Carnival Row

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Nell’Agosto di questo 2019, il prestigioso network televisivo Amazon Prime Video ha gettato in pasto all’affamato mercato mondiale della serialità televisiva le attesissime 8 puntate della Prima Stagione di Carnival Row, un’importante produzione dove un raffinato lavoro di scrittura e di rivisitazione della forma tradizionale dello storytelling di taglio noir e detective story, mescolandosi agli stilemi visivi e scenografici del fantasy e dello steampunk, ha dato vita ad una storia avvincente ed articolata, piena di romanticismo, avventura, horror e magia ancestrale, sullo sfondo di una guerra sanguinosa tra i due più grandi imperi dell’uomo, in un mondo fantastico in cui gli Humans (Umani) condividono il pianeta con altre specie Non-Humans (volutamente riconoscibili come alcune delle nostre più note creature mitologiche), tutte con i loro regni, le loro nazioni, la loro storia e la loro cultura, coinvolte loro malgrado in quello spaventoso conflitto e da esso straziate.

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Nei primissimi convulsi e brutali minuti, girati con la cinetica e la consapevolezza di un moderno lungometraggio bellico, facciamo la conoscenza dell’antichissima popolazione delle Faeries (Fate) e del loro continente Tirnaroc, posto ad est del Grande Oceano, per secoli rimasto sconosciuto agli umani, ma divenuto successivamente terra di conquista e quindi teatro di battaglie tra i contendenti invasori, mossi da quel ben noto bisogno insaziabile di nuove terre e nuove risorse che ha sempre caratterizzato ogni colonizzatore, qui come altrove, ieri come oggi, funzionale ad un’economia predatoria ed in questo specifico caso anche ad una forte industrializzazione: viene così da subito introdotto, come un ceffone in viso, il tema dell’emigrazione forzata di un intero popolo dall’inferno della propria patria in fiamme, stabilendo anche una delle colonne portanti di tutta la narrazione di questa fiction ovvero una dolente tridimensionalità caratteriale, portata da un senso di angoscia, di paura e di dolore nei suoi personaggi, ma anche da uno spiccato realismo (pur se all’interno del presupposto iniziale di assoluta fantasia), che rende questo di Carnival Row l’unico tipo di storytelling fantasy oggi davvero accettabile per uno spettatore contemporaneo.

Lo sguardo della narrazione, restando incollato al personaggio di Vignette, la fata in fuga dai boschi di Anoun, catapulta lo spettatore nel cuore della Repubblica del Burgue, la principale nazione degli umani, sita nelle terre settentrionali di Mesogea, il continente aldilà dell’oceano, ad Ovest di Tirnaroc e culla dell’intera specie, ma anche base di partenza dell’uomo per i suoi viaggi di conquista di tutte le terre emerse: il sogno di mettere ogni nazione sotto il giogo della propria egemonia militare, ha inevitabilmente spinto il Burgue a scontrarsi con il Quiviro-Cibolan Pact (noto semplicemente come The Pact), un’alleanza politica e militare tra altre due nazioni, nella parte meridionale del continente ed immediatamente divenuta il suo nemico per eccellenza sullo scacchiere mondiale.

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La Repubblica del Burgue viene presentata, sin dalle prime scene, come teoricamente alleata dell’antico popolo delle Faires, nella lotta contro la spietata alleanza del Pact, ma lo spettatore scopre ben presto che quella specie non-umana, sfruttata in guerra per le sue speciali abilità, non verrà poi riconosciuta come pari degli umani fuori del conflitto ed anzi, assieme a tutte le creature di altre specie che si troveranno costrette dalla guerra ad emigrare nelle terre controllate dal Burgue, verrano trattate come ostili, diverse, incivili e quindi inferiori anche nel riconoscimento dei loro diritti.

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I parallelismi tra la storia del nostro reale mondo occidentale e quella di questo mondo fantasy sono, come si è potuto ben capire, innumerevoli e ben marcati, a partire dalla ricostruzione scenografica della Capitale del Burgue (che dalla nazione prende lo stesso nome) come quella di una Londra di epoca vittoriana, fino all’epifanica scelta della città di Praga come location urbana per questa intera prima stagione (in ogni landscape, sono riconoscibilissimi sia il Castello, sia il Ponte Carlo, che conduce al quartiere Malá Strana, posto alla sua base): chiunque abbia avuto modo di visitare questa splendida città europea, terra natale di Franz Kafka e museo a cielo aperto di meravigliosa art déco, non potrà scordare il fortissimo impatto visivo ed emotivo del ghetto ebraico, con il suo cimitero e le sue sinagoghe, testimonianza tangibile di una segregazione razziale che in questa fiction trova amplissima sponda, compresa l’iconografia del Golem, presente ovunque, dai negozi di souvenir alle t-shirt, quasi ad esorcizzare la leggenda di folclore medievale del mostro antropomorfo, costruito a scopo di vendetta e protezione familiare.

Carnival Row - Burgue

Grazie ad un grandioso lavoro di worldbuilding con davvero pochissimi precedenti così ricchi e studiati, in televisione come anche al cinema, gli autori di Carnival Row non solo fanno intuire la vastità di una geografia fisica e politica dei vari territori narrativamente ancora quasi tutte da scoprire, ma condiscono ogni scenografia ed ogni dialogo con una ricchezza di sfumature ed allusioni, in cui l’alterità di questa distopia appare quasi come una dimensione parallela alla nostra: mirabile in questo senso l’invenzione narrativa del credo religioso dedicata alla figura del Martire, che senza ulteriori spiegazioni compare come presenza scontata nelle scene di vita quotidiana (persino come esclamazione rafforzativa di stupore o rabbia) e che come simbolo ha un uomo impiccato ad una struttura lignea, con funzione allotropica del nostro crocefisso cristiano, visibile un po’ ovunque negli edifici pubblici governativi, nei collegi ed anche nelle abitazioni private dell’aristocrazia.

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Tutta la straordinaria cura messa dallo staff artistico e dagli scrittori nella costruzione di ciascuno dei personaggi, dotandoli di caratteristiche e dettagli che li rendono a loro modo memorabili, è maggiormente evidente in quella della fata Vignette Stonemoss: non solo nell’audio originale la si ode parlare con accento irlandese (creando nello spettatore un richiamo empatico ancora più forte con la cultura celtica), ma le sue ali non sono realizzate in computer graphic in post-produzione (eccetto che nelle scene di volo) , ma sono vere protesi in silicone, dipinte a mano e che si illuminano in momenti di grande emozione; persino l’acconciatura dei suoi capelli non è casuale, giacché, come viene spiegato dal personaggio in una sequenza molto intima, ogni treccia ha una speciale valenza per comunicare agli altri lo stato sentimentale e coniugale della fata, con ulteriore richiamo degli autori ad un’idea di cultura sociale basata su tradizioni secolari e fenomenologie tribali ancestrali, in antitesi alla civiltà industriale degli umani.

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Questa ricercatezza mi permette di evidenziare un aspetto altresì macroscopico dello storytelling di questa fiction ovvero la rielaborazione di tòpoi letterari classici, assumendo come implicita la conoscenza di base da parte del fruitore dell’elemento fantastico qui rielaborato e stupendolo con un diverso approccio: valga per tutti la leggenda della licantropia, elemento fantastico dato per scontato dai characters di Carnival Row, in quanto patologia certamente terribile ma anche reale e riscontrabile, con però la novità che la leggendaria trasformazione da uomo a lupo, normalmente innescata dalla luna piena, può essere qui indotta anche meccanicamente, grazie ad un catalizzatore lunare portatile, grande come una siringa (per intuibili scopi militari o criminali).

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Puntata dopo puntata, viene anche svelata l’anatomia e l’antropologia delle molte razze non umane, come i Faun, i Trow, i Naga, i Raksha ed i Mouros (solo per citare quelle già illuminate dalla storia di questa Prima Stagione) e senza che venga mai usata quella pedanteria descrittiva in terza persona, tipica del tardo fantasy di piatta eredità tolkieniana (per lo più tradotta al cinema ed in TV con lo squallido espediente della voce narrante fuori campo), ma al contrario con quel gradevole senso di scoperta avventurosa, che pone modernamente il pubblico al centro dell’azione: sono infatti gli stessi characters, con i loro dialoghi, le loro emozioni e la loro storia personale, ad aprire gli occhi e l’immaginazione dello spettatore su brandelli di storia antica e sulle cronache più recenti, donando agli accadimenti al centro della trama orizzontale la struttura apparente di un romanzo di appendice di taglio gotico di alto livello, ma raccontato in modo modernissimo.

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Il progetto dell’intera fiction venne sviluppato inizialmente dall’autore statunitense Travis Beacham, partendo dalla sceneggiatura cinematografica di taglio neo-noir intitolata A Killing on Carnival Row, da lui scritta a suo tempo per un film alla fine mai realizzato da Guillermo del Toro (regista per il quale aveva già realizzato lo script del primo Pacifc Rim), ma quasi da subito affiancato dal cubano René Echevarria, esperto e fantasioso narratore televisivo, con un curriculum di assoluto rispetto e creatore di tantissimi plot per la leggendaria serie televisiva di sci-fi Star Trek: Next Generation e più tardi anche per parte di Star Trek: Deep Space Nine.

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È assai importante tenere in conto questi elementi di genesi ed ascendenza narrativa dei due responsabili della writer’s room di Carnival Row, perché è proprio dentro questa matrice fortemente letteraria che si deve cercare il vero valore di questa fiction, aldilà della bellezza straordinaria delle scenografie, dei costumi, della fotografia, ma anche al netto dei suoi difetti o delle finte criticità (tali perché in realtà la maggioranza delle osservazioni negative, fatte dai detrattori della serie, sono davvero di una superficialità imbarazzante, come la solita stroncatura fatta dalla rivista Wired, che pur avendo un immeritato carisma di opinion leader continua da mesi a sfornare recensioni cinematografiche e televisive di una pochezza spaventosa e comunque sempre in ossequio a quanto già scritto negli USA sul medesimo argomento).

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Senza mai ingannare in modo truffaldino lo spettatore, la fiction segue un racconto estremamente lineare, con alcuni importanti flashback sulla storia dei singoli personaggi e sui loro rapporti, dando sempre segno di una costruzione del plot assai attenta ed anche laddove vengono giocati nella trama (sempre avvincente ma anche sempre coerente), alcuni essenziali momenti di agnizione e scoperta, sono stati precedentemente dati, a volte anche svariate puntate prima, tutti gli elementi e gli indizi necessari perché lo spettatore possa arrivare a conoscere la verità prima ancora che questa gli venga rivelata o per lo meno senza che essa rappresenti un reale colpo di scena.

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La narrazione procede quindi come un’indagine poliziesca a cielo aperto e carte scoperte, in cui il pubblico che ascolta ed osserva percorre gli stessi sentieri, a volte appassionati ed altre volte orrorifici, usando le stesse torce che usano anche i personaggi per illuminare il loro cammino, cosicché anche quando ci si imbatte nei necessari plot twist, essi sono evolutivi e non davvero stupefacenti: una delle “rivelazioni” che più ha lasciato spiazzati gli spettatori distratti (quelli che, senza mettere in pausa la visione, spesso saltano interi dialoghi per scambiare due parole con chi sta loro vicino o persino per messaggiare sul loro fottutissimo smartphone, per poi magari alzare gli occhi verso lo schermo e chiedere cosa ha detto?), svelata in dettaglio nell’ultima puntata, laddove quasi tutti i fili aperti vengono chiusi, è semplicemente un tratto di penna che unisce in modo logico tutti i puntini disseminati dalla prima puntata.

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Allo stesso modo, malgrado la presenza nella storia di mostri orripilanti, lupi mannari, assassini sanguinari e tutto un ampio repertorio che ha il sapore genuino ed il respiro fumoso della grande letteratura fantastica europea dell’ottocento (da Mary Shelley, a Robert Louis Stevenson, a Bram Stoker e soprattutto all’Edgar Allan Poe di The Murders in the Rue Morgue) per le quasi otto ore dell’intera prima stagione non trovate traccia di un solo jumpscare: la morte arriva potentemente annunciata, sia che provenga dall’oscurità minacciosa di un condotto fognario o dalle ombre create dalle lampade a gas del primo piano in cima alle scale, cosicché lo spettatore possa osservare in tempo reale il personaggio, predestinato ad essere ucciso, avvicinarsi alla sua nemesi in modo ineluttabile.

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Come accade spesso, tuttavia, prima ancora della visione, ciò che ha colpito il grande pubblico statunitense e probabilmente anche buona parte della critica specializzata (quella che pigramente attende l’arrivo delle agenzie stampa, seduta alla propria scrivania, per scrivere in coro le stesse cose, stessi disappunti o le stesse grida di meraviglia dei colleghi), è stata l’esposizione mediatica, molto glamour ed evocativa, del suo cast, intorno al quale si è mossa tutta la pubblicità organizzata da Amazon, condizionando fortemente la ricezione e la risposta dei telespettatori, attraverso l’esaltazione della presenza di una coppia di interpreti comunque iconici per l’immaginario popolare di taglio fantastico: Orlando Bloom e Cara Delevingne.

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Se il nome di Bloom, a tutt’oggi ancora legato a fil doppio alla sua acclamata interpretazione dell’elfo Legolas (nella serie di film di Peter Jackson del franchise di The Lord of the Rings) ed anche a quello del pirata gentiluomo Will Turner (nei primi tre capitoli e nel quinto della fortunatissima saga dei Pirates of the Caribbean) era leggermente in declino per alcune recenti prove filmiche al limite del ridicolo, quello della Delevingne era ed è tutt’ora invece un profilo pubblico vincente, che spazia in modo davvero rocambolesco dentro tutta l’industria dell’intrattenimento culturale, presentandosi sempre come fashion model rampante e sessualmente disinibita (con costruita aggressività), sogno proibito di plotoni di adolescenti di ogni orientamento sessuale ed al contempo erede al cinema di figure politicamente rivoltose, grazie alla scelta di personaggi dai tratti ribelli e spigolosi (ma in modo ovviamente sempre molto glamour e spendibile), quali Margo Roth Spiegelman (l’adolescente volitiva ed avventurosa del film Paper Towns, dal romanzo del pernicioso John Green) o la splendida Laureline (l’agente spazio-temporale creata dai fumettisti francesi Pierre Christin e Jean-Claude Mézières, trasportata nel 2017 sul grande schermo nella pellicola visionaria e tristemente sottovalutata, specie da quelle capre degli statunitensi, Valerian and the City of a Thousand Planets di Luc Besson).

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Quella di questi due interpreti inglesi era sulla carta una coppia decisamente affascinante, con anche quel pizzico di esotismo culturale molto europeo che tanto piace ai mangia-hamburgers urbani delle ex-colonie, ma il luccicore patinato delle copertine online ed offline di questo connubio tra una fata ed un poliziotto, malgrado gli amplessi annunciati dai magazine di gossip e poi mantenuti, non è stato bastante per soddisfare una platea, che si è trovata di fronte una narrazione pericolosamente consapevole (per una mente arida) di tanta letteratura fantastica e politica del XIX e del XX secolo: questo, in aggiunta all’eccessiva brevità della stagione appena conclusasi, ha abbastanza diviso il gradimento generale dell’opera, confermata da subito comunque per la sua prevista Seconda Stagione.

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Addolora davvero leggere come certi commentatori siano riusciti persino a lamentarsi del fatto che alcuni dei personaggi fatati presenti nella serie avessero nomi propri tratti dalla commedia A Midsummer Night’s Dream di William Shakespeare, non comprendendo che, non essendo quello un espediente narrativo o una furba scappatoia, altro non poteva rappresentare se non che una deliziosa carezza degli autori Beacham e Echevarria rivolta agli immortali versi del bardo.

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In apertura del quinto episodio, c’è una deliziosa sequenza, dove si mostra una simulazione meta-testuale del plot, facendo rinarrare gli ultimissimi avvenimenti delittuosi dai piccolissimi Koboldi (creature fatate di genere goblin inferiore, tra le tante di cui questa fiction è cosparsa), al soldo dell’umano Simon McBurney, impresario teatrale di strada ed ex-precettore: la cinepresa plana dolcemente sulla folla assiepata per assistere ad una rappresentazione scenica in miniatura e mentre nell’aria grigia e fumosa della strada-quartiere del Row si libra da un vecchio grammofono la melodia struggente della fata cantante Aisling Querelle (personaggio a cui ha prestato la voce la cantante e musicista celtica Patty Gurdy), negli sguardi delle creature magiche c’è tutta la timorosa dignità di un popolo multi-razziale che non vuole smarrire la sua identità culturale, ma che al contempo vive frastornato lo strazio degli accadimenti generati dallo scontro tra due diversi mondi; in mezzo a quel crogiuolo di creature magiche e fatate, si stagliano le fate prostitute, con i loro capelli dai colori sgargianti e sfacciati, anello di congiunzione carnale tra la presuntuosa razza degli umani ed il resto delle razze, rinnegate in pubblico, ma ricercate nel privato del postribolo.

Fatti dunque uscire, dal nostro teatro di visione e di commento, gli stolti fracassoni incapaci di discernere un plagio da un omaggio, fatevi tutti voi il regalo di abbandonarvi all’affabulazione di una serie che riesce ad dosare con sapienza e seduzione Romantic, Horror, Mystery, Fantasy e decisamente lo Steampunk.

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Buona visione e buon feste.


Carnival Row” Tv Series, USA 20219 – in corso
Creata da René Echevarria e Travis Beacham
Stagioni 1 – Episodi 8
Basata sulla sceneggiatura originale
A Killing on Carnival Row” di Travis Beacham
Registi: Thor Freudenthal, Anna Foerster, Andy Goddard e Jon Amiel
Soggetto e Sceneggiatura: R. Echevarria, T. Beacham e altri


52 pensieri su “Carnival Row

  1. Pingback: “Carnival Row” di Kasabake – NonSoloPanzer

  2. Ciao Kasabake,
    sono davvero felice di scoprire che anche tu hai visto ed apprezzato “Carnival Row” e, grazie a questo, di aver potuto leggere il tuo articolo.
    Sono così contento che mi sono permesso di pubblicarne il collegamento anche sul mio blog: NonSoloPanzer.
    Spero ti faccia cosa gradita.
    Io sono tutt’altro che un divoratore di serie televisive ma “Carnival Row” ha attratto la mia attenzione proprio per tutte quelle caratteristiche che hai saputo così ben delineare nel tuo pezzo e che riassumerei nell’anima profondamente europea di quest’opera.
    Se poi pensi alla mia fascinazione per l’800 e le grandi capitali europee in piena rivoluzione industriale, puoi ben capire le ragioni della mia attrazione. Interesse che non è stato affatto tradito ed anzi si è fortificato come mai avrei sperato.
    Grazie mille per le interessanti informazioni che hai inserito nell’articolo e per la tua critica che condivido pienamente.
    Anche se punto forse secondario, vorrei segnalare l’attenzione data anche alle location interne. Le stanze ed i saloni di case, palazzi ed edifici governativi dove sono state girate molte scene sono assolutamente incredibili. Cercherò di informarvi di più sull’argomento.
    Nel caso fosse a te sconosciuta, ti segnalo la serie “Penny Dreadful” che ha molto in comune con “Carnival Row” e che penso meriti di essere rivalutata.
    Un saluto

    Andrea

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    • Essendo animato da una curiosità insaziabile ed oltretutto amante di tutto ciò che non è ovvio, provo un senso di beatitudine ogni volta che leggo anche solo semplicemente il nome del tuo blog: NonSoloPanzer infatti è un nome che colpisce dritto negli occhi e nell’immaginario, specie chi, come me, non è esperto di modellismo, ma che ha vissuto e lavorato circondato da persone che lo erano e che tutt’ora collabora con alcune realtà commerciali che a Bologna importano statue e model kit dal Giappone (specie Bandai e Kotobukiya); oltretutto il nome stesso del tuo sito è un rilievo verso il fascino del modellismo militare, che poi, come tu ben sai, è una nicchia tra le nicchie e questo mi porta alla mente, ogni volta, la passione per le ricostruzioni storiche che aveva il personaggio di Frank Underwood della pregevolissima House of Cards
      Ora però sto divagando, perché l’elefante nella stanza è la tua generosità, evidente non solo per gli apprezzamenti nei miei confronti, ma soprattutto per il gesto davvero raro tra blogger (siamo tutti troppo vanesi e chiusi nella nostra vanagloria) di re-bloggare il mio post sul tuo sito! Grazie di cuore, sono commosso e non scherzo, Andrea!
      Vado infine alla tua osservazione sull’attenzione da porre alle location interne: hai ragione da vendere ed avrei dovuto sottolinearlo anch’io nel post, perché quella cura che la writer’s room ha posto sull’opera di worldbuilding e che la staff tecnico ha mostrato nella costruzione dei personaggi, ha avuto in parallelo una scenografia talmente elaborata da assomigliare a quella dei migliori lungometraggi storici di matrice britannica: non parliamo solo del lodevolissimo lavoro di set decoration delle bravissime Beatrice Brentnerova e Nora Sopková, ma tutta l’art direction di ognuno degli otto episodi… Meravigliosa! Perciò, caro Andrea, lode alla tua osservazione!!
      Ora ti saluto, inchinandomi per rispetto: Domo arigatou gozaimasu, amico mio!
      P.S. In occasione del mio post di assoluto affetto nei confronti della splendida e blasonata fiction di Downton Abbey (a proposito di fedeltà nella ricostruzione storica…), a suo tempo scrissi come io consideri mediamente superiori i britannici nella cura e nell’obiettività con cui ricostruiscono set e scenografie e senza dubbio la fiction da te citata ne è un esempio mirabile: Penny Dreadful è una serie potentissima, di cui si è tanto parlato con i miei colleghi, anche qui su WordPress, foss’altro per l’efficacissimo stile con cui hanno riscritto alcuni dei mostri e dei demoni del cinema classico… E si, Andrea, sei in ottima compagnia!

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  3. Pingback: Reblog Carnival Row – kasabake | ilperdilibri

  4. Eccomi, ho finito di vedere ora il primo episodio e ti ringrazio infinitamente per questa mirabile recensione che rispecchia in tutto e per tutto questa serie così irreale, mistica, fantastica e avvincente.
    Come hai giustamente fatto notare vengono toccati molti problemi attuali, ma oltre a questo mi ha affascinato questo stranissimo accostamento tra l’ambientazione storica vittoriana e il mondo della fantasia e della mitologia, con le fate e altri mostri. Non mi dilungherò nella descrizione perché tu l’hai fatto in modo molto esauriente e migliore di quanto io potrei mai fare, ma ti dico solo un mio pensiero venuto durante lo svolgersi dell’episodio: questa umanità che ha sfruttato la fantasia (le fate) e che solo grazie a lei ha potuto vincere, per poi relegarla quasi a schiava, per il timore del suo potere….
    Quante volte, lasciandoci guidare dalla fantasia riusciamo ad uscire da schemi e ad ottenere risultati impensabili, per poi ritornare sui nostri passi per paura di esagerare, di uscire dal mondo convenzionale a cui ormai siamo abituati, magari sostando nella zona di mezzo….

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    • Guardare un prodotto di intrattenimento culturale appena recensito è davvero la prova del nove e quindi sono doppiamente felice del tuo accoglimento: come sai ci tenevo molto al tuo giudizio, specie per tutta la parte legata alla cultura celtica ed alla magia…
      Ma ci sarà modo di parlarne..
      Ricordati che in questa serie i due autori si sono divertiti a mostrare tutto com’è ovvio, per poi farti vedere che in realtà la loro è una variante (nella prima puntata si pensa all’inizio subito a Jack, come Jack The Ripper e poi scopri che è tutta un’altra cosa e così puntata dopo puntata…).

      È bellissima la tua osservazione della fate come metafora della fantasia usata dagli umani che sono poi il potere militare/industriale per poi gettare tutto come in kleenex usato…
      Applauso, Silvia, applauso…

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            • Sappi che puoi dilungarti quanto vuoi: mi piace come scrivo e sopralluoghi come pensi… Non aver paura, qui sei al sicuro e puoi sparare a zero! Chiedi a Liza, che ha una poltronissima ad ogni grande spettacolo di arte varia qui da me e ti dirà!

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                • Sono andata avanti e ho visti il secondo e il terzo episodio e ne sono sempre più affascinata. Trovo fantastico il modo in cui riesce a collegare presente e passato in una maniera naturale e fluida seppur chiara. Trovo l’ambientazione e i vari personaggi curati in maniera maniacale. La cosa sorprendente è che accade di tutto ma nulla di questo stupisce, tutto diventa normale e anche previsto per quanto sorprendente.
                  Davvero bello, ti ringrazio davvero per avermelo fatto conoscere, se non ci si sente prima, tanti auguri di Buon Anno 🙂

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                  • Prima di scrivere il mio post, vidi tutta la serie due volte di seguito e me la godetti entrambe le volte: era come leggere un romanzo storico e di avventura, lasciandomi trasportare dalle emozioni e dalle fascinazioni (le scenografie accuratissime, gli abiti i dettagli, tutto)…
                    Ora, leggendo i tuoi commenti, mi sembra di rivederla una terza volta, ma questa volta in compagnia di un’amica e non vedo l’ora di leggere ancora le tue parole!
                    Nelle prossime puntate, altre vicende si aggiugeranno alla trama ed il passato di Philo entrerà a sprazzi, con scene che mi hanno davvero stretto il cuore, per il calore e l’intimità dei sentimenti, mentre la trama principale comincerà ad affiorare, come un sottomarino minaccioso, pronto a fare fuoco nelle ultime due puntate.
                    Sarà un bellissimo viaggio, di cui ti prego di non smettere di farmi il tuo appassionato diario: anche poche righe saranno per me un grande regalo!

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  5. Ho letto molto poco del tuo post, perché probabilmente vedrò Carnival Row durante le vacanze di Natale, e sto cercando di arrivare alla visione il più possibile a digiuno di informazioni. Ho scritto “il più possibile” e non “totalmente” perché questa serie è stata pubblicizzata con così tanta pervicacia e pervasività che ormai anche chi vive isolato sulle montagne come il nonno di Heidi ne conosce almeno qualche dettaglio.
    Da quel poco che ho potuto vedere Carnival Row mi sembra un prodotto di qualità, ma anche decisamente furbo.
    Furbo perché ricicla il concept già usato per Bright, ovvero l’inclusione di creature fantastiche all’interno di un contesto reale (per rendere la scopiazzatura meno evidente hanno ambientato Carnival Row in una società più vecchia, ma anche così l’ispirazione da Bright resta visibile ad occhio nudo).
    Furbo perché lascia intendere fin dalla locandina che ci sarà una storia d’amore tra i personaggi di Orlando Bloom e Cara Delevingne, nella consapevolezza che se non lasci presupporre la presenza di un po’ di romanticismo il pubblico femminile non lo acchiappi.
    Furbo per il solo fatto di aver ingaggiato Cara Delevingne, una non attrice che però si porta dietro un bel codazzo di fan: le donne la adorano perché vedono in lei un’icona di stile, gli uomini perché la trovano bona (ma io mi dissocio, sia perché non amo le magre, sia perché ha una faccia a stronza che non mi andrebbe giù neanche se avesse un fisico curvy).
    Insomma, è evidente che Carnival Row è stato realizzato con un occhio all’arte e un altro al marketing. In fondo questo vale per tutti i film e le serie tv moderni; tuttavia, raramente ho visto utilizzate in contemporanea 2 tattiche di marketing così spudorate come la rimasticatura di un film di successo e l’inclusione nel cast di una star priva di talento ma piena di followers. Nonostante la faccia tosta di chi ha lavorato a Carnival Row, la serie mi intriga abbastanza da indurmi a superare la mia atavica avversione per le serie tv: vedremo se sarà valsa la pena di dedicarle una parte delle mie vacanze di Natale.

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    • Grazie di essere passato, amico!
      Quando poi avrai visto ed avrai finito di leggere tutto il post, allora ne torneremo a parlare, perché ovviamente quello che tu hai osservato è tutto vero, ma la genesi dell’opera è anteriore all’operazione di marketing; inoltre c’è tanto, ma tanto di più di quel poco che c’era in Btight, che oltretutto è stato abbastanza massacrato nel web (per me anche in modo eccessivo).

      A dopo la tua visione, allora e Buone Feste!

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  6. Dice un vecchio adagio (o almeno così mi pare) che il bravo maestro non è quello che indica la luna bensì quello che impara come trovarla nel cielo.
    Indubbiamente questa saggezza popolare trova massima espressione in questo tuo post in particolare e in la quasi totalità della tua produzione sul blog in generale perchè, come ho già avuto molte volte occasione di dirti, hai davvero un innaturale talento nell’affrontare tematiche in maniera complessa esponendole però non solo in maniera chiara e comprensibile anche quando si tratta di questioni che non lo sono, ma hai soprattutto la facoltà di sedurre il lettore, affascinandolo e coinvolgendolo.
    In tutta la mia vita ho conosciuto solo 3 persone con questo straordinario talento: la mia insegnante di greco e latino al liceo, donna fenomenale che riusciva a insegnare letteratura greca e latina senza farti aprire mai libro perchè il solo ascoltarla a lezione era condizione bastante e sufficiente non solo per capire ma anche per ricordare (una sua rapida discettazione sulla produzione teatrale di Seneca, invero la parte più marginale del suo lavoro, mi salvò il culo all’orale della maturità….); il mio professore di linguistica all’università, col quale tra l’altro discussi la tesi quando mi laureai; e infine tu.
    E’ un onore per me poter leggere questi scritti e arricchirmi grazie a loro.
    Nemmeno perdo tempo a discutere della serie TV che qui hai brillantemente proposto e sulla cui visione mi hai già convinto dopo il primo paragrafo, perchè veramente portei aggiungere ben poco a quel che hai scritto, a parte un doveroso e sentito ringraziamento.
    Anche io, come il comune amico di avventure ermenaute, ho in programma la visioned i Carnival Row durante la festività e forse allora ci sarà l’occasione per tornare sul tema.

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    • Anche se indubbiamente produrre risposte praticamente fotocopiate l’un l’altra, da inviare a chi ci scrive, fa risparmiare tempo e soprattutto, nel caso di una grande azienda e di un customer service, quell’immagine edulcorata di serietà ed obiettività ben nascoste nell’anonimato crea risposte positive dai clienti, ho altresì trovato sempre molto fastidioso e persino arrogantemente snob ricevere risposte asettiche quando invece io scrivo a colleghi blogger o a conoscenti.

      Ti potrà sembrare, amico mio, un ovvietà quella che sto dicendo, ma non hai davvero idea di quanto spesso mi capiti nella vita quotidiana: grazie per aver chiamato, grazie per aver scritto, mi complimento per le belle parole e blablabla…

      Insomma, assieme alla volgarità e alla violenza dei leoni da tastiera che si nascondono dietro ad un nickname, pronti a sparare a zero sempre comunque su tutto e tutti solo per creare frasi ad effetto di cinismo da quattro soldi, il mondo social, con una patetica imitazione delle formule di cortesia delle lettere commerciali, inquina il web con tonnellate di ipocrita cortesia…

      Tu che hai imparato a conoscermi, sai che mi piace invece trattare le persone in base agli interessi che ho in comune con esse, senza cercare di evangelizzare nessuno, attirandolo forzatamente dalla mia parte o stupendolo con declamazioni di verità chissà da quale divinità rivelatemi…

      Per per questo, in quanto fratello ermenàuta, mi permetto con te di cogliere l’occasione del tuo commento non già per ringraziarti delle splendide e generose parole che hai avuto in questa come in tutte le altre occasioni nei miei confronti, ma per sottolineare come ultimamente il mondo della serialità televisiva, anche solo come elemento statistico consequenziale all’enormità della produzione, ha cominciato a distinguersi con alcune fiction a trama orizzontale in cui gli autori, in opposizione alla tendenza (prima non solo imparante ma anche unica) di allungare il brodo di un’idea per tutta la durata di una stagione, si trovano spesso persino a dover correre per finire di raccontare tutto quello che è stato previsto dal soggetto e dal coordinamento delle sceneggiature: questo è esattamente il caso di Carnival Row.

      Partendo da quella famosa sceneggiatura cinematografica iniziale, infatti, il formidabile duo di scrittori ha creato una texture narrativa gigantesca, per tante possibili stagioni (dipende solo dalla risposta di pubblico mi dai i soldi che Amazon decide di spenderci), ma che ovviamente ha anche un Focus per ogni stagione (una vicenda in particolare) che in questo caso viene narrata davvero a marce forzate…

      Non c’è una sola puntata riempitiva o interlocutoria, ma è tutto mirato a dare allo spettatore gli strumenti necessari per capire da solo quelle che (solo per gli stolti) sono le apparenti clamorose rivelazioni delle 2 puntate finali…

      Ciò che intendo dire e che oggi è assolutamente impossibile trovare un prodotto di fiction televisiva, così come un film, in cui gli autori non si preoccupino mai del marketing, della risposta del pubblico, del possibile gradimento e che scrivono storie senza nemmeno guardare al ritmo ma solo per dare sfogo alla propria creatività: sarebbe un modo di immaginare il mondo dell’intrattenimento culturale utopistico ed anche un po’ stupido, perché non è chiaro chi finanzierebbe una cosa simile.

      Di Carnival Row si possono dire tante cose negative: che la coppia maschile e femminile di protagonisti sta antipatica o che non sappia recitare, che la musica celtica non piaccia (ad alcuni probabilmente da fastidio, boh), che le vicende narrate assomigliano all’inizio a grandi e famose opere letterarie (qualcuno l’ha detto ed è triste, visto che gli autori hanno appositamente impostato ogni singolo aspetto affinché sembrasse una variazione sul tema di qualcosa già visto nell’Ottocento), ma ciò che è impossibile, vergognoso, altamente deprecabile fare è quello che alcuni commentatori superficiali hanno fatto ovvero non vedere in questa serie l’elemento narrativo più potente di tutti e sotteso a tutti, ma proprio a tutti gli avvenimenti raccontati ossia il caos… Il caos che crea disagio, il caos che permette la rigenerazione, il caos da cui nasce un nuovo ordine.

      In conclusione, quando si giudica qualcosa ci vuole rispetto per il lavoro che è stato fatto (ovviamente quando sia evidente che tale lavoro ci sia!), anche quando il giudizio finale personale fosse di minimo gradimento, perché così sono i gusti personali, sia in fatto di sesso, di bellezza e di arte.

      Grazie di aver chiamato.

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      • Purtroppo il tempo è tiranno e vorrei scrivere tante cose su questo tuo meraviglioso commento ma dovrò farmi violenza ed essere sintetico.
        Parto da un tuo spunto:

        sottolineare come ultimamente il mondo della serialità televisiva, anche solo come elemento statistico consequenziale all’enormità della produzione, ha cominciato a distinguersi con alcune fiction a trama orizzontale in cui gli autori, in opposizione alla tendenza (prima non solo imparante ma anche unica) di allungare il brodo di un’idea per tutta la durata di una stagione, si trovano spesso persino a dover correre per finire di raccontare tutto quello che è stato previsto dal soggetto e dal coordinamento delle sceneggiature: questo è esattamente il caso di Carnival Row

        A tal proposito, proprio stamane ho iniziato (con poca voglia) la visione della terza stagione di Stranger Things e netta come nelle altre due stagioni è balzata ai miei occhi l’impressione di trovarmi di fronte a un prodotto preconfezionato, una melodia composta in base a logiche commerciali da un algoritmo evolutissimo, il classico tentativo di spremere più danaro possibile da un universo narrativo.
        Questa non vuole essere una critica alla serie tv in sè (che per altro pur con i suoi alti e bassi mantiene un onesto livello di gradimento) bensì alla filosofia che sta alla base della realizzazione di questa e di tante altre serie.
        Proprio sabato sentivo alcuni amici sbavare alla sola idea delle nuove serie tv che saranno sfornate da Disney+ il prossimo anno e io, pur con tutta la voglia del mondo, non riesco proprio a far mio questo entusiasmo perchè già so che nessuna di esse saprà stupirmi.
        Ormai si viaggia sempre su strade già percorse a velocità di crociera e senza mai una curva all’orizzonte. Ogni tanto si inchioda bruscamente perchè finisce la benzina (i soldi) e la serie chiude dalla sera alla mattina (come il caso di Swamp Thing di cui parlavamo tempo fa) resta comunque imperituro questo regno del “già visto”.
        E quando una serie riesce nell’ardua impresa di sorprendermi mi rallegro come davanti a una giornata di sole in febbraio.

        Carnival Row ha tutti i crismi per far parte di questa categoria: lo supponevo e tu me l’hai confermato. E quindi con gioia ne apprezzerò la visione.

        Sai, ancora ricordo quando mi consigliasti CONTINUUM, serie tv sicuramente trascurabile per molti aspetti che tuttavia aveva una genuinità narrativa raramente riscontrabile in produzioni molto più ricche e per questo la apprezzai.

        PS che non c’entra niente:
        ieri ho ricevuto una mail da un collega che mi invitava a effettuare la tale attività ASAPISSIMO.
        Ho pianto.
        Non lo dico tanto per dire. Proprio ho pianto. Se non abitasse a Roma già sarei andato a casa sua per prenderlo a schiaffi…

        PPS:
        cordiali saluti 😀

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        • Sul discorso delle fiction televisive come per lo più «prodotti preconfezionati» ovvero come specifici benissimo melodie composte «in base a logiche commerciali da un algoritmo evolutissimo, il classico tentativo di spremere più danaro possibile da un universo narrativo» sono ovviamente concorde con te, ma siccome è evidente che sia stato così sin dall’inizio (per chi finanzia, una fiction è un prodotto da vendere con cui guadagnare), cosa è cambiato?
          La risposta è: ciò che si vende.

          A mio modesto giudizio, infatti, tolte pochissime eccezioni, tutta la serialità televisiva è sempre stata (persino ai suoi albori, con i radiodrammi) un medium con cui vendere inserzioni pubblicitarie: più il programma aveva successo, più si vendevano gli spazi dello sponsor.
          Poi il mondo della televisione è cambiato: la classe media preferiva pagare un abbonamento (cable tv prima, parabola ed infine streaming online) pur di non avere troppa pubblicità in mezzo alle palle oppure averne in ogni caso meno ed allora il prodotto da vendere è diventato lo show stesso, quale testimonial del network; potrà sembrare una differenza da poco, ma in realtà è stata rivoluzionaria, spingendo il marketing a frammentare il pubblico in gruppi di gradimento (anagrafico, sociale, politico, culturale, etnico, etc.), creando prodotti che giustificassero l’acquisto del pacchetto abbonamento da parte del loro specifico target (basta vedere come la pubblicità di Sky Cinema e Sky Intrattenimento, ma anche Netflix, si basi sui contenuti).

          Ovviamente ho volutamente sintetizzato moltissimo ciò che in realtà è stato oggetto (anche da parte mia in altra sede) di discussioni più ampie, dove si tengono in conto le diverse piattaforme, i catalaghi disponibili per l’acquisto e così di seguito, ma il concetto essenziale è sempre quello: non esiste più fidelizzazione per lo sponsor ma per il network, tanto che oggi possiamo parlare tranquillamente di prodotti fatti in stile Netflix o HBO o Sky Original o Disney e così di seguito.
          Non è un caso, pertanto, che anche la distinzione tra serialità verticale ed orizzontale, prima escluisvamente dovuta all’origine narrativa del soggetto, sia oggi legata al target ed al network: la tv generalista (come i canali Warner, Fox, ABC, CBS, SyFy) tendono infatti a creare per lo più procedural, con il classico case-of-the-week, infarcendoli di spot, mentre i network ad abbonamento prediligono nettamente le serie a trama orizzontale, ma adesso mi fermo, perché sembra che stia scrivendo un nuovo post!

          Mi piace tuttavia che i miei interlocutori capiscano che non potranno mai aspettarsi da una serie procedural un livello di spessore come quello di Watchmen (per me, dopo Twin Peaks Terza Stagione, il miglior prodotto televisivo del dopoguerra assieme a Sherlock della BBC) e che di fronte ad un serial come Stumptown devono per forza sorbirsi cliché su cliché e trame prevdibili, buoniste, rasserenanti, in cui tutto sommato gli attori sono belli o se sono brutti sono molto simpatici (Tra l’altro, amico mio, ci ho provato, ma dopo le ultime puntate penso di abbandonare anche la citata fiction con la Smulders, perché mi sono chinato troppe volte a raccogliere i coglioni caduti per terra, che ho paura di pestarli)…
          Insomma, se proprio si vuole un nuovo serial che non ci tratti da stupidi conviene andare nella gelida Albione: ad esempio Strike (dalla penna della Rowlings) è dignitoso (sempre prevedibile, ma con pù classe), così come il modesto l’investigativo classico franco-britannico Death in Paradise (uno dei telefilm meno innovativi dal punto di vista registico e della messa in scena, ma con le trame gialle più belle mai viste).

          P.S. Strangers Things è un incredibile clonatura di se stesso che funziona ogni volta, ma siamo appena sopra il livello intellettuale di un elettore di Trump.

          P.P.S. Continuum… Quanti ricordi… Tante idee, pochissimi soldi e tutto molto naif…

          P.P.P.S. Asapissimo: ci ho messo qualche secondo per realizzare che ero di fronte ad uno di quegli aggetivi usati nello slang internettaro, simile al sottocodice liguistico dei videogiocatori online (invero più fantasioso, sfrontato ed ironico, come quando sento mio figlio in chat al PC dire «Ehi, ho killato quello a destra» oppure «Guarda l’ho headshottato!!»), ma come ho realizzato che delle Bestie di Satana e succubi di Lucifero avevano preso un acronimo inglese e lo avevano trasformato in aggettivo italiano con superlativo assoluto (assurdo, tra l’altro, perché è impossibile fare prima di “prima possibile”), ho avuto un conato di vomito!
          O tempora! O mores!

          P.P.P.P.P.S. Avevo già comiciato a scrivere il mio commento al tuo post, ma mi sono dovuto interrompere per rispondere al tuo con la massima dignità dovuta

          P.P.P.P.P.P.S Io e mia moglie abbiamo creato degli acronimi con cui spesso comunichiamo in codice quando si prepara una pietanza per qualcun’altro che non merita raffinatezze… Il più usato è PAP (Perle Ai Porci) anche nella versione anglofona PTP (Pearls To Pigs): sulla scorta di questo, pensavo di usare nei miei commenti l’acronimo OTOM (per indicare la locuzione ciceroniana prima citata).

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  7. L’ha ripubblicato su Chez Moie ha commentato:
    E mentre io mi perdo negli spot pubblicitari ecco Kasabake, che è mille passi avanti a me , catapultarci nella metafora fantasy/ gotica/ horror steampunk più bella che io abbia mai visto sul fascismo,il razzismo e l’intolleranza ipocrita del genere umano!
    Enjoy!!!

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    • Se già è un piacere personale scrivere di una così bella serie (perché nella mia piccolezza, mi sembra solo parlandone, di poter quasi far parte di quel tutto così grande, come un bambino che corre per casa con un telo legato attorno al collo fingendo di indossare il mantello di un qualche supereroe), leggere i commenti che sono arrivati è delizioso ed appagante, ma tu e Gianni avete addirittura re-bloggato il pezzo sul vostro spazio, rendendomi un onore dal quale non perdo nemmeno tempo a schernirmi e che mi tengo stretto, stretto vicino al sorriso che ho da qualche ora stampato in faccia!

      Così come ho pensato a Gianni, per tutto il tempo in cui i due autori della fiction si divertivano ad affascinare con la loro rielaborazione del fantasy e del noir (sconfinante nel melodramma e nel dramma storico), allo stesso modo, la mia mente, carissima Liza, ad ogni visione di una fata e dei segreti delle creature magiche, è corsa così velocemente a te che, quando hanno cominciato a giocare con la del Darkasher ed ho visto l’aruspice, volevo persino telefonarti, perché sembrava un capitolo scritto da te e dalle tue colleghe streghe di penna!!!

      Un abbraccio, amica mia.

      P.S. Trovo che il motto con cui Travis Beacham e René Echevarria hanno pubblicizzato la serie sia potentissimo: DIFFERENT IS DANGEROUS

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  8. Un’analisi davvero profonda di una serie tv che mi aveva interessato (cosa molto difficile da fare con me) e che avevo intenzione di guardare. Mi piace la fusione di questi generei: noir, fantasy, steampunk. Un progetto affascinante e ambizioso che a ben vedere sembra esteticamente azzeccato. Non l’ho ancora vista, ma voglio assolutamente farlo. L’odio tra Umani e Non-Umani mi interessa, è un ottimo modo per narrare la discriminazione e l’avarizia dell’uomo.
    Grazie mille per questo tuo portentuoso articolo.

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  9. Pingback: Carnival Row – kasabake – Alka Traz shop

  10. Eccomi, ho finito la serie ieri notte, che dire? Davvero Fantastico dall’inizio alla fine, ogni puntata tiene legati alla vicende maledicendo ogni volta che arriva alla fine, ogni puntata riserva risvolti nuovi e diversi, anche se nulla in fondo appare così sorprendente, perché lo svolgersi del racconto aveva già fatto, in qualche modo, presagire la verità. Stupenda l’ambientazione, curata nei minimi particolari, dai personaggi, ai vestiti, alle usanze che ci riportano indietro di secoli nella nostra storia eppure con particolari di modernità e di fantasia integrati perfettamente nel contesto.
    Seppur la vicenda coinvolga personaggi fantastici come le fate, i fauni, i lupi mannari e tante altre figure fantastiche, non si ha mai la sensazione di vedere un fantasy per quanto ogni figura sia perfettamente e naturalmente integrata nel contesto. Quello che emerge man mano nella visione è l’evidente attualità dei temi trattati, il razzismo, la paura del diverso, la prevalenza di ceti sociali su altri, l’arrivismo, la voglia di potere, le strategie, l’invidia, la menzogna e l’ipocrisia, in tutto questo, onestamente, gli “umani”,la classe eletta, non ci fa proprio una bella figura.
    Une bellissima serie televisiva che sa dare numerosi spunti di riflessione e insegnamenti, soprattutto quello che: con l’invidia, la voglia di potere, l’arrivismo e la cattiveria si possono creare mostri invincibili…ma l’uomo non lo è così come precaria sarà sempre la sua vita.
    Buona domenica e grazie ancora per la segnalazione di questa stupenda serie!

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    • Che bel messaggio che mi hai mandato Silvia! Probabilmente il miglior modo per augurarmi buona domenica!
      Mi piacerebbe tanto chiacchierare con te sulle singole scene, ma per chi ci legge questo sarebbe un terribile spoiler…
      Tuttavia, parlando quasi in codice, sapendo che tu che hai visto tutta la serie e che quindi comprenderai bene ciò che sto per dire, volevo almeno condividere con te l’apprezzamento per una singola scena in particolare, che si svolge all’interno dell’orfanotrofio e che fa parte non già dello specifico ricordo di Philo bambino (che in quel momento in realtà dormiva e sognava), ma della ricostruzione di quanto realmente accaduto fatta dagli autori per il solo godimento dello spettatore e che mostra chi tu sai svolazzare amorevolmente sopra di lui…
      Come sai, perché te l’ho scritto, ho visto la serie due volte di seguito ed ogni volta quella scema mi sono commosso.

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  11. Mi ero ripromesso d’intervenire dopo aver visto la serie, giusto per essere preparato e non sciolinare commenti d’altronde meritevoli per questa tua presentazione-recensione mirabilmente descritta dalla tua competenza, ma, non avendo ancora potuto espletare questa dose di curiosità abbinata alla mia preferenza sui prodotti fantascientifici, e me ne dolgo quasi con rabbia, intervengo lo stesso, non tanto per farti gli auguri di un buon anno cinematografico, ma perché come giustamente dici, il prodotto è al di sopra le altezze consuete. Spesso mi perdo nel cercare serie interessanti, e proprio per questo quando si seguono i consigli giusti, si ha la percezione di finire al posto giusto nel momento giusto. Mi riprometto di risolvere al più presto questa mia mancanza in modo da non lasciare solo sulla carta scritta questo tuo mirabile post, anche perché le convergenze con il nostro mondo, ho capito che sono innumerevoli, e acuiscono ancor di più la curiosità.
    Con immensa stima…

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    • La citazione di Huxley, che mi hai regalato nella risposta al mio commento sotto al tuo splendido post di selezione musicale, non solo è splendida, ma mi permette di ribadire un concetto che nell’arte dell’intrattenimento culturale è spesso dimenticata ovvero la capacità di guardare oltre l’ovvio: per questo nel mio blog mi capita di sforzarmi di trovare spunti interessanti anche in prodotti costruiti solo per fare incasso e magari deludermi nella visione di film che avrebbero avuto le carte in regola per stupirmi intellettualmente e che si sono invece adagiati in una retorica narrativa troppo autoreferenziante…
      Questo passato 2019 mi ha regalato tanti bellissimi film e fiction (non so se avrò voglia di stilare una classifica) a tutto tondo, ma anche opere imperfette, seppure con spunti affascinanti a cui va portato i giusto rispetto, come è il caso di questa Carnival Row, specie in un periodo storico in cui il fantasy (sia nella sua accezione ristretta di imitazione tolkieniana, sia in quella linguisticamente più ampia di realtà di fantasia, persino fantascientifica) è diventato un terreno di conquista del molock disneyano che sta cercando di imporre a tutto lo stesso gusto…
      Per il marketing è più facile gestire un prodotto se tutto si assomiglia, come le Pringles, come il formaggio industriale, tanto che spesso la creatività è intesa dal pubblico come un’asperità…

      So che sto andando fuori tema, ma riflettevo sul risultato di un’indagine, svolta da un noto youtuber (specializzato in recensioni di tecnologia di consumo) tra i suoi followers (parliamo di milioni di visualizzazioni), in cui chiedeva di esprimere una preferenza su una serie di fotografie, scattate da diversi modelli di smartphone, sul medesimo soggetto: dopo una lungo lavoro di confronto e proposta alla cieca (chi votava non sapeva quale device aveva fatto la foto), è emerso che il gradimento del pubblico non andava alle foto tecnicamente ed artisticamente migliori (dove era presente un realistico gioco di sfumature, blur e profondità di campo prospettica), ma alle più banali e piatte (dove ogni piano era contemporaneamente a fuoco, ogni elemento dell’inquadratura era nitido e con colori accesi)… La maggioranza aveva preferito foto brutte e tutte uguali….
      Fa pensare…

      P.S. questo il link del video, nel caso interessasse: https://youtu.be/KxsFat1ImiY

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      • Certo che mi interessa e ti ringrazio, tra l’altro questo tuo ragionamento si può ampliare in tutti i campi dell’espressività artistica, musica compresa, appiattita dalle frequenze dell’MP3 in maniera banalissima. Cosa ci vuoi fare, io provengo da quella generazione che fece dell’Hi Fi una ragione di vita, per non dire una religione, in cui, avere in casa propria un impianto fatto di casse, piatto, ampli, equalizer e lettori veri, era una somma di vanti dove far udire il suono perfetto. Tieni presente che i classici dischi ora riconosciuti come dei capolavori, sono tutti nati con un certosino lavoro in studio proprio alla ricerca delle sonorità migliori. Poi le cose sono cambiate, così come le case discografiche, e ora in mezzo a questo mordi e fuggi ci siamo ritrovati come in una palude, dove bisogna conosce i percorsi giusti altrimenti si rischia d’impanarsi senza riuscire a trovare una via d’uscita giusta. Viviamo in un periodo dove si è appiattito tutto perché la rete ha dato la possibilità a ognuno di farsi notare, ma dentro a questa immensa libertà il risultato è stato quello di lasciar passare inosservati (o quasi) i prodotti migliori. Ora mi fermo, altrimenti a furia di andare fuori tema parlerei per ore….
        Alla prossima ragazzo !

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  12. Ciao Kasabake, rivolgo un lungo plauso a questa tua bella recensione!
    Ho finito la visione di Carnival Row giusto oggi e che dire, ne sono rimasta abbagliata, intrigata e affascinata, da lungo tempo una storia fantasy non mi prendeva così tanto, sarà pure per quella buona fetta di “gotico” che anche tu citi tramite autori illustri (impazzisco per il gotico è un mio guilty pleasure perenne, soprattutto quando si fonde con altri generi), ma ho davvero trovato una grazia e una cura nel racconto generale assolutamente gradevole, coinvolgente, non banale e senza effetti artificiosi che oggi per tante serie tv (ma anche pellicole) sono il male, almeno per me, anzi la scoperta di questo mondo risulta davvero naturale e ahimè sì, molto famigliare.
    Le tematiche sono trattate in modo intelligente per una volta senza cadere in banalità citofonate e retorica da bar, facendo vedere più facce di certi argomenti e sopratutto senza escludere nessuno grazie all’espediente magico-razziale.
    Sono francamente stupita anche se non dovrei esserlo frequentando tanto social usati prevalentemente dagli americani quando hai fatto presente la divisione del pubblico verso il prodotto e, a quanto pare, sulle solite castronerie/superficialità e travisamenti vari, davvero un grande MAH! Sinceramente con tutti i pattumi di poca personalità che girano su ogni tipo di media oggi non capisco come si possa criticare questa serie per tali sciocchezze, nell’epoca del nostalgismo e del “quasi plagio” ancora meno poi, probabilmente i più ne sono così abituati da non riconoscere la differenza con le citazioni e gli omaggi “sani” ad opere cardine; posso capire il gusto personale se non fa gola, ma a livello oggettivo lo trovo aberrante e scadente da parte della critica.
    Non vedo l’ora di gustarmi la seconda stagione, spero possa migliorare ancora, ma anche se rimane a questo livello mi va più che bene, sono davvero curiosa e impaziente di sapere come andrà a finire per questi personaggi.

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    • Certe volte temo davvero, con le mie parole, di essere frainteso o comunque di generare imbarazzo, ma spero sempre che coloro che mi hanno conosciuto, per tutto il resto che pubblico, possano invece comprendermi… Ad esempio, debbo confidarti, Clarice, che ogni volta che vedo apparire il tuo avatar e la tua firma in un commento sul mio blog, io mi emoziono! Si, perché mi piace tantissimo come scrivi e soprattutto quella girandola di emoziuoni che non fai nulla per nascondere e che anzi diviene la tua cifra stilistica, aldilà delle competenze indiscutibili…

      Oltre a ringraziarti per le bellisisme parole spese per rendere onore alla mia recensione, mi allieta questo nostro comune sentire un profondo disagio per le ingiuste pubblcazioni su questa serie che si trovano in giro per il web: come ebbe a dire tate altre volte anche il tuo sodale Arcangelo, certe volte mi chiedo se guardiamo le stesse cose degli altri… Boh!

      Insomma, i gusti son gusti, non si discute, ma negare l’ovvio è criminale: è impossibile trovare un prodotto d’intrattenimento culturale privo di difetti (si parla di opere artistiche corali, realizzate con esigenze molteplici, sia narrative che economiche, stretti dalle richieste del marketing, del netwrk, dei manager dei divi, delle scadenze, degli scioperi, delle programmazioni concorrenti… Una selva in cui districarsi!), specie in tv e quindi accogliero sempre con bonomia chi fa presente le criticità di una serie (discutevo su reddit e su Instagram con alcuni lievi detrattori di una fiction, per me sublime, come il Watchmen di Lindelof ed era una discussione pacata e misurata, ripsettosa dei giudizi altrui, sempre ben articolati), perché è ovvio che ce ne siano anche in Carnival Row, ma fingere di non vedere la cura nei dettagli, le scenografie, la trama articolata ed il lavoro di worldbuilding è assurdo…

      Restando in campo fantasy, invece, sto avendo non poche perplessità sulla tanto acclamata The Witcher, per me un po’ troppo Game of Thrones virato Fantaghirò

      Sospensione di giudizio, poi, su His Dark Materials della HBO, di cui ho visto solo le prime due puntate, assolutamente ben fatta dal punto di vista drammaturgico, ma per ora senza quell’effetto whaoo che invece mi aspettavo (Ah, certo che Ruth Wilson, l’indimenticabile Alice Morgan di Luther, è chiaramente straordinaria nei panni del complesso character di Madame Coulter…).

      Alla prossima, Clarice!

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