6 Degrees – My Favourite Things, Parte 2 di 2: da Clouseau a Gardiner

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La volta precedente, con la 1° Parte di questo 6 Degrees, ci eravamo lasciati affermando come la capacità di Blake Edwards di dominare la raffinata arte dello slapstick era stata essenziale per permettergli di creare una delle saghe comiche cinematografiche più celebri ed apprezzate di sempre ovvero The Pink Panther, serie di film entrata nella storia dello spettacolo tout court ed in cui tutta l’abilità come cineasta e come narratore di Edwards si sommò al talento recitativo senza precedenti di un grandissimo attore, un divo che per anni si è praticamente identificato con il suo personaggio più famoso: sto parlando di Peter Sellers e della sua caratterizzazione di Jacques Clouseau, Ispettore francese della Sûreté Nationale (oggi divenuta “Police Nationale”), che è anche il nostro 5° Grado di Separazione, con cui ripartiamo in questa 2° e conclusiva parte del nostro viaggio.

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A distanza di tanti anni, non ha oggi davvero più molta importanza sapere quali grandi capacità anche drammatiche avesse Sellers e quali sarebbero potuti essere, quindi, gli altri infiniti ruoi a cui sarebbe stato destinato in una diversa vita professionale, poiché la sua fama e la sua immagine pubblica sono oramai per sempre legate al character di una vita ovvero a quel personaggio da lui tanto amato e tanto odiato, che gli donò fortuna economica e notorietà planetaria, ma che lo schiavizzò del tutto, protagonista di una serie di avventure narrate sullo schermo dal 1963 al 2009, in 11 pellicole (9 titoli del franchise originale e 2 della saga reboot, quella inguardabile con Steve Martin nei panni del protagonista) di cui il nostro mattatore ne interpretò più di metà, interrompendosi solo perché stroncato da infarto il 24 luglio 1980, all’età di 54 anni.

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Incredibilmente fortunato nell’uscire dai guai in cui si cacciava da solo, sempre a caccia di villain formidabili che riusciva inesorabilmente a sconfiggere senza un briciolo di acume investigativo, lunare e maldestro, presuntuoso e perennemente vittima della bellezza femminile, data la sua incapacità di considerare colpevole qualsiasi bella donna, anche di fronte a sospetti o prove schiaccianti, quello di Clouseau fu un personaggio ed anche una formidabile maschera di scena, giocata da Peter Sellers con una mimica facciale e corporea ineguaglabile e senza dubbio artisticamente simile a quella usata da Chaplin per il suo Charlot o da Jacques Tati per Monsieur Hulot.

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Gli esempi che ho citato non sono decisamente casuali, giacché parliamo di artisti che furono campioni indiscussi di quell’arte del mimo che, entrata nel mondo del cinema, diventò un motore immobile con cui modificare la realtà scenica, dagli oggetti inanimati (che acquistavano significanza per un loro uso improprio) fino agli altri interpreti, derubricati al ruolo quasi di burattini, con quello stesso meccanismo di spersonalizzazione subìto persino da Dean Martin quando, mutatis mutandis, fece da spalla a Jerry Lewis nei vari film del comico statunitense.

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Dal punto di vista estetico, quello di Clouseau era oltretutto un costume semplicissimo, costituito da pochissimi scarni elementi, come sempre è accaduto per ogni grande personaggio teatrale (giusto per restare agli esempi sopra fatti, basti pensare alla pipa di Hulot o al bastone di Charlot) ed in questo caso consistente soltanto in un paio di baffetti ed un immancabile impermeabile marroncino, a volte sostituito da travestimenti appariscenti e quasi carnevaleschi, acquistati nella finzione scenica presso una coppia di fedeli negozianti, facenti parte della stramba corte dei miracoli che attorniava l’ispettore nei vari film: tuttavia la presenza scenica era totale, talmente schiacciante da mettere in ombra qualsiasi altro personaggio.

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Per questo motivo, malgrado il nome The Pink Panther accomuni anche in originale quasi tutti i titoli della serie di film, la storia della “Pantera Rosa”, questo leggendario e gigantesco diamante, con al suo interno un raro difetto di colorazione a forma di pantera, donato dal Maharajah a sua figlia Dala e successivamente conteso da ladri e rivoluzionari, fece da soggetto solo ed esclusivamente al 1° ed al 4° film, mentre ciò che in realtà costituì  il vero collante della saga e ne fu il denominatore comune (nonché vero motivo del suo straordinario successo di pubblico) è stata la narrazione della mitologia del character impersonato da Sellers, ma questo accadde solo dopo l’inaspettato successo planetario del primissimo film della saga.

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Quando nel 1963 fu messo in cantiere il primissimo The Pink Panther, infatti, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quella bizzarra pellicola, diretta da Blake Edwards e sempre da lui sceneggiata (in collaborazione con il fedele autore Maurice Richlin), avrebbe valicato gli stretti confini di una classica sophisticated comedy, quale invece sarebbe dovuta essere, per lo meno secondo le intenzioni iniziali dei produttori, che sulla carta avevano immaginato il film come una parodia leggera del celeberrimo To Catch a Thief (Caccia Al Ladro) del 1955 di Alfred Hitchcock, connotandola anche di una simile aura di esclusività e glamour, garantita in questo caso dalla lussuosa location di Cortina d’Ampezzo, nonché dalla presenza nel cast di dive e sex symbol come Capucine e Claudia Cardinale.

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Sul set, però, con l’arrivo imprevisto di Peter Sellers, in sostituzione all’ultimo momento di Peter Ustinov (al quale era destinata la parte del maldestro ispettore), nacque un’immediata e specialissima alchimia tra il nuovo attore ed il regista, tanto che la storia di questo ladro gentiluomo, chiamato il “Fantasma” (interpretato da David Niven), abilissimo nel sottrarre gioielli alle ricche signore (costruita appunto per ricalcare in modo divertito quella dell’altro ladro di preziosi ovvero il misteriosissimo “Gatto”, impersonato da Cary Grant nel film del maestro inglese), venne letteralmente stravolta dalla comicità rivoluzionaria di Sellers, che s’impose non già come spalla comica di Niven, ma come showman assoluto: il soggetto inziale del film, fatto di equivoci e tradimenti coniugali, divenne alla fine il palcoscenico della nuovissima maschera comica di Clouseau, sempre al centro di inseguimenti, cadute fragorose, vasi rovesciati, violini calpestati e dove il respiro, inizialmente rilassato della commedia elegante, si trasformò nei toni deliziosamente fracassoni e circensi del lapstick.

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The Pink Panther non fu certo un film perfetto, proprio per questa sua natura ibrida, quasi in progress, ma fu anche sorprendentemente vitale e traboccante di idee ed invenzioni (con gag abbondantemente saccheggiate dal cinema e dalla televisione anglosassone nei decenni sucessivi) e quindi premiato da un gradimento popolare straordinario: così, quando la United Artist chiese ai due artisti di replicare subito quel successo, con un sequel da farsi già l’anno successivo, essi nel 1964 realizzarono il capitolo indubbiamente più bello ed importante di tutta la serie, quel fenomenale A Shot in the Dark (Uno sparo nel buio), miracoloso matrimonio tra l’irrefrenabile e fisica verve comica di Peter Sellers ed il magnifico senso del cinema di Blake Edwards, che qui si spendette in sequenze cinematografiche da manuale, tra le più luminose di tutta la sua lunga carriera, come potete constatare anche soltanto dalla clip seguente, dove scorre l’impeccabile sequenza di apertura, con la cinepresa che volteggia tra un piano teatrale all’altro, in molteplici possibili set, come tanti capitoli di una detective story, per un effetto finale, ancora una volta, imitatissimo negli anni a venire, spesso in modo irriconoscente.

In questa pellicola, persino l’intrigo giallo della storia è notevole e quasi lasciato in sospeso, frutto della inusitata collaborazione, nella redazione del soggetto e della scenggiatura, tra Blake Edwards e lo scrittore William Peter Blatty, colui che sette anni più tardi avrebbe raggiunto fama imperitura grazie al suo romanzo The Exorcist e soprattutto con la scenggiatura cinematografica da lui stesso scritta nel 1973 per il film di William Friedkin, che gli valse anche l’Oscar.

In A Shot in the Dark, Edwards e Sellers gettarono le basi di tutta la narrazione di fondo che accompagnerà l’ispettore in ciascuna delle sue avventure: compaiono per la prima volta tutti i comprimari di eccellenza, a partire da Cato Fong, il fedelissimo servitore di Clouseau, incaricato in particolare di tenere costantemente in allenamento il suo datore di lavoro, aggredendolo di nascosto nei modi più rocamboleschi, imbarazzanti ed ovviamente comici possibili, con una versione parodistica delle arti marziali alle Bruce Lee tanto in voga negli anni ’70 e non a caso, infatti, il ruolo di Cato fu affidato da Sellers all’attore Burt Kwouk, nato in Inghilterra da genitori cinesi e che interpreterà il suo ruolo con costante efficacia in 8 dei 9 film della serie originale.

Una menzione speciale va doverosamente fatta all’attore inglese Graham Stark, caratterista affezionato di Blake Edwards di cui abbiamo già acennato sopra e perfettamente riconoscibile per lo spettatore per la sua mimica facciale alla Buster Keaton e che in ogni film della saga de The Pink Panther interpreterà un character di volta in volta diverso: a partire da Hercule Lajoy, il detective che assiste Clouseau nelle indagini, presente nel 2° capitolo; quindi Pepi, l’assistente del criminale Fat Man nel 4° capitolo; un anziano impiegato d’albergo nel 5° capitolo; il Professor Auguste Balls nel 6° capitolo; ancora il detective Lajoy nel 7° capitolo; un cameriere di ristorante nell’8° capitolo; nuovamente il Professor Auguste Balls nel 9° ed ultimo capitolo della serie originale.

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Come avevamo fatto cenno qualche periodo fa, la saga dei film con protagonista l’Ispettore Clouseau fu però anche la storia di una prigionia, quella di Peter Sellers (recalcitrante e stanco del proprio personaggio, che sentì subito come sofficante e toatlizzante, fin dal primo sequel), ma anche del regista Blake Edwards (che avrebbe voluto per entrambi maggiore libertà creativa) e così da essa cercarono di scappare tentando altre strade narrative e recitative, sia in solitario (come non citare, ad esempio, il triplice ruolo di Sellers nel cult movie di Stanley Kubrick Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb del 1964), che assieme: fu così che nel 1969 i nostri due artisti girarono The Party (da noi distribuito con il più specifico Hollywood Party), la commedia statunitense probabilmente più destrutturata di sempre, in cui la trama e persino i dialoghi erano praticamente solo una scusa per una serie di gag sequenziali ed efficacissime, tutte con protagonista assoluto Sellers nella parte dello sconosciuto attore indiano Hrundi V. Bakshi, maldestro, sfortunato ed assolutamente fuori luogo e che anticiperà le moderne forme di comicità televisiva.

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Tuttavia il successo e la fama di quel film rivoluzionario furono tardive e comunque non tali da permettere ad entrambi di sganciarsi definitivamente dall’ispettore Clouseau e così la United Artists (titolare dei diritti sulla serie di The Pink Panther), dopo il disastroso fallimento del 3° film della serie (quel Inspector Closeau del 1968, in cui si era cercato di proseguire il franchise sostituendo Peter Sellers con Alan Arkin e Blake Edwards con il regista Bud Yorkin), costrinsero Sellers ed Edwards a firmare per altri tre film, in cui vennero stancamente proseguite le avventure del famoso ispettore, in un continuo calando di originalità e valore artistico, ma assolutamente immutato successo di pubblico)

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In rapida successione, videro quindi luce The Return of the Pink Panther (La Pantera Rosa colpisce ancora) del 1975, The Pink Panther Strikes Again (La Pantera Rosa sfida l’ispettore Clouseau) del 1976 ed infine Revenge of the Pink Panther (La vendetta della Pantera Rosa) del 1978, poi nel 1980, Peter Sellers venne stroncato da un infarto e quanto avverrà dopo la sua morte sarà solo una squalida forma di sciacallaggio ed un patetico accanimimento su un franchise cerebralmente morto: nel 1982 lo stesso Edwards si prestò a scrivere e dirigere una pellicola ai limiti della necrofilia artistica,  Trail of the Pink Panther (Sulle orme della Pantera Rosa), in cui Sellers compare in moltissime immagini di repertorio; quindi nel 1983, lasciato andare il cadavere del gramde comico, fu la volta di Curse of the Pink Panther (Pantera Rosa – Il mistero Clouseau), in cui fu scelto l’attore Ted Wass per interpretare il personaggio di Clouseau.

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Infine, nel 1993 Blake Edward saluta anch’egli per sempre la saga, sia come autore che come regista, tentando l’ultima carta e dirigendo un clownesco Roberto Benigni nei panni del personaggio del gendarme Jacques Gambrelli, figlio illeggittimo di Clouseau, in Son of the Pink Panther (Il figlio della Pantera Rosa), davvero umiliante nono ed ultimo capitolo della cosiddetta serie originale dei film di The Pink Panther.

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Penso che sia evidente, per chiunque sia arrivato fin qui a leggere, che l’ultimo capitolo di questa nostra cavalcata in due puntate sarebbe dovuto essere lo stesso attore Peter Sellers, ma la sua quasi morbosa fusione con il character totalizzante dell’Ispettore Clouseau li ha fatti divenire quasi un unico corpo artistico, per lo meno come percezione popolare da parte del pubblico: per questo motivo e soprattutto per la straordinaria significanza anche metaforica di estremo saluto dal grande palcoscenico della vita e del cinema, il conclusivo 6° Grado di Separazione non poteva che essere il totemico character di Chance il giardiniere (da un certo punto della pellicola in poi chiamata da tutti Chauncey Gardiner, come se la sua professione fosse divenuta il suo cognome), personaggio principale e protagonista quasi metafisico di Being There (Oltre il giardino), la bellissima ed imperdibile commedia del 1979, ultimo vero regalo che Sellers fece all’umanità, nonché esempio di recitazione magistrale.

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Questo è uno di quei casi in cui non usare i superlativi assoluti per definire l’opera artistica in oggetto sarebbe segno di ipocrisia e malcelato snobismo: infatti, malgrado i tanti recuperi e le osservazioni retrospettive che faccio nel mio blog, mi capita comunque davvero di rado di parlare di una pellicola che dichiaro in modo perentorio che non solo va ricordata e lodata (persino studiata), ma certamente recuperata da chi, per qualsiasi motivo (per lo più la giovane età), non l’avesse mai vista.

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Tutto di questa pellicola trasuda storia del cinema, a partire dal suo essere il testamento spirituale di un genio recitativo quale fu Peter Sellers: Being There fu infatti uno degli ultimi tre film che il grandissimo Peter Sellers interpretò poco prima della sua morte, dopo lo svogliatissimo The Prisoner of Zenda (Il prigioniero di Zenda) del 1979 ed immediatamente prima del disastroso The Fiendish Plot of Dr. Fu Manchu (Il diabolico complotto del dottor Fu Manchu) del 1980 (passato alla storia soltanto perché ultimissima testimonianza filmica del talento recitativo del nostro artista, per altro sprecato in modo vergognoso in una produzione conculsa e caotica, con un copione sbagliato ed oltretutto disseminato di patetico razzismo).

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Il romanzo omonimo (tradotto in Italia per la Mondadori, nella collana I Libri della Medusa, con il titolo un po’ eccessivamente poetico ed ermetico di Presenze) da cui fu tratto il film era stato pubblicato nel 1970 dallo scrittore polacco Jerzy Kosinski, ma venne quasi subito accompagnato da una serie di polemiche riguardo serie accuse di plagio molto curcostanziate ed anzi alcuni critici statunitensi si spinsero, negli anni successivi, ad affermare che non solo quel romanzo era stato copiato da un’opera letteraria del 1932 di Tadeusz Dołęga-Mostowicz (sconosciuta fuori della Polonia), ma l’intero corpo degli scritti di Kosinski era in realtà frutto dell’opera di giovani ghost writers, pagati per adattare in uno stile narrativo unico diversi scritti, a loro volta provenienti dall’Est Europa: insomma, il film che la United Artist si accingeva allora a produrre aveva probabilmente alla base un inganno letterario di vastissima scala.

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La pubblicazione del libro era stata comunque accompagnata da un grande successo di vendite ed i diritti per la trasposzione cinematografica erano stati già pagati, perciò i lavori di pre-produzione andarono avanti lo stesso, in primo luogo con la scelta del regista: tale ruolo fu affidato al prestigioso nome di Hal Ashby, uno dei numi tutelari della cosiddetta New Hollywood, direttore di scena con un ventaglio di film indimenticabili al suo attivo, non solo di forte impegno culturale e civile, ma anche di notevole gradimento e risposta economica da parte degli spettatori, dalla commedia nera Harold and Maude del 1971, a The Last Detail (L’ultima corvé) con Jack Nicholson in quello che fu probabilmente il suo primo grande ruolo, a Bound for Glory (Questa terra è la mia terra) con Davide Carradine ad impersonare uno dei padri storici e spirituali della country muisc americana come Woody Guthrie, fino al celebre film antimilitarista Tornando a casa (Coming Home) che fece meritare un Oscar ad entrambi i protagonisti maschile e femminile, nelle persone di Jon Voight e Jane Fonda.

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Per il casting di Being There si optò invece per la prestigiosa presenza di Shirley MacLaine, attrice blasonata e veterana di Hollywood, alla quale si debbono innumerevoli commedie divenute veri classici, mentre per tutti gli altri ruoli ci si affidò ad ottimi interpreti, ma per lo più noti soltanto per ruoli di supporto: la casella del protagonista maschile, la più difficile di tutte, vista l’enorme complessità di ritrarre un idiota inconsapevole ma carico di incredibile magnetismo (quale nella storia era il personaggio di Chance), fu lasciata vuota fino all’ultimo, quando il nome di Sellers fu infine selezionato (dopo che la parte era stata rifiuatata da altri grossi nomi, quali Burt Lancaster e Laurence Olivier) e questa circostanza ha un particolare valore di giustizia cosmica e quasi di riconoscenza, giacché fu proprio Sellers a convincere i finanziatori della United, durante la tempesta mediatica successiva alle accuse di plagio, a realizzare ugualmente questo film.

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Rimaneva solo lo sceneggiatore ed anche in questo caso Peter Sellers fece valere tutto il suo potere contrattuale e praticamente impose ai produttori il nome dello stesso scrittore Jerzy Kosiński, il quale, va detto, realizzò probabilmente la sua migliore opera letteraria, realizzando uno script in vero stato di grazia, in cui l’eroe è descritto come un guscio vuoto, come una vera assenza di significati, di valori e persino di consapevolezza, che probbailmente non avrebbe nemmeno superato il cosiddetto test di Turing, di volta in volta riempito di significanze da coloro che gli navigavano attorno, trasformando così gli stessi concetti di apparenza e presenza in semplici percezioni.

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Alla luce delle affermazioni dello stesso Sellers, che quando parlava del suo metodo recitativo definiva se stesso quasi come un guscio vuoto che si riempiva completamente con lo spirito del personaggio (nell’intervista apparsa su Playboy nell’Orttobre del 1962 diceva «As far as I’m aware, I have no personality of my own whatsoever. I have no character to offer the public. When I look at myself I just see a person who strangely lacks what I consider to be the ingredients for a personality – Per quel che mi conosco, non ho una personalità tutta mia. Non ho carattere da offrire al pubblico. Quando guardo me stesso vedo una persona che stranamente manca di ciò che penso debbano essere gli ingredienti di una personalità»), quel copione appare oggi come profetico e rivelatorio.

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Mi chiedo se sia anche solo immaginabile un destino migliore, per chiudere per sempre la carriera di un grande attore come Peter Sellers, che non quello di riuscire ad interpretare un nulla significante?

Ringrazio di cuore tutti i coraggiosi che sono arrivati fino alla fine di questo lungo filo rosso, snodatosi nei 6 Gradi di Separazione di questo post.


In questo post abbiamo citato i seguenti film:

The Pink Panther“, USA, 1963
Regia: Blake Edwards
Soggetto e Sceneggiatura: Blake Edwards e Maurice Richlin

A Shot in the Dark“, USA, GBR, 1964
Regia: Blake Edwards
Soggetto e Sceneggiatura: Blake Edwards e William Peter Blatty

Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb
USA, GBR, 1964
Regia: Stanley Kubrick
Soggetto e Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Terry Southern e Peter George
dal romanzo “Red Alert” di Peter George

The Party“, USA, 1968
Regia: Blake Edwards
Soggetto e Sceneggiatura: Blake Edwards, Tom e Frank Waldman

Being There“, USA, 1979
Regia: Hal Ashby
Soggetto e Sceneggiatura: Jerzy Kosiński
dal suo romanzo omonimo


 

47 pensieri su “6 Degrees – My Favourite Things, Parte 2 di 2: da Clouseau a Gardiner

  1. La mia totale ignoranza sulla saga della Pantera Rosa è tale che ho sempre creduto che Pantera Rosa fosse il protagonista e Clouseau soltanto una spalla. Ovviamente non ho mai visto nessun film della saga.
    La tua esegesi dell’opera di Edwards e Sellers mi ha veramene intrigato.
    Ti confesso però che, nonostante di primo acchito mi sia venuta voglia di recuperare almeno le prime due pellicole del franchise, temo dovrò trattenermi. La comicità è forse, tra le forme cinematografiche, lo stile che più paga il trascorrere del tempo. Diceva Mastroianni (o forse era De Sica… boh…) che si può piangere da soli ma per ridere bisogna essere almeno in due. Ecco, il solipsismo del pianto permette ai film drammatici di essere raramente vittima di obsolescenza, viceversa le commedie – nutrendosi dell’interazione con l’attualità e i personaggi – paga di più pegno al trascorrere degli anni.
    Mi chido (e ti chiedo) quindi se oggi, a quasi 50 anni di distanza, valga la pena di recuperare certe pellicole, con il serio rischio che i ritmi e gli stilemi dell’epoca risultino oggi noiosi o, peggio ancora, incapaci di strappare un sorriso.

    PS: stamattina ho visto Shazam. Al di là dell’innegabile compiacimento per un cinecomic divertente condito da personaggi brillanti e interpretato da un attore cui sono legatissimo dai tempi di Chuck (fenomenale serie tv comica) e che con piacere ho rivisto di recente anche nella Signora Masiel, ti confesso che il mio disappunto per la strada che stra prendendo il DCEU (ammesso e non concesso che un DCEU esista ancora…), che ormai ha definitivamente rinunciato a creare uno stile anche solo un po’ diverso da quello Marvel. Non sarebbe infatti difficile credere che ultime due produzioni DC (Aquaman e Shazam) siano state realizzate dalla tanto vituperata Casa delle Idee. Ormai il cinecomic è tale solo se fatto come dice la Disney.
    E mi fa specie scrivere questo, perchè sto completando la recensione dell’ultimo Spiderman, che ho amato massimamente (forse quello che più ho amato finora nel MCU)… Ipocrisia? Schizofrenia? O forse solo la cara vecchia ermenautica?
    Vabbè, per fortuna ci sono i panel dell’arrowverse al Comic Con di San Diego…

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    • L’arte dello slapstick come del mimo è un’arte senza tempo, di contro la commedia no, perché in quanto derisione del consorzio umano in cui si ambienta porta con sé i limiti del suo tempo: perciò non perdere tempo con visioni che se non hai fatto allora non ha senso fare ora, ma se puoi e non lo hai già fatto, regalati soltanto la visione di Being There, anch’essa ovviamente datata ma talmente essenziale e primigenia da regalarti grandi emozioni, anche a te che sei un giovane adulto.

      Su Shazam non possiamo più parlare di Universo DC Condiviso, perché come hai intuito oramai non esiste più: era un bellissimo progetto creato da Nolan e portato avanti con coraggio da Snyder ma è assolutamente morto, ucciso da errori e rimedi peggiori degli errori…

      Adesso i film di genere supereroistico fumettistico tratti da personaggi DC saranno solo stand alone, magari articolati in trilogie o altro ma slegati l’uno dall’altro, sia nelle storie come nello stile ed avremo così film assolutamente infantili come Shazam (anche se con elementi quasi indie come il discorso sulle famiglie affidatarie ed una narrazione delle delusioni genitoriali tradizionali che è un vero gioiello) ed altri adulti e crepuscolari come l’imminente Joker e poi di nuovo il circo fracassone della trilogia di Birds of Prey o l’incognita di Suicide Squad 2 di James Gunn…

      Spider-Man Far From Home l’ho trovato diverte e godibilissimo ma anche troppo leggero per essere un must… Inoltre la sua storia ha un che di interlocutorio (coae annunciate che verranno approfondite altrove) e di derivativo (ogni cosa ha avuto inizoo da un’altra parte) e di non definitivo che lo relega a capitoletto intermedio… Tuttavia sono tutti così tanto in parte che è una gioia per gli occhi, protagonisti in primis.

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      • E Being There sia. Già dal post l’avevo individuato come il film più papabile per essere recuperato, non foss’altro per quella tua chiusura sulla nulla significante che è una vera delizia per il mio palato ermenauta, in quanto per certi versa rappresenta l’essenza della nostra filosofia!

        Riguardo il DCU ho seguito poco gli sviluppi e mi importa relativamente poco se le pellicole saranno stand-alone o collegato più o meno strettamente come accade per l’universo Marvel. Ciò che mi deprime è la rinuncia a cercare una via diversa da quella imbroccata dalla Marvel (la cui capacità di generare profitti non è per forza di cose e sempre direttamente proporzionale alla qualità). Ormai quello sembra diventare il canone e, vuoi per pigrizia, vuoi per seguire facili guadagni, vuoi per chissà che altro, ormai nessuno prova a fare qualcosa di diverso, salvo sporadiche luci qua e là, come il Logan di Mangold o il Deadpool di Reynolds.
        Lo stesso Spiderman in sala in questi giorni si inserisce a pieno titolo in questa scia di omologazione, non v’è alcun dubbio, e il tuo giudizio freddino sul film è assolutamente condivisibile. Tuttavia la natura del villain e la messa in scena (in senso proprio letterale) delle sue malefatte ha toccato corde profonde del mio intelletto, da un lato perché non mi aspettavo minimamente che un film su Spiderman potesse avere un villain così articolato e metaforico, dall’altro lato perché l’interpretazione di Gyllenhaal è strepitosa (secondo me anche migliore di quella offerta da Keaton nel precendente Spiderman Homecoming). Ma qui si parla di Blake Edwards e Peter Sellers, per l’Uomo Ragno ci sarà spazio per discutere nel mio post che sarà pubblicato nei prossimi minuti (temo sarai uno dei pochi che avrà il coraggio di leggerlo fino alla fine…)

        Dicevamo, Peter Sellers e Blake Edwards. Consultando il mio account IMDB ho tristemente rilevato che non ho mai visto (nemmeno per sbaglio) un film in cui abbia lavorato uno dei due. Se la loro rilevanza per il cinema comico fosse anche solo la metà di quello che hai detto, il recupero di alcune delle loro opere è essenziale. Mi metto subito in caccia di Oltre il Giardino: sarà dura, ma conto di spuntarla. E se proprio me la vedo brutta, c’è sempre il buon vecchio amazon 😀
        Buona giornata, fratello

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        • Partendo dal fondo, mi compiaccio moltissimo della tua ferrea volontà di ritrovare Being There, anche perché in realtà, malgrado la tua giovane età, non ti so impermeabile al cinema classico e qui parliamo di archetipi… Tanto per capirci siamo in zona de Il Paradiso Può Attendere

          Sul discorso cinecomics, invece, mi permetto di insistere e di pontificare anche un pochettino…

          Tu, che mi conosci e mi leggi da tempo, sai benissimo da quanto io abbia cominciato a “tuonare” sul mio blog e nei miei commenti contro l’appiattimento del gusto unico e contro quella modalità industrializzata di narrare storie di intrattenimento culturale che si basano pedissequamente seguendo manuali di lavoro imposti dalle dirigenze del marketing, fino all’instaurazione di una dittatura artistica generata dalla massimizzazione dei costi e dei risultati e che ha dato origine alla massima espressione del cinema OGM ovvero l’MCU della premiata ditta Marvel/Disney…

          Altresì, trattandosi di forme di sollazzo e di piacere, al pari di una mangiata presso un fast food multinazionale come McDonald’s o una colazione fatta con biscotti Oreo o frollini Mulino bianco, io stesso non ho mai rinunciato per principio a procurarmi piacere con le visioni di quei film, ma ho salutato con gioia la ritirata del gruppo DC Warner dalla competizione con la Disney nella creazione di un universo cinematografico condiviso, che avrebbe visto i supereroi della DC lottare invano per la conquista senza alcuna speranza del primo posto, finendo per diventare la patetica Pepsi che imita la Coca-Cola senza mai divenire il top seller…

          Quello che ti sto dicendo è che oggi non esiste più alcuna linea guida generale per i film tratti da fumetti DC , ma solo tantissimi film che verranno prodotti alcuni ad imitazione dello stile Marvel, altri completamente opposti ed altri ancora con modalità che nemmeno sospettiamo ossia un caos anarchico che potrà regalare schifezze incommensurabili, perle preziose o semplicemente film mediocri, come è giusto che sia, con quel gusto di sorpresa chee lo spettatore dovrebbe sempre avere di fronte ad una nuova opera cinematografica e non con quella non richiesta pacifica serenità di chi sa già come sarà il nuovo capitolo di quell’universo che oramai viene annunciato a furia di spoiler propagandistici simili a quelli che fa la Apple ogni volta che presenta un nuovo gadget ridondante.

          Un ermenàutico saluto!

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          • Il paragone Disney\DC con la Cocacola e la Pepsi è probabilmente il più calzante si possa fare per descrivere oggi i 2 colossi.
            Cerco di ampliare brevemente il discorso (ampliare brevemente è un ossimoro tipicamente ermenauta, sia chiaro).
            Probabilmente a causa del fatto che il DC Universe si inserisce dopo la trilogia di Nolan, io (ma credo anche molti altri) si aspettava qualcosa di diverso – più adulto, più riflessivo, più complesso anche a costo di minor brillantezza – dall’universo DC iniziato col Man Of Steel di Snyder. Ed effettivamente quel film (come anche il suo successore) cercava di fare proprio questo, con i suoi alti e bassi ovviamente, tuttavia sempre con grande intelligenza narrativa e visiva. Poi venne Suicide Squad, che sembrava tracciare ancora di più questa linea di rottura e demarcazione con il canone disneyano. Poi è arrivato Wonder Waman, cinecomic gradevole ma molto classico: un campanello d’allarme che ha suonato invano, perché tutti i successivi (da Justice League in poi) hanno assunto quel taglio disney francamente insopportabile. Ecco, la pepsi che prova a fare la cocacola. Original Taste un par de palle, perdona il francesismo.
            Non so se i prossimi film DC saranno diversi, certo è che 3 indizi fanno una prova (JL, Aquaman, Shazam). Sono curioso di vedere cosa combinerà il Joker di Phoenix e poi il Batman di Pattinson, anche se temo che ‘sta cosa di cambiare continuamente gli attori per lo stesso personaggio rischia di diventare un boomerang perché il pubblico ha bisogno di riconoscere volti familiari e se Jared Leto ha prestato la sua faccia schizzata solo per poche scene di Suicide Squad, Ben Affleck è stato Batman per ben 2 film in cui era di fatto protagonista. Staremo a vedere.
            Per intanto voglio condividere un pensiero che mi opprime da qualche ora, ossia da quando ho terminato la visione di Alita Angelo della Battaglia: CHE FINALE DI MERDA. Qui dalle mie parti c’è un proverbio abbastanza scurrile e che quindi evito di scrivere, il quale per capirci fa riferimento al coitus interruptus. Ecco, la mia sensazione è più o meno quella.

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            • Povera Alita! Il finale appositamente lasciato aperto non poteva essere fatto diversamente, amico mio, sia per la particolarità del manga così strutturato, sia per il fatto che questo film è stato costruito con tutte le intenzioni narrative di essere il primo della saga (come accadde per il film La Bussola d’oro, primo di una trilogia successivamente abortita) e come tale ha un finale simile a quello di John wick 3…

              Purtroppo, malgrado le migliori intenzioni di James Cameron, sembra che i capitoli successivi di Alita siano fortemente a rischio, dato che sembra gli incassi del primo abbiano semplicemente coperto i costi senza veri guadagni…

              Prima di tornare al lavoro e successivamente a leggere il post di un’ermenàuta che ha appena pubblicato, ti lascio con un piccolo pensiero di riflessione sulle percezioni che il pubblico ha delle opere filmiche tratte da altri media: il fumetto negli USA è un’espressione di Arte popolare manifesta, in cui un terzo circa è scritto per un pubblico infantile, un altro terzo per quello adolescenziale ed infine un terzo per un pubblico adulto; i personaggi sono ben divisi per fascia di età e spesso abbiamo addirittura versioni infantili di personaggi concepiti inizialmente per adolescenti (Batman su tutti) e viceversa (Aquaman); le traduzioni cinematografiche, invece, per necessità di coprire gli alti budget di spesa, sono massificate su un pubblico unico, il più vasto possibile, rendendo inevitabilmente più adulta ogni caratterizzazione creata inizialmente per bambino e banalizzando parimenti ogni narrazione in partenza molto adulta; per la televisione cambia tutto, giacché l’esistenza dei network specializzati per fasce d’età e tematiche permette una maggiore fedeltà.

              Bye

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              • Permettimi di imprecare, perché chiudere un film con un finale non aperto, ma semplicemente non scritto, per lanciare il sequel è un’azione di tale orripilanza che, se esistesse il patentino da regista\sceneggiatore\produttore dovrebbero strapparlo seduta stante.
                Al di là del torto intellettuale che viene fatto allo spettatore, c’è poi la quaestio puramente commerciale che il sequel non può essere assicurato ex ante, poiché sono sempre i guadagni del primo a determinare la prossima di un secondo film. Il fatto che in questo caso Alita 2 difficilmente vedrà la luce, è solo una triste e prevedibilissima conseguenza, nel caso specifico amplificata dal fatto che ho potuto sperare per qualche istante di vedere Edward Norton nei panni di un supercattivo e non l’ho potuto vedere, né in questo né nel prossimo film.
                Sono incazzato, se ancora non si è capito. È un sentimento molto poco ermenauta che però non posso sopprimere così su due piedi.

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  2. Non sapevo del legame tra Caccia al ladro ed il primo film panteroso, e la cosa non può che farmi piacere, visto quanto ho amato il Gatto.
    Oltre il giardino ce l’ho in watchlist. Il tuo post mi offre elementi in più per capirlo.
    Informazioni interessanti a parte, è un piacere anche solo seguire il dipanarsi di quello che, volendolo, potresti benissimo trasformare in un romanzo senza conclusione, un Thousand degrees and further.

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  3. A mio giudizio Alan Arkin non ha ingranato come rimpiazzo di Peter Sellers non solo perché il personaggio dell’ispettore Clouseau era indissolubilmente legato all’attore precedente, ma anche perché Arkin ha sempre funzionato meglio come caratterista che come primattore. Tra l’altro il cinema si è accorto con colpevole ritardo di questo suo talento: infatti dopo un inizio di carriera folgorante, che gli aveva fruttato perfino 2 nomination all’Oscar, quest’attore era caduto totalmente nel dimenticatoio, e ci volle un piccolo film indipendente (l’indimenticabile Little Miss Sunshine) perché Hollywood lo riscoprisse alla veneranda età di 73 anni. Da quel momento in poi, praticamente tutti i registi che avevano bisogno di un caratterista che lasciasse il segno chiamavano lui. E infatti c’è stato un periodo in cui era diventato come il prezzemolo, non potevi andare al cinema senza vedertelo spuntare davanti. E il bello è che questa sua tardiva sovraesposizione non era affatto fastidiosa, anzi era piacevole, perché la simpatia di quest’attore è una cosa davvero travolgente. L’ha dimostrata in particolare ne Il grande match: il film è debolissimo, ma il suo personaggio è il classico amico mattacchione che tutti noi vorremmo avere, e resta nel cuore molto più del protagonista a cui fa da spalla (interpretato da uno Stallone al minimo della forma, e lo dico da suo grandissimo fan).
    Adesso gli anni di Alan Arkin sono diventati 85, quindi probabilmente potremo godercelo per pochi anni ancora. Nel frattempo, spero che continui ad illuminare con la sua presenza tanti altri film.

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    • Come hai giustamente detto tu, il motivo principale del mancato successo non solo di Arkin ma di chiunque avesse mai voluto sostituire Sellers era basato su quella fusione di identità tra character ed attore di cui ho parlato anch’io (nemmeno Benigni ha avuto successo e meno che mai Steve Martin), ma ciò che rende il tuo commento un grande commento è il tuo abituale chiosare sulle caratteristiche di grandi attori, del presente come del passato ed ancora una volta devo applaudire!

      Infatti non solo concordo sullo status di attore decisamente di supporto e non da protagonista di Arkin, ma anche sulla straordinaria simpatia da vecchio brontolone che lo ha reso negli ultimi tempi richiestissimo!

      Personalmente l’ho adorato non solo in film in cui era comunque in primo piano (come nel remake di Going in Style assieme ad altri due grandi vecchi del cinema come Caine e Freeman), ma anche e soprattutto in quelle piccole parti piene di sapore di recitazione old style, come nella parte dello scommettitore rivale di Patrizio Solitano in Silver Linings Playbook – Il lato positivo

      Grazie ancora, amico!

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      • Onestamente non ricordavo che fosse apparso anche ne Il lato positivo. Tra l’altro sono molto legato a quel film, perché la recensione che ne feci (https://wwayne.wordpress.com/2013/03/25/il-lato-positivo/) fu il primo post da me pubblicato a ricevere un numero decente di visualizzazioni, likes e commenti. E infatti i numeri lo provano in modo molto chiaro: il post precedente ad esso raccolse 3 likes e 5 commenti, quello su Il lato positivo 34 likes e 84 commenti.
        Fino ad allora ero rimasto nel più totale anonimato per 5 lunghi anni, durante i quali raccoglievo solo una decina di visualizzazioni al mese (probabilmente tutte dovute a delle ricerche bislacche su Google): da quel momento in poi cambiò tutto, e lo devo interamente a quel film. Dopo aver saputo che lui vi ha preso parte, sono ancora più affezionato ad Alan Arkin! 🙂 Buona notte amico mio! 🙂

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        • Per un soffio “Il Senso Positivo” non è stato il primo film in cui ci siamo scambiati commenti, ma fu uno dei primi che tu mi suggeristi di guardare!
          Il primato di primo film da noi condiviso assieme penso infatti che sia Noi Siamo Infinito… Si, quello è il nostro “Interstellar”!
          Buona notte anche a te!

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  4. Purtroppo de La Pantera Rosa conosco solo il primissimo film e non tutta la saga ma devo dire di aver apprezzato parecchio il discorso che hai fatto sulle capacità di Peter Sellers come attore e la bravura registica di Blake Edwards. Mi sono informato e ho visto quanti seguiti abbia avuto La Pantera Rosa e della sua enorme fortuna quindi immagino sia normale se il nome di Sellers sia stato associato a quello dell’ispettore Clouseau. Stupendo anche di come tu abbia parlato del collegamento tra Caccia al ladro e il primo film sulla Pantera. Complimenti veramente!

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  5. Arrivo tardi, ma arrivo…

    Mi vengono i brividi al solo pensare ai cast delle pellicole da te citate. Film come La pantera rosa e poi i successivi con protagonista Clouseau, poterono vantare Attori Veri nel loro cast.
    Non solo, quelle pellicole si avvalsero di tutto quell’insieme di “lavoro che c’è dietro” di qualità. Le immagini, quindi la fotografia, le riprese, tutto, erano di fatto eseguite con la stessa abilita della maestranza usata dal Maestro Hitchcock, da un regista abile, attento, acuto.
    Di questi deliziosi film mi viene anche da dire che non mancava la trama, che non era episodica. Ogni episodio era funzionale al raggiungimento della scena conclusiva. Certo, si prendevano in giro i gialli d’autore, ma con leggerezza e sapienza.
    Sono di parte, lo ammetto, ma i sequel senza Sellers non si dovevano proprio girare.
    Ho il sospetto – ma tu e solo tu puoi confermare o smentire – che Levinson e Link, abbiano preso più di un modo di agire da quell’impermeabile sdrucito che era Clouseau.
    Mensione d’onore per Kato, non so come sia venuta in mente l’idea di un personaggio come Kato, ma è fantastico e anticipa il Calabrone verde. Il servitore orientale mi riporta alla memoria Bruce Lee nei panni proprio del braccio destro del Calabrone. Ma poi l’idea cioè quel dare a un esperto di arti marziali l’ordine definitivo, ovvero di tentare un agguato al prorio padrione, inserendo come clausola proprio l’impossibilità di avere tregua… lì c’è del genio.
    Questo è cinema.

    E stavolta non ho perso il post! 🙂

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    • E no, caro Gianni, non lo hai davvero perso il post… Anzi sei piombato su di esso con un commento corposo, ricco di spunti sul cinema classico statunitense anni ’60 e tra l’altro ti so da sempre (come tutte le persone dotate di buon gusto) estimatore del grande Hitchcock, genio della settima arte di cui io continuo a stupirmi ogni volta che rivedo un suo film e che ha insegnato così tanto al cinema contemporaneo, che davvero non è mai abbastanza rendergli merito…

      Sul discorso della maschera di scena di Clouseau (tra l’altro che splendido gioco di parole sul giallo classico, con quella francesizzazione del termine inglese che indica “traccia”, per l’appunto Clue) ovvero l’impermeabile, considerando la cultura cinematografica di Edwards dei classici a lui così vicini, c’è tutto il sapore dei detective europei, quelli dei noir di Melville, con Belmondo e Alain Delon, con quell’eleganza sobria che fu ovviamente anche dell’ispettore britannico che nell’hitchcockiano Frenzy investiga sull’assassino della cravatta… Penso invece che l’impermeabile sdrucito e consunto di Colombo, con quel suo essere per l’appunto trasandato, così poco Park Avenue o Beverly Hills, ci sia un rimando diverso, più Pulp e più Bukowski…

      Ma qui si entra in discorsi più ampi che mi piacerebbe fare con te, magari intervistandoti, tipo “Fenomenologia del Detective, dall’eleganza di Poirot all’essere trasandato dei moderni detective americani“…

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        • In tema, quindi! Però pensaci a come spesso l’abbigliamento (quello che oggi in modo più fighetto, ma anche più esauriente negli aspetti di marketing nella costruzione del character, viene definito outfit) del detective (sia esso un poliziotto, un investigatore privato, un non-professionista, un adolescente che insieme ad un gruppo di amici deve salvare il mondo, un medico, un archeologo, etc.) nei film europei e nordamericano degli anni ’50, ’60 e ’70 era un completo giacca e cravatta classico, molto elegante, ben portato, che connotava l’appartenenza ad una classe sociale che poteva dialogare con l’alta società (omicidi per reati finanziari, scandali, gelosie, eredità) come nei bassifondi di(grassazioni, rapine, stupri e per lo più bassa manovalanza del crimine)… Poi tutto questo cambia negli anni ’70 e la mancanza di ricercatezza diventa stile e quindi la finta sciatteria diviene al contrario manichea e poi i bulimici anni ’80 in cui si narra che tutto il crimine ruota intorno alla droga… Poi oggi, con i cappotti ed i pellicciotti dei finnici, qualche piercing, un tatuaggio e molto squallore e laddove un narratore insiste sulleleganza, beh, allora divine citazionista, ironico, post-moderno, in una parola “vuoto”…

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          • Quella su come appare l’investigatore di turno, è una vera e propria materia di studio, perché l’impatto estetico del personaggio sul pubblico, lo fa piacere quale che sia il ruolo, il modo di recitare, il personaggio stesso.
            CSI in questo è grande maestro. Personaggi incredibili in contesti incredibili, eppure piaceva.

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              • Ritengo CSI, le ultime e ancora più patinate serie, un qualcosa di impossibile… I loro abiti e le acconciature perfette, erano ancora più inverosimili dei loro casi.
                C’è stata una minima inversione di tendenza (The Closer e lo spinoff Major crime) ma di base … anche in casa nostra, per quanto in modo appena un po’ diverso…
                Non di meno i francesi (che per me hanno toccato il fondo con Cherif), che stanno sempre più scimmiottando gli USA.
                Vabbè divago

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                • No, in realtà non divaghi… CSI era in una parola “patinato”… Tutti belli, tutti tenebrosi, tutti stra-cool, tacchi a spillo ed acconciature da parrucchiere 5 stelle sulle scene del crimine anche quelle fangose, parenti mirabolanti (boss della mafia, etc.)… Ovvero outfit che si adattavano ad un background costruito dagli autori perché fosse fantastico, sempre al limite, su cui scorrevano trame intelligenti ma irreali come orologi dal meccanismo interno perfetto e ridondante, su tutto il terrore panico dello squallore, del colore spento, del sotto-tono…

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                • The Closer e Major Crimes io li ho trovati molto meno arroganti dei vari CSI, ma ora che vi leggo e che ci penso la sensazione che mi han lasciato, trascorso del tempo, è quella del voler rappresentare due esempi di donne cool mentre si scherniscono – “Non sono così cool dai, anzi, guardami, sono tormentata o strambissima e sembro più una casalinga / madre impreparata che una detective”.
                  Non so. Una semplice impressione.

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                  • È esattamente così: ennesimo frutto di quei laboratori di genetica narrativa delle moderne writer’s room (si cui ho tanto tuonato nel mio blog da mesi) che creano nuovi cliché fingendo di staccarsi dai vecchi… Hanno preso un pattern e l’hanno ruotato di qualche grado e creato un texture fintamente nuova… Stessi ingredienti con saporanti diversi…

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                    • Ci piace proprio, questa sbobba, o ci siamo semplicemente assuefatti?
                      O magari, che so, la guardiamo più consapevoli di quanto si vorrebbe che fossimo, in media?

                      E dov’è che gli schemi vengono rotti davvero?

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                    • In po’ di tutto, cara Celia, in un po’ di tutto…

                      Per restare nell’ambito delle serie TV (più facili da usare come esempi), quelle di maggiore successo sono anche le più ricche di cliché (vedi l’orrenda NCSI, infinitamente più brutta e squallida di qualsiasi CSI, con in più l’aggravante di un ipocrita e tronfia retorica finto patriottica e finto militarista che toglie il fiato), il grosso del pubblico, specie quello nordamericano, non richiede al medium televisivo un arricchimento culturale o una forma di intrattenimento che lo faccia comunque riflettere, ma qualcosa che lo rilassi e che non lo faccia senature stupido, anche se in realtà lo sta trattando da tale… Sono spettacoli che vanno a solleticare i nostri bassi istinti e pertanto sono gratificanti in modo animalesco, ma non c’è infamia nel guardarli, così come non c’è merito nell’essere nemmeno orgogliosi della propria ignoranza: sono semplicemente pop-corn e cibi spazzatura, di cui usufruire ma di cui non abusare.

                      La rottura degli schemi… Quando si realizza un prodotto di intrattenimento culturale ad alto budget o a severa richiesta di audience non è cosa semplice e quando miracolosamente avviene, quella rottura deve essere quell dentro una finta accondiscendenza a quei bassistinti di cui parlavo prima: esempi ce ne sono a bizzeffe in questo senso, come la serie Dark (l’eccellenza assoluta sui viaggi nel tempo) o Hannibal (in cui la retorica del rapporto killer/profiler viene soverchiata da una lirica visionaria di ammirazione estatica per il body-horror) o Jessica Jones sui supereroi, fino ai veri capolavori come OA (mosse angeliche e piani astrali senza mostrare mai né angeli né vere stranezze), Legion (il supereroe come scusa per destrutturare la narrazione televisiva in una implosioni di stimoli visivi, artistici e concettuali), Twin Peaks terza stagione (forse il picco più alto della serialità televisiva fine a se stesso)… Tutti prodotti non a caso con bassissimo audience ma uno zoccolo duro di spettatori fedelissimo.

                      Ne parleremo meglio altrove, Cely.

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                    • Ma certo.
                      Del resto è raro che disprezzi qualcosa in modo integrale ed in senso assoluto – e qualcosa come le serie tv, anche le peggiori, meno che mai: NCIS per esempio è un esempio perfetto di retorica a cui tuttavia sono molto affezionata, perché è sempre stato una visione collettiva in famiglia.
                      Le serie tv meglio di altre forme travalicano quasi immediatamente la pura fruizione e diventano un’escrescenza del quotidiano con valenze proprie e ulteriori.

                      Perdonami, OA sta per…?

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                    • Non amo molto gli acronimi, specie quello modaioli, perciò OA sta proprio per OA o se vogliamo essere più precisi The OA, la fiction creata dall’attrice e performer Brit Marling ed il cineasta di origini iraniane Zal Batmanglij… Ultra consigliata ad una persona della tua cultura (agli antipodi di NCSI sia chiaro, non come gradimento, sempre personalissimo e rispettabilissimo, ma come concept).

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  6. Purtroppo, vuoi per questioni anagrafiche o per pura e semplice ignoranza (nel senso più bonario e positivo del termine), non ho mai approfondito troppo la saga della Pantera Rosa. Pensa che uno dei miei ricordi, comunque lontano, legato alla saga riguarda proprio il primo dei due remake degli anni 2000, decisamente più banali e lontani da questo doppio post, che mi sono appena gustato di fila, come si gode (o ci si rammarica) di una serie netflix con l’intera stagione caricata e vista in una giornata o poco più. Dicevo, la pantera rosa. Leggendo il tuo post, un flash, un’immagine sbiadita mi ha riportato alla mente il volto di Sellers e i suoi baffetti. E poi, la scena, la sequenza iconica del secondo film della saga originale: un giorno lontano, una sera lontana, per l’esattezza, probabilmente un sabato della mia prima infanzia, quando con la mia famiglia ci ritrovavamo a casa di mia zia per l’appuntamento settimanale con la nostra pizzeria di fiducia e con qualche bel film, in cui la pellicola prescelta fu proprio quel capitolo della serie cinematografica comica da te sviscerata. Quindi grazie, Kasa, per il viaggio a ritroso nella memoria e nelle sensazioni passate che mi hai permesso di fare, oltre ad avermi catturato con la tua arte oratoria e con i tuoi contenuti che vanno sempre oltre la semplice narrazione. Più volte mi sono ritrovato a farti i complimenti riguardo la tua capacità di collegare tematiche e aspetti di opere, anche apparentemente distanti, con maestria ed efficacia. Questi due post sono il perfetto sunto della tua capacità di partire da un nulla (in)significante, una canzone di Ariana Grande, per arrivare, dopo un lungo e strabiliante percorso ben strutturato, ad una conclusione che ha raccontato i tuoi pensieri e le tue emozioni, oltre ad aver dato prova, ancora una volta, della tua enorme enciclopedia in materia e della tua passione. E il fatto che questa conclusione, l’ultimo tassello di questo puzzle diviso in sei parti sia stato un nulla significante, che in questo caso è attore e personaggio, croce e delizia, benedizione e condanna di Sellers, è una mossa davanti alla quale non posso fare altro che tirar giù il cappello. Complimenti ancora!

    Ah, ovviamente, anche nella prima parte sei riuscito a riportarmi indietro, con diverse pellicole che grazie alla mia famiglia ho potuto recuperare, su tutti mary poppins, cui sono estremamente legato.

    Grandissimo come sempre Kasa, non ci si stanca mai di leggerti!

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    • Mamma mia, Davide! Rileggere i vostri nomi, tuo e di Pizza Dog, in mezzo ai commenti, come dicevo poco fa a lui, quello sì che per me è stato un piacevolissimo tuffo nel passato, ricordando le tantissime chiacchierate fatte assieme, su cinema, arte e cultura in genere… Sarà che io ti ho sempre considerato un giornalista in progress, con uno stile molto nordamericano ed anglosassone nella linearità delle tue argomentazioni (come poi venne testimoniato dagli articoli che hai effettivamente pubblicato e di cui parlammo, ricordi?), ma leggere le tue parole oggi mi ha come azzerato la distanza temporale dalle ultime volte!

      Grazie di leggermi ancora ed auguri per tutto!

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