigano su orbite temporali talmente sfasate che le notifiche dei commenti mi arrivano con la stessa tempistica con cui arrivava a suo padre nello spazio la voce di Murphy in “Interstellar … Oggi è il 27 Dicembre ed ho visto adesso il tuo commento… che porcheria… Non il tuo commento, ovviamente, che mi inorgoglisce ogni volta che tu, uno scrittore, mi fai complimenti… Tra l’altro ho la sintassi che mi sta scivolando out-of-control in una lunga e lenta débandade, perché ho finito di testare ai fornelli la Irish Cream (da non confondersi con l’Irish Coffee), in cui la potenza del whiskey irlandese (più dolce dello scozzese, grazie al caramello ed alle tre distillazioni) comincia ad inerpicarsi su per la corteccia cerebrale… Good Night!

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