Without a Clue (1988)

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Delle volte si prendono delle grosse cantonate, anche quando si è critici esperti: non sto parlando di me, ma non perché io sia esente da cantonate, ma perché critico esperto non sono davvero!

Quando parlo di recensori cinematografici esperti, che talvolta fanno dei madornali errori di giudizio, penso a uomini come Tullio Kezich, critico di razza, che nel 1980, quando uscì nelle sale il meraviglioso The Elephant Man di David Linch lo definì un «horror di serie B», realizzato da un regista che (sempre a suo dire) era ingiustamente salito agli onori della cronaca dopo un primo cortometraggio splatter a basso
costo ed in questo caso si riferiva addirittura allo stra-cult Eraserhead, primo lungometraggio del geniale regista.

Un giudizio negativo che corrispose ad una totale mancanza di comprensione di quello che negli anni è stato consacrato unanimemente come uno dei mostri sacri del cinema internazionale.

Succede, si può sbagliare.

Poi leggo di come nel 1988 Roger Ebert (critico per eccellenza, il primo giornalista ad aver vinto un premio Pulitzer proprio per la sua attività di recensore cinematografico), sulla sua celebre rubrica domenicale pubblicata dal Chicago Times, stroncò una pellicola appena uscita allora nei cinema Without a Clue: ancora una volta, a mio modesto giudizio, un errore, un assoluto grosso tragico errore.

Ho comprato il dvd di questo film spinto dalla recensione di un blogger che stimo molto (Lapinsu dell’omonima pagina su WordPress) e sono felicissimo di aver fatto questo acquisito: ho visto il film prima solo con mia moglie e poi con dei miei amici ed ancora non mi capacito del perché il critico citato abbia preso questa cantonata.

Il film di Thom Eberhardt (modesto direttore del traffico di scena, autore di trascurabili commedie molto in stile anni ’80, con la sola eccezione del cult catastrofistico Night of the Comet), oltre ad un comparto attoriale di eccellenza, vanta anzitutto uno script straordinario: il soggetto fu ideato da Peter Bradford “Jaws” Benchley (si, avete letto bene, proprio quel Benchley che divenne famoso per aver scritto prima il libro e poi la sceneggiatura del mitico film di Steven Spielberg e che negli anni si specializzò sul tema “squali” e “abissi”), mentre la sceneggiatura ed i dialoghi furono affidati a Gary Murphy e Larry Strawther due tra i più celebri e prolifici scrittori per la TV americana.

Da qui i pregiudizi snob del nostro critico, che bollò il film solo perchè scritto da autori televisivi e quindi incapace degli slanci artistici di cui solo uno scrittore blasonato avrebbe potuto: sbagliato, perché come ben sappiamo noi spettatori odierni, che stiamo vivendo una specie di secondo rinascimento in campo televisivo, probabilmente oggi arrivano dagli USA prodotti televisivi spesso con storie e sceneggiature ben più elevate qualitativamente di quelle di molti film.

Veniamo finalmente alla nostra storia,  in questo trattamento, Sherlock Holmes (impersonato da un sopraffino ed ironico Michael Caine) è in realtà un cretino, un attore ubriacone e spiantato (che non si chiama nemmeno Holmes, giacchè il suo nome reale sarebbe Reginald Kincaid), scelto per essere il front-man del vero genio investigativo della situazione ossia il dott. Watson (impersonato da un compostissimo ed irreprensibile Ben Kingsley); uno stravolgimento totale delle storie scritte da Sir Arthur Conan Doyle (autore originale di tutto il corpo letterario delle opere con protagonsita il più grande detective del mondo), per un ribaltamento che nasce nel terreno della parodia, ma che finisce per strizzare l’occhio al concetto stesso di finzione, giacché non stiamo parlando della parodia di una coppia di personaggi storici realmente esistiti, ma della finzione distopica che ribalta un’opera di fantasia e come tale va direttamente a chiudere il cerchio con l’autore originale.

Così come, nella vita reale, lo scrittore Conan Doyle si stancò di essere conosciuto solo ed esclusivamente per i finti diari che un finto dott. Watson  pubblicava sullo Strand Magazine con incredibile successo di vendite, tanto da arrivare alla decisione senza ritorno di uccidere il suo eroe e chiudere per sempre con le sue storie (con il racconto The Final Problem, l’ultimo di quelli pubblicati nella seconda raccolta The Memoirs of Sherlock Holmes del 1893, in cui Watson descrive la fatale caduta nel vuoto del suo amico detective, dalle cascate del Reichenbach), così anche nella finzione distopica di questo Without a Clue, Watson decide che vuole finalmente rivelare al mondo che Holmes non esiste, che si tratta di un detective di facciata e che il vero genio è lui, distruggendone pertanto la leggenda.

Continuando sullo squisito parallelismo tra la realtà e la finzione, se le pressioni dei lettori dello Strand furono tali da costringere Doyle a rivedere la sua contestatissima decisione ed a resuscitare il detective ucciso nelle nuove storie, così nel plot del film il geniale dott. Watson deve anch’egli cedere alle insistenze dei suoi committenti (la Regina, niente meno) e lasciare in vita (metaforicamente parlando, ovvio) la sua creazione, che oltretutto si ritroverà a risolvere davvero un caso, sconfiggendo la minaccia di Moriarty, costringendo Watson ad arrendersi alla realtà ineluttabile che non si sarebbe potuto mai più liberarsi del suo Holmes.

Come spesso accade con prodotti intelligenti, la fruizione di questo film ha più livelli di lettura, perché è un giallo intriso di commedia, leggero e godibilissimo e magnificamente recitato, ma è anche una riflessione sulla frustrazione del genio (narrativo o investigativo) di fronte alla realtà dei committenti ed infine un gioco barocco sulla finzione e sulla meta-finzione.


Without a Clue“, GBR, 1988
Regia: Thom Eberhardt
Soggetto e Sceneggiatura: Larry Strawther e Gary Murphy


 

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