Il magnifico sberleffo di “El Conde”

Delizioso ed intelligente divertissement, con protagonista una versione vampiresca del vecchio dittatore cileno Augusto Pinochet, che in questo film viene descritto capace di ingannare la morte finché si nutre di sangue umano e che avrebbe celato la sua permanenza nel nostro mondo dopo la morte dichiarata pubblicamente nel 2006.

Regista, Direttore della Fotografia e troupe sul set, davanti Jaime Vadell (Augusto Pinochet)

Diretto da un maestro indiscusso della settima arte come Pablo Larraín (noto al grande pubblico soprattutto per i suoi famosi biopic, come Neruda e Jackie, entrambi del 2016 o il più recente Spencer, del 2021, costruito su una visione molto più lirica che non realistica del volto intimo e nascosto del divorzio pubblico di Lady Diana dal Principe Charles) e da lui stesso ideato e sceneggiato in collaborazione con il fidato Guillermo Calderón (con il quale ha scritto, tra le altre cose, il film El Club, del 2015, da molti critici considerato il suo capolavoro), questo lungometraggio è stato prodotto in esclusiva per Netflix, sulla scia di quei prodotti di intrattenimento culturale autoriale che il colosso dello streaming casalingo sta da tempo commissionando a grandissimi nomi della settima arte, come fu con Alfonso Cuarón ed il suo meraviglioso Roma del 2018, con i fratelli Joel ed Ethan Coen ed il loro sorprendente film ad episodi ad ambientazione western The Ballad of Buster Scruggs del 2018, con Martin Scorsese ed il suo monumentale, nostalgico e maturo The Irishman del 2019 o ancora con Noah Baumbach ed il suo apprezzatissimo Marriage Story del 2019), allo scopo di consolidare una porzione del suo target amante del buon cinema, forse piccolo ma di certo economicamente affidabile nel rinnovo dell’abbonamento.

La moglie di Pinochet, che si prende cura del marito pur avendo lui scelto di non renderla un vampiro

Ho usato il termine “divertissement” non a caso, perché è evidente come questo film abbia un’anima irriverente ed anche molto divertita nell’usare con abilità e consapevolezza tutti i registri del cinema grottesco latino (spagnolo, portoghese, centroamericano e sudamericano) e se da parte mia sarebbe davvero noioso, proprio perché ovvio, parlare della grande tradizione del grottesco sociale nel cinema di quelle culture (da Luis Buñuel fino a Pedro Almodóvar), non di meno si può ignorare che anche Larraín abbia qui usato quello stile peculiare per denunciare le atrocità commesse da Pinochet negli anni della sua dittatura, ma anche le sue ruberie e gli intrallazzi commessi e coperti con la connivenza degli organi istituzionali di potere e di controllo, di allora come dell’oggi, nonché il cinismo della Chiesa Cattolica, spesso testimone silenzioso se non persino interessato.

Suor Carmencita

Da questo impianto di satira e denuncia assieme, è uscita un’opera leggera, che tuttavia non esita ad usare accenti molto forti, con una storia che ha sempre un sapore emblematico, con dialoghi usati più per smascherare l’ipocrisia dei revisionisti di tutto il mondo e di tutti i tempi che non per fare vere rivelazioni, che gioca con la figura classica del vampiro senza però mai incartarsi nelle solite regole cinematografiche e narrative della bestia (le nemesi, le paure, i taboo e tutta la paccottiglia che viene distribuita da decenni sull’argomento, dall’epoca della sua canonizzazione letteraria avvenuta con il Dracula di Bram Stoker del 1897), offrendo al pubblico almeno un plot twist assolutamente sorprendente e geniale, dovuto all’avvento di un personaggio, nella seconda parte del film, che diventa chiave di lettura per ogni potere assoluto, in un fluire di immagini in bianco e nero, con voli nel cielo della città e sulla terra brulla e sterile, con gole sgozzate, uccisioni di persone anonime, cuori pulsanti messi nel frullatore per essere bevuti, pavimenti di legno sconnessi e personaggi completamente inquinati da egoismo e malvagità spicciola, senza alcuna grandezza epica, nemmeno nel peccato, ma solo fame di denaro e potere.

I figli dell’ex-dittatore Pinochet, non dissimili da lui almeno moralmente

El Conde non verrà ricordato di certo come il miglior film di Larrain, proprio per il suo non essere serioso e nemmeno consolatorio, ma piuttosto uno sberleffo fotografato magnificamente, sopra uno script composto senza menzogna, per quello che alla fine è visivamente uno scherzo macabro che fa ovviamente storcere il naso ai cinefili puristi, quelli che a suo tempo hanno avuto bisogno di creare la definizione di “elevated horror” per accettare ed accogliere tra i capolavori del cinema alcuni dei massimi esponenti di un genere che invece non ha paura di sporcarsi con sangue ed interiora.

Un cuore frullato fresco, tolto da un corpo umano appena morto, è un toccasana per un vampiro

Di certo quest’opera horror di Larrain è però un film da vedere e da godere dalla prima all’ultima inquadratura, nel perdersi della cinepresa durante le riprese impeccabili, fatte anche solo per filmare persone che camminano sul prato, nel volto della suora indagatrice ed esorcista, che ricorda volutamente e solo per affetto la Giovanna d’Arco del leggendario film di Carl Theodor Dreyer del 1928, unanimemente considerato uno dei capolavori assoluti del cinema e per la sua schiettezza didascalica con cui, grazie al pretesto di scoprire dai documenti e dalle interviste ai parenti dove si nasconde la ricchezza economica nascosta dal dittatore, finisce per elencare ogni nefandezza compiuta durante i tanti anni del suo potere tirannico, fino al suo arresto a Londra per crimini contro l’umanità, anche se mai processato, per via di lungaggini burocratiche volute ad arte da chi dall’estero lo aveva appoggiato ed una morte naturale sopraggiunta mentre era ai domiciliari (ricchi e comodi).

Ebbene si, in quanto vampiro il Conte può volare

Come dicevo all’inizio, il film lo trovate su Netflix e ve ne consiglio caldamente la visione in lingua originale coi sottotitoli in italiano e non per un vezzo o un capriccio snobistico, ma perché nel doppiaggio italiano si perde una parte importante del significato: ad esempio, il film viene introdotto ed accompagnato nelle varie scene da una voce fuori campo che parla in inglese e che chiuderà anche la storia, ma tale voce non è casuale, perché appartiene al character che apparirà a metà del film (il plot twist di cui parlavo sopra), mentre per il resto delle scene i personaggi parlano sempre in spagnolo (lingua ufficiale cilena), ma quando la suora esorcista ed investigatrice si presenta per la prima volta a casa della famiglia Pinochet ella si rivolge al conte in francese, con piacere del Conte che le risponde a tono e con grande perplessità invece dei familiari presenti, che non la capiscono; tutto questo è legato a filo doppio alla storia ed alle origini dei personaggi, ampliando il significato di alcuni passaggi che al contrario si perdono inevitabilmente nella versione doppiata, dove tutte e tre le lingue sono state tradotte sempre e solo in italiano.

Buon week-end


El Conde, CHL, 2023, durata 110 Minuti
Soggetto e sceneggiatura: Guillermo Calderón, Pablo Larraín
Regia: Pablo Larraín
Fotografia: Edward Lachman
Montaggio: Sofía Subercaseaux
Musiche: Juan Pablo Ávalo, Marisol García


23 pensieri su “Il magnifico sberleffo di “El Conde”

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  2. Sono molto contenta di aver avuto ragione, non si poteva lasciar ammuffire da qualche parte un post del genere. Merita di essere pubblicato, di essere visibile ed avere il suo spazio, indipendentemente da chi lo leggerà. Bellissimo post amico mio, come sempre del resto, mi spiace solo non avere Netflix. Buona serata e buon fine settimana 😏

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  3. A mio giudizio se Netflix finanzia continuamente dei film d’autore lo fa non per titillare quella parte dei suoi abbonati che ama questo tipo di film, ma perché i boss di Netflix sono molto irritati dal fatto che i loro film abbiano la nomea di essere brutti. E’ evidente ormai da anni che vogliono cancellare questa fama nel modo più roboante possibile, ovvero vincendo l’Oscar per il miglior film: lo si evince dal fatto che abbiano finanziato più o meno tutti i registi prediletti dall’Academy. Tuttavia, a mio giudizio quest’obiettivo è molto difficile da raggiungere, per un motivo “politico”: molti dei giurati dell’Academy sono anziani e conservatori, e quindi vedono come il fumo negli occhi Netflix, perché ha violato la sacralità della sala cinematografica svuotando i cinema e facendo in modo che gli spettatori cominciassero a vedere i film a casa loro. Per convincerli a premiare un film Netflix con l’Oscar più importante bisognerebbe che fosse 10 volte più bello degli altri candidati, o che quel film piacesse così tanto da generare un innamoramento collettivo di cui l’Academy non potrebbe tenere conto. Anzi, forse neanche questo basterebbe, perché anche La La Land aveva generato quest’innamoramento collettivo, ma l’Academy se ne infischiò e premiò Moonlight (anche quella fu una decisione chiaramente politica, un modo di Hollywood per polemizzare con Trump).
    Tra l’altro i boss di Netflix si sono già pentiti di aver puntato con questa decisione sul cinema d’autore, perché questa politica ha comportato dei poderosi investimenti economici e in più casi non ha garantito alcun ritorno, perché alcuni dei suoi film d’autore sono stati ignorati sia dal pubblico che dalla critica. Ad esempio, alla 79edizione della mostra del cinema di Venezia Netflix si presentò in pompa magna, con ben 2 film sui quali puntava fortissimo: “White Noise” di Noah Baumbach e “Bardo” di Inarritu. Sperava che almeno uno dei 2 vincesse il Leone d’oro, e che questo premio fosse la prima tappa di una marcia trionfale verso l’Oscar. Invece entrambi i film finirono a pernacchie, e agli Oscar raccolsero una nomination in 2 (peraltro per la miglior fotografia, sai che roba…).
    Come ha scritto Mitchell Green in un suo interessante articolo (https://www.michigandaily.com/arts/film/alejandro-gonzalez-inarritus-bardo-is-too-over-stuffed-with-ideas-for-its-own-good/), è un peccato che Netflix abbia smesso di puntare sul cinema d’autore. Perché è vero che quel tipo di cinema io lo detesto, ma è altrettanto vero che Netflix era rimasto l’unico grande studio a finanziare dei film dall’incasso incerto (come appunto i film d’autore) anziché limitarsi a fare dei film il cui incasso è praticamente garantito (dai cinecomics ai reboot).

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    • Anzitutto grazie per il tuo commento e stai bene attento, amico mio, che non ti ho ringraziato come gesto di cortesia cerimoniale, spesso non sincero, come si ringrazia qualcuno che passa a trovarci in un momento in cui magari vorremmo stare da soli o che ci dà consigli inutili ma che ringraziamo solo per buona creanza. No il mio ringraziamento a te è sincero, per motivi che ho specificato meglio nel mio prossimo post, di cui non voglio qui anticipare nulla.
      Ad ogni modo, grazie perché ci sei sempre a leggere e commentare i miei post, anche quando l’argomento magari non è per te rilevante (tanto poi in genere commenti parlando di altro che non l’oggetto stretto del post, ma ti voglio bene anche per questo!! 😊😊😊).

      Venendo alla tua affascinante considerazione, penso anch’io che, in aggiunta alla espressa volontà dei vari CEO di consolidare lo zoccolo duro degli abbonati paganti (bianchi, istruiti, con ottimi lavori ed ottima assicurazione sanitaria e figli adolescenti che possono permettersi il lusso di fingere di non essere mantenuti anche quando giocano a fare i radicali) ci sia un senso di revanscismo e la volontà di conquistare “un posto al sole”: per dirla alla John Wick, quello di Netflix lo possiamo definire il desiderio di sedersi alla Grande Tavola di Hollywood, dove tuttavia i servizi di streaming sono ancora molto osteggiati da una parte della vecchia guardia ovvero quella dove i grandi registi del passato (in testa Steven Spielberg) sono tra i membri più attivi delle varie Gilde che compongono l’Academy (i cui nomi sono tenuti segreti ma da un segreto di Pulcinella) e sono per il mantenimento degli status quo.
      Malgrado gli insuccessi commerciali reali e nettissimi ed il mancato riconoscimento agli Oscar (l’unica manifestazione importante davvero solo statunitense), c’è però da dire che i film Netflix d’autore sono sempre andati abbastanza bene nei festival europei del cinema e non dimentichiamo che, se la pancia degli statunitensi (dai redneck ai portuali, dai texani mangia hamburger, agli operai o alla lower class impiegatizia) ignora cosa accade all’estero e pensa sul serio di vivere nel paese più importante del mondo, la parte intellettuale e liberal della classe media ed alta vede ogni forma di intrattenimento culturale europeo o asiatica come qualcosa di elevatissimo, quasi un punto di arrivo, tanto che per un attore di cinema statunitense ricevere un premio europeo è motivo di vanto incredibile, anche quando sa benissimo che i veri soldi arriveranno magari da un blockbuster Disney; forse a certi livelli (quello dei divi) i soldi arrivano dalla somma di entrambi, nel senso che i film di cassetta servono per fare i soldi ed i film d’autore per mostrare la propria bravura e poi di nuovo soldi facendosi scegliere, in quanto attori blasonati, per dare un tono a film di pancia (come per l’esercito di attori di ascendenza teatrale britannica scelti per fare eroi e villain nei film supereroistici).
      Insomma, è un circo dove anche l’arte diventa un prodotto da vendere, senza nemmeno snaturarla troppo: è indubbio ad esempio che sia Netflix che Amazon abbiano dato ai suoi autori d’élite una libertà creativa impressionante, senza paragoni in confronto a quella ridottissima che hanno gli autori televisivi.

      Sai cosa, Wwayne? Ogni giorno dagli USA arriva qualcuno che si sveglia dicendo che tutto cambierà, che le majors hanno esaminato i conti, che faranno marcia indietro su qualcosa, che le cose si fanno in un modo completamente diverso e poi dopo una settimana cambia tutto di nuovo, con nuove rivelazioni giornalistiche, nuove teorie, un po’ come per i giornalisti sportivi che non sanno cosa inventarsi per raccontare il calcio mercato a campionato finito, darsi un tono e fingere di avere lo scoop in tasca.
      Buona Domenica!

      P.S. Gli ultimi film prodotti da Netfix ad altissimo budget e grandi divi ma di azione e commedia da cassetta, malgrado i tantissimi soldi spesi sono andati malino e soprattutto fanno davvero schifo (l’ultimo con la Lopez è una stupidaggine fotocopiata da mille altre cose tutte uguali e l’ultimissimo con Gal Gadot è quasi inguardabile)

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      • Hai descritto perfettamente il mio modo di commentare. Quando un post tratta un argomento principale e altri elementi di contorno, la cosa più logica e scontata da fare sarebbe commentarlo parlando dell’argomento principale. Il guaio è che a me le cose scontate non sono mai piaciute: di conseguenza io tendo a ignorare l’argomento principale, e a commentare focalizzandomi volutamente su un elemento di contorno. Alcuni bloggers non lo capiscono, e mi fanno notare (in maniera anche piccata) che sono andato fuori tema: io replico sempre che in realtà il mio commento non è totalmente fuori tema, lo è soltanto in apparenza, perché c’è sempre un minimo di connessione tra di esso e il post a cui si riferisce.
        Riguardo all’ultimo film di Jennifer Lopez, in realtà a me The Mother è piaciuto. Ma va detto che quando c’è una strafiga nel cast io metto il cervello in un cassetto e applaudo il film a prescindere, quindi il mio giudizio non è attendibile! 🙂

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  4. Appena ho fatto partire il trailer è stato come se tutte le parole che hai scritto si materializzassero una dopo l’altra.
    Anche io ringrazio: senza questa segnalazione e senza aver letto questa recensione sicuramente mi sarei persa questo film perché sarei stata incapace di coglierne l’essenza. Pensa che, nonostante io ami i fratelli Coen, non ho ancora visto nemmeno Roma.
    Mi dispiace poi che noi, con la nostra tradizione da traduttori in troppi casi nefasta, ancora una volta snaturiamo il vero senso dei dialoghi.
    Chissà se prima o poi ce la potremo fare …

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    • Ti ringrazio davvero di cuore per le tue parole (come l’amico Wwayne, anche tu sei tra le persone più affettuose e costanti nel leggermi e commentarmi).
      La cosa bizzarra dei film d’autore prodotti da Netfkix è che, a differenza da suoi prodotti televisivi (tutti tassativamente molto glamour, alla moda e per veri aspetti fintamente provocatori ma in realtà molto mainstream), hanno una libertà creativa pazzesca, quasi suicida: il film ad episodi dei fratelli Coen è ad esempio davvero ostico per chi non sia amante del cinema e molto meno fruibile di altri loro capolavori, da “El Grinta”, a “Fargo”, a “Non è un paese per vecchi”, “il Grande Lebowski”, eccetera, così come “Roma” di Cuaron è certamente la sua opera più autoriale ed elitaria, intima e decisamente con meno concessioni allo spettacolo classico, specie in confronto ad altri suoi film come “Gravity” o “I Figli degli Uomini”, che invece hanno avuto anche molto successo di pubblico.
      Sul doppiaggio ahimè il peggioramento che sta avendo luogo ultimamente è purtroppo terribile, con una crescente approssimazione professionale denunciata anche dai grandi doppiatori italiani, che spesso si vedono togliere il lavoro da talent e personaggi dello spettacolo e persino influencer dei social network, senza alcuna preparazione, scelti solo per fare pubblicità alla versione italiana del film e tutto questo si è aggiunto al presistente problema intrinseco del doppiaggio come “copertura” della recitazione originale.
      Buona domenica!

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      • Ecco, vedi?! Anche la mia conoscenza di Netflix è limitata … e devo dire che questo spirito “quasi suicida” aggiunge parecchi punti in classifica.
        Ti ringrazio per non aver sottolineato che ho sbagliato e mischiato Roma con i Fratelli Coen 🙂
        Ehhhhhh capita a quelle come me, ma ormai mi conosci e giassai …
        Non sto a cercare di riprendere il filo del discorso tanto hai già capito perfettamente 🙂
        E ancor prima per chi traduce, il consiglio di fare più attenzione vale per me!!
        In due parole, anzi tre: keep calm & scusami.
        GRAZIE e buona conclusione di domenica!

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        • Mi piace molto l’augurio finale…

          Ci si potrebbe scrivere una novella, di quelle che in genere io personalmente non leggerei mai, perché di certo appartenente a quel genere di letteratura dal sapore untuoso della rievocazione storica troppo prossima al nostro presente, ma con una sintassi ed una aggettivazione che tanto piace ai salottieri giudici del Premio Strega ed una storia molto italiana, da provincia, probabilmente ambientata in Sicilia o all’opposto nella provincia euganea rovigotta o veronese, dove si racconta di un personaggio dall’aspetto anonimo ma non dimesso, con quatto peli lisci in testa ben pettinati ed un sorriso sottile, con le labbra strette che hanno le persone malvagie dall’aspetto bonario da sagrestia, che a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso svolgeva un’attività particolarissima su commissione delle ricche famiglie borghesi del territorio: veniva chiamato alla bisogna per “salvare il salvabile”, quando qualcosa andava storto la Domenica mattina in qualche villa di campagna o palazzo di città, come un rinfresco di matrimonio funestato dal cattivo tempo, un incontro tra parenti messo in crisi da rivelazioni imbarazzanti dell’ultimo momento e ancora guasti tecnici con imminente sciagura di festa rovinata e tanto altro, ivi compreso lo spettro della noia che spesso assillava quella fetta di popolazione senza veri problemi economici quotidiani, persa com’era nell’esecuzione di riti di convenienza; quella persona, il cui vero nome si è perso, ma che di certo aveva scritto in qualche documento dell’anagrafe, era conosciuto tra i notabili della provincia soltanto con l’appellativo pomposo de “L’uomo che concludeva la Domenica”, proprio per via della sua straordinaria abilità nel trovare risorse e soluzioni utili per portare trionfalmente alla fine una giornata altrimenti ricordata come un disastro.
          Dopo la sua scomparsa, molti si dovettero rimboccare le maniche per fare da soli in caso di domeniche rovinate, ma poi in quegli anni arrivarono tante novità sociali e tecnologiche, come la televisione a colori ed un terzo canale e come già avvenuto per il suo nome, anche la ragione della sua professione si perse nel dimenticatoio.

          Bye

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          • Probabilmente hai citato la provincia euganea per caso, ma il caso non esiste …
            Il ramo non tedesco affonda le radici proprio lì e quindi questo tuo racconto, in ogni caso non untuoso, mi si adatta parecchio. Così come è particolarmente calzante l’epilogo con la sostituzione della professione con la televisione.
            Ora speriamo che anche la televisione si perda nel dimenticatoio, un po’ come Alla fiera dell’Est.
            Cosa la sostituirà però?

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            • Beh, senza dubbio lo streaming via web, che già ora permette di far partire un programma (film, serie tv, show, talent, documentario) sia sul device che si preferisce sia nel momento che si vuole e poi nel futuro penso che ci sarà una sempre maggiore individualizzazione della fruizione, almeno apparente, perché alla fine si attinge sempre dallo stesso broadcast…
              Però è un quesito molto affascinante il tuo, davvero molto.

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