Kasa Shots – La Dolce Vita: La scena del crimine

La-dolce-vitaOggetto di un contenzioso pazzesco tra il regista e Dino De Laurentis, suo produttore iniziale , il film “La dolce vita” rischiò seriamente di non vedere mai la luce, data soprattutto la monumentalità e lo sfarzo (specie per l’epoca) della messa in scena, orchestrata dal geniale regista romagnolo, a fare da contrappunto ad un soggetto che sulla carta teoricamente non avrebbe giustificato tali spese: si pensi solo al set di Via Vittorio Veneto, per il quale sarebbe bastato riprendere le comparse in strada (anche nel rispetto dei dettami del realismo cinematografico allora in voga), ma che il nostro regista s’intestardì per volerlo ricostruire interamente in studio, proprio per ampliare quel senso di finzione e di manipolazione del reale che gli è sempre stato a cuore.

Via-Veneto-in-studio

Un sassolino illogico, un’apparente bizzarria senza senso, che sembrava essersi messo in mezzo agli ingranaggi produttivi del film e questo sassolino era proprio l’essenza dell’arte del maestro Federico Fellini, che sin dall’inizio aveva cercato di vedere aldilà del soggetto preparato dal trio di scrittori, capitanati dal romanziere Ennio Flaiano e che assieme al regista prepararono poi la sceneggiatura finale.

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Fellini aveva sognato un film nel quale si sarebbe potuto permettere, con alle spalle un apparato narrativo tesissimo, di volteggiare altissimo, elevando le sembianze a significato puro, con una forma cinematografica che divenisse essa stessa contenuto, travalicando quindi  la didascalicità degli enunciati, pur molto presenti.

Marcello Rubini 01

Alla fine, questa straordinaria opera d’arte fu finanziata (anche se con grande sforzo) da Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato ed oltre tutto, contro le più ottimistiche previsioni iniziali, fu anche un enorme successo commerciale, ripagando i due nuovi produttori di tutte le spese, già con primissimi giorni di uscita; la sua fama immortale fu, però, raggiunta in tutto il mondo, non già con la meritatissima Palma d’Oro al Festival di Cannes, ma solo grazie a quel vero e proprio innamoramento che vide coinvolti sia il pubblico che la critica statunitensi, i quali elevarono questa pellicola a capolavoro assoluto, senza mezzi termini.

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Aldilà delle giuste considerazioni sulla perfezione tecnica delle riprese, l’attenzione dei critici nordamericani fu tutta inevitabilmente interessata (al solito in unico coro monolitico) quasi solo agli aspetti etici e filosofici del messaggio contenuto nel film, vedendolo quindi come un’unica immensa satira di costume; stesso motivo per cui, al contrario, si  alimentarono in Italia delle patetiche polemiche partigiane, in difesa di una presunta dignità nazionale o della religione di stato e che videro scendere in campo anche grossi nomi della politica e della cultura.

Tutto questo, però, non deve stupire, perché la sintassi filmica che venne mostrata sugli schermi nel 1960 in questo film era così evoluta e libera da non poter essere colta facilmente  in tutta la sua potenza.

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Quasi prendendo le distanze dalla parte verbale e contenutistica del suo stesso film, Fellini conduce di fatto lo spettatore, con la sua messa in scena, in una dimensione fatta di alterità delle immagini, già dalla sequenza d’apertura, con il protagonista Marcello Rubini, il giornalista aspirante scrittore, che vola letteralmente sopra quella Roma prima popolare (di caseggiati popolari) e poi circense, come addetto stampa al seguito del statua del Cristo, trasportata da un elicottero, per poi abbandonare quel simulacro (l’elemento metaforico, appunto, voluto dagli scrittori) al suo viaggio, facendo invece sostare il velivolo nello spazio di cielo sopra un lussuoso attico, sul cui lastrico solare un gruppo di signore borghesi prendeva il sole, creando un gioco futile ed effimero di saluti e malizie tra l’istrionico giornalista sull’elicottero e quelle comparse di dolce vita romana.

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Ecco servito subito il vero dualismo del film, quell’altalena continua tra le istanze etiche dello script (che il cinema post-neorealista del periodo propugnava in tutte le sue commedie ed i suoi drammi, attraverso artisti politici come Pasolini o le sceneggiature di scrittori formidabili, come Cesare Zavattini e lo stesso Flaiano già citato) ed il desiderio centrifugo dello stesso Fellini di abbandonare la letterarietà tradizionale, per parlare con il linguaggio dei sogni e del disegno, come le curve ed i saliscendi con cui tutto questo film è costruito.

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Lasciamo che incanti i nostri sguardi e che rubi tutta la nostra attenzione questa cinepresa che segue Marcello mentre scende nelle discoteche, nei parcheggi sotterranei degli ospedali, nelle cripte, per poi vederlo risalire sulla cupola di San Pietro, sul piano sopraelevato del coro dentro la basilica ed infine in cima al grattacielo dove vivono i suoi conoscenti più ricchi (quasi in un Elysium distaccato): allontanando il nostro sguardo ancora di più, possiamo scorgere Fellini tratteggiare con una matita sottile il percorso del cinico e disincantato cantore delle notti romane, come il volteggiare armonioso di un uccello che si libra in aria.

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Come nell’inquietante romanzo dello scrittore statunitense William Gass “In the Heart of the Heart of the Country” (“Nel cuore del cuore del paese” nelle edizioni Einaudi), al centro della storia (nel suo cuore) spesso c’è dell’altro che non un semplice concentrato di significato di quanto narrato fino a quel momento: una svolta, un momento di crisi e di ripensamento o una scoperta sensazionale, che invece di stabilizzare, rischia di far perdere l’equilibrio a tutta la struttura, come un perno sganciato: un nucleo incandescente (di nuovo, quindi, un cuore pulsante) che può far crollare sotto la crosta terrestre oceani, foreste e montagne lussureggianti, tutti assorbiti in un magma primordiale.

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E’ con questo ruolo di essenziale centralità, anche estetica, che Fellini disegna il personaggio chiave del suo grande affresco, ovvero l’amico musicista ed intellettuale Enrico Steiner, interpretato dall’attore francese Alain Cuny: nel complesso script, questo character è una rappresentazione pesantemente simbolica di quell’Italia del dopo guerra che stava cambiando, divisa tra le istanze di una cultura rivoluzionaria di lotta ed una tradizione conservatrice religiosa ed al contempo politicamente potente.

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E’ terribilmente romanzesca l’invidia che Rubini prova inizialmente per l’apparentemente perfetto stile di vita di Steiner, questo ricco e colto mecenate di un affascinante gruppo di artisti ed intellettuali, con una bellissima moglie e dei perfetti figli amorevoli, uno status familiare esibito quasi come un trofeo, anzi, ancora di più, come un passaporto per un mondo perfetto che in realtà non esiste, così come altrettanto letteraria è la denuncia di questa mera apparenza, della falsità di cui lo stesso gaudente amante della vita mondana si accorgerà nel modo peggiore, quando, non solo apprenderà al telefono della tragedia occorsa alla famiglia del musicista suo amico, ma dovrà anche recarsi direttamente sulla scena del crimine ed entrare in contatto visivo con l’orrore, con il fallimento del suo sogno e quindi con una delusione egoistica che scavalcherà l’umano dolore.

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Ancora una volta mi ritrovo ad avvicinarmi, quasi con timore reverenziale, ad uno di quei momenti talmente densi di valenze storiche ed estetiche da lasciare attoniti: non soltanto “La dolce vita”, infatti, rappresenta, all’interno della storia del cinema italiano ed europeo, una delle vette tecnicamente più elevate e mai dimenticate dai registi di tutto il mondo, ma è anche il momento di svolta tra il neorealismo dei primi film di Federico Fellini e le stravaganze oniriche e metaforiche delle sue pellicole successive; infine, all’interno della trama di questo film, la specifica scena di cui parliamo è sia il momento più moralmente catechizzante, sia anche il più esteticamente elaborato, con la descrizione del crollo di quel pavimento di false certezze (che il protagonista stava prendendo come modello per giudicare se stesso inadatto) ed assieme l’esplosione di quella poetica di composizione del quadro filmico, che resterà impressa nelle future generazioni di cineasti, come un marchio a fuoco stampato su una sella di cuoio o sul culo di una vacca texana.

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E’ evidente che l’omicidio dei figli perpetrato da Steiner ed il suo successivo suicidio sono entrambi una lugubre condanna morale di quella falsità che gli autori del film vedevano nell’atteggiamento di una certa parte di classe dirigente del nostro paese, ma ciò che rende il film un capolavoro e questa specifica sequenza un momento quasi miracoloso di arte mirabile ancora oggi, non è il suo significato testuale e narrativo, ma la straordinarietà estetica con cui la scena è stata apparecchiata e fotografata dal nostro cineasta, una scena del crimine spaventosamente luminosa, un’indifferenza priva di sciacallaggine, ma brutalmente scarna e disumana, che anticipa le funamboliche e quasi miracolistiche agnizioni di tutti i tecnici forensi delle fiction nordamericane e dei loro epigoni europei.

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Se, alla fin dei conti, l’intellettuale accolita di sceneggiatori del film vuole suggerire che Marcello, malgrado la sua eccentricità e la sua condotta morale borderline, è più sincero e genuino di quel gruppo di artisti e ricchi benpensanti (alla cui ricca corte si ferma a mangiare, bere e divertirsi), altresì Federico Fellini vuole stabilire il primato della stessa arte sulla vita quotidiana e dello stile di vita bohémien del suo personaggio, che è poi la rappresentazione ideale dello stesso regista, come verrà reso più evidente nei capolavori successivi, da “8 e ½” fino alla “Città delle Donne”.

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Ad oggi è passato più di mezzo secolo, ma quando si osserva l’arrivo trafelato di Marcello Mastroianni (nel ruolo di Rubini) nel caseggiato dove è avvenuto il delitto, l’affollarsi dei giornalisti e dei paparazzi e quella salita per le lunghe scale di marmo, quasi un ascendere ad un olimpo violato, è impossibile non farsi prendere dal senso di tragedia imminente, lo stesso che noi, spettatori moderni, tante volte abbiamo visto nelle pellicole con soggetto dei serial killer o dei disincantati ispettori della squadra omicidi; quando però il nostro sguardo entra insieme al regista sul grande set dove riposa il cadavere di Steiner, con un buco alla tempia, sentiamo un brivido diverso e non è più semplice commozione umana, ma il piacere di vedere le armonie dei personaggi che si muovo nella cafoneria della quotidianità senza facili sottolineature ed i guizzi lirici delle tende che si sollevano per mostrare appena un accenno dei cadaveri dei bambini nei loro letti, il tutto sotto la luce quasi abbagliante (ma non sovraesposta come nell’onirico “8 e ½”) che annulla gli spazi di interno ed esterno, rendendo tutto teatrale, come il palcoscenico di quelle strade polverose ed assolate del’EUR, dove i giornalisti impietosi aspettano l’arrivo della moglie e madre ignara dell’accaduto.

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La clip seguente contiene, infatti, non una ma ben due sequenze consecutive: la prima, quella in oggetto a questo Kasa Shots, tutta dedicata alla ricostruzione della scena del crimine e la seconda, attigua e senza soluzione di continuità, con la conclusione della tragedia umana e lo spettacolo desolante dell’arrivo della signora Steiner, attesa da un nugolo di paparazzi.

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Malgrado il minutaggio complessivo superi i 7 minuti, mi auguro con tutto il cuore che abbiate la pazienza di vedervele entrambe, perché l’arricchimento finale che ne consegue è davvero notevolissimo.
Grazie a tutti voi per avermi fin qui seguito e buona visione:


In questo post abbiamo parlato dei seguenti film e fiction:

La dolce vita”, ITA, 1960
Scritto da Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi
Regia di Federico Fellini, con Marcello Mastroianni, Anouk Aimée e Alain Cuny


35 pensieri su “Kasa Shots – La Dolce Vita: La scena del crimine

  1. Questo tuo post mi perplime.
    Innanzitutto perchè sono in ufficio ed il blocco ai contenuti social mi impedisce di visualizzare il video di youtube (ma forse è meglio, c’ho un sacco da lavorare 😦 )
    Ma soprattutto perchè devo fare pubblica ammenda ed espormi al ludibrio collettivo ammettendo che non ho mai visto La dolce vita. Ad aggravare la mia esecrabile condizione, si aggiunge il fatto che io non ho mai visto neppure un film di Federico Fellini. Se poi penso che ho visto film di registi ignobili come il figlio di Costanzo e neppure uno del Maestro Riminese, allora la vergogna è tale da indurmi a meditare un folle quanto insano gesto.
    Meglio che torni al mio lavoro, mentre voi vi burlerete di me e della mia ignoranza 😦

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    • Mi hai scioccato, fratello, ma non perché non hai visto questo o altri film di Fellini, ma perché hai iniziato il post con un inquietante “mi perplime“… infatti ero già pronto a leggermi qualche tua osservazione, come sempre arguta, in cui evidenziavi scetticisimo sul mio considerare quella specifica scena del crimine una sorta di archetipo, sbugiardandomi con altri esempi… invece te ne sei uscito con un climax di affermazioni beffarde in cui ti mettevi alla gogna da solo, inserendo mani e testa nei ceppi, pronto a farti decapitare dal boia… sia mai! Come nel Marchese del Grillo di Monicelli, sarei saltato su al posto del papa per bloccare l’esecuzione ed avrei lottato in tua difesa, mostrando le prove del complotto ordito ai tuoi danni!!

      P.S. Tra l’altro, sappi che io adoro il verbo perplimere

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      • Ignoravo completamente che questo verbo fosse stato praticamente inventato ex-novo da Corrado Guzzanti.
        E ti dirò di più: l’antipatia viscerale che provo per tutta la Guzzanti Family (dal padre voltagabbana, alla figlia che si finge comica ma è solo una becera sciacalla, allo stesso Corrado che pur non avendo erededitato la consanguinea malignità ha sempre espresso una comicità lontanissima dai miei gusti personali tant’è che sto di proposito evitando su sky il suo nuovo show “Dov’è Mario”, ebbene alla luce di tutto ciò le probabilità che bandisca questo vocabolo dal mio lessico sia scritto che orale sono altissime non già per la bellezza del termine che invero permane, bensì perchè il solo pronunciarlo o scriverlo mi farebbe immediatamente sovvenire la dinastia Guzzanti con tutto quel codazzo di spiacevoli emozioni con cui inevitabilmente contamina il mio animo.
        E questo mi perplimerebbe troppo.

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        • Mi sto lentamente riappropriando di WordPress dopo l’avvenuto trasloco imponente….

          in realtà vivo in mezzo agli scatoloni (questa mattina non trovavo i calzini da nessuna parte e mia moglie, appena sveglia, sbatteva dappertutto per cercare di farsi strada verso il bagno, ma tant’è…) e ci metterò delle settimane (mesi, forse) a rimettere tutto al suo posto (ma forse lo scopo del caos è proprio quello di triturare il reale e di sbatterlo fuori dall’altra parte del gorgo rimescolato e con nuova linfa… chisssà… buchi neri come portali non di materia ma di informazione tra due universi… argomenti ermenàutici…).

          Rispondo solo ora, quindi a distanza di cinque giorni, dal tuo dissertare sul verbo perplimere, per dirti di non cedere se possibile alla tentazione di bandire dal tuo lessico ciò che ti è stato grato fino alla scoperta della sua genesi, perché la lingua vive di esistenza quantica e tutto si trasforma con l’uso e l’osservazione…

          E’ tipico del demonio creare splendide affabulazioni e nostro compito (e godimento) di essere mortali, sapersi appropriare di tali bellezze (il verbo è comunque uno scherzo linguistico geniale) senza firmare alcun contratto luciferino con chi consideriamo antipatico e moralmente vile: insomma, usiamo il perplimere di Guzzanti senza pagargli copyright etici, così come usiamo la locuzione “a prescindere” creata da Totò (il principe infatti ne inventò la locuzione in senso assoluto, partendo dal già esistente verbo “prescindere” inteso solo come il non tenere conto di qualcosa).

          Un abbraccio.

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  2. Fantastico post Kasa, come sempre! Ti fa iniziare bene la giornata. Questo pezzo mi fa tornare in mente il ragionamento che facemmo tempo fa sulla relazione (stretta) che c’è tra il cinema e la sua “matricina” la fotografia.

    Dolce Vita fotografato 01Il capolavoro di Fellini, lo hai sottolineato più volte, è intriso di fotografia … e che fotografia!! Solo per dirne una la rappresentazione del quartiere EUR con edifici “cattedrali nel deserto” a sottolineare il contrappunto tra i lussuosi interni (le vite agiate) e il cantiere (la realtà quotidiana).

    Dolce Vita fotografato 02Non poteva essere diversamente quando il Direttore della Fotografia è un maestro assoluto quale Otello Martelli, che oltre con Fellini, ha lavorato con Maestri quali Camerini, Blasetti, Rossellini e tanti altri.
    Eppure, tornando sempre a quel ragionamento, a meno che non essere appassionati o addetti ai lavori, non lo conosce nessuno. Così accade ai direttori della fotografia, come le matricine nei boschi, il destinato di mescolarsi tra gli alberi per emergere solo dopo il taglio… ogni 30 anni circa.
    Alla prossima!! Fed

    @ lapinsu che mi ha preceduto… niente di male, un buon motivo per cominciare dall’inizio! 😉

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    • Grazie Fed! Tra l’altro il tuo paragone tra i direttori della fotografia (i fotografi in senso pieno del cinema) e le matricine è splendido, soprattutto se si espande il concetto a tutta la teoria del governo boschivo ed a quella tecnica per tenere sotto controllo le ceppaie morte con nuova linfa, anche quella dei grandi illuminatori di scena e dei grandi posizionatori di cineprese è in fondo una semina ragionata, che fa scuola e proselitismo e finisce per creare uno stile che influenza tutti…

      Mi sono permesso di aggiungere delle immagini a corredo del tuo stesso commento (senza modificarlo in alcun modo, né nella punteggiatura né nelle parole), affinché anche altri che ci leggono possano capire di cosa stiamo parlando…

      Alla prossima, Fed!

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  3. La fotografia dei film di Fellini mi è sempre piaciuta e la trovo davvero straordinaria. E’ perfetta in ogni sua sequenza e, facendomi rivedere la scena della tragedia mi hai ricordato cosa mi colpì del film. Invece la seconda parte, l’arrivo della Steiner mi ha ricordato l’odio che ho provato in quel momento per i paparazzi, indifferenti verso la tragedia che si era appena compiuta e insensibili verso il dolore che in seguito proverà la donna.
    Ottimo articolo.

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    • Ti chiedo un consiglio, Butch: sto diventando un po’ troppo rompi coglioni con i miei post ultimamente? Adoro parlare delle cose che mi piacciono e che mi hanno colpito, ma temo di aver ultimamente un tono un po’ troppo da professorino antipatico .. che ne pensi? Sarebbe meglio se alleggerissi un po’ i toni?

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      • Ti chiedo scusa per il ritardo con cui rispondo ma ultimamente sono stato abbastanza impegnato. Comunque no, non ho trovato i tuoi articoli rompiscatole e il tuo tono non era quello di un professore antipatico. Nei tuoi scritti ci metri sempre la stessa passione che ho trovato nei primi articoli che lessi la prima volta che ti conobbi. E se mentre scrivi ci metti anche qualche commento professionale che spiega il lato tecnico di certe scene ecc… non può che giovare all’articolo. Quindi non preoccuparti è continua a scrivere come più ti piace. E scusa ancora per il ritardo.

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  4. Prendere La Dolce Vita e parlarne con questa naturalezza e scioltezza per dire qualcosa di concreto e di utile, pur essendo già stato detto di tutto e di più sull’opera in questione, non è da tutti. Sulla scena in esame, forse la mia preferita del film, quella che più mi è rimasta dentro, hai detto tutto il dicibile, non posso che togliermi il cappello e inchinarmi dinanzi a tanto splendore.
    Tuttavia, collegandomi alla domanda che hai posto su a The Butcher, non credo che tu stia diventando più pesante o che stia facendo il professorino antipatico, però in questo post ho avuto la sensazione che tu ti sia un po’ trattenuto, nel senso che, forse involontariamente, hai pensato più a soddisfare il tuo pubblico che a scrivere il TUO pezzo. È molto probabile che stia dicendo una marea di cazzate e che mi sono lasciato condizionare da altro. Fatto sta che il consiglio che ti do (mi permetto di farlo, anche se ho solo da imparare da te) è quello di seguire sempre l’istinto quando si tratta di scrivere per il TUO blog. Accontenta i tuoi istinti e poi vedrai che essi ti ripagheranno con intuizioni che faranno felici i “fan”. O almeno questo è quello che succede a me.

    In ogni caso, questo qui è comunque un post per il quale una qualsiasi testata giornalistica grossa italiana pagherebbe un’occhio della testa per averlo. Quindi tranquillo e di nuovo complimentissimi.

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    • Grandissimo Zack! Ovviamente sono commosso per gli elogi che hai fatto al mio pezzo, che, per quanto potesse suonare un po’ troppo accademico, era in realtà fermo nel mio cuore da tantissimo tempo.
      La scena di cui ho parlato mi sconvolse allora e mi lascia estasiato ancora oggi ogni volta che la rivedo.
      Non volevo parlare del film in generale, ma specificatamente di questa scena, anche perché normalmente questo film è famoso per altre e più ovvie sequenze, in particolare per coloro che dicono di averlo visto ma non lo hanno mai fatto. Sappi che tengo moltissimo al tuo giudizio e siccome anch’io avevo avuto il sentore, rileggendo il mio pezzo, che ci fosse qualcosa che sentissi poco mio, mi stavo ponendo dei dubbi: aiutami a capire meglio cosa intendi quando dici di avere avuto l’impressione che mi stavo trattenendo. Ti ascolterò con mente e cuore apertissimi. Ti ringrazio anticipatamente per l’aiuto che potrai darmi, perché come ti ho già detto in momenti non sospetti, tu hai acquisito un livello di coscienza di te e delle tue capacità dialettiche molto elevato e posso solo imparare come migliorarmi anch’io.

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      • Mah, azzardo un’ipotesi, forse si percepisce davvero il tuo timore reverenziale nei confronti dell’opera, come anche il timore di essere frainteso dal lettore. Questo potrebbe averti spinto a camminare in punta di piedi e a non scatenarti, da un punto di vista direi proprio emotivo, come avresti voluto e potuto.
        Ma forse sono davvero cazzate, forse mi sono inconsciamente forzato a vederla in questo modo. Mi dispiace non poter essere più preciso, ma in questo caso sono io quello che ha paura di dire stronzate. Spero di esserti stato d’aiuto e se hai altre domande o chiarimenti su quanto detto, non ti fare problemi.
        Anche perché poi ho io un consiglio da chiederti 😀

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        • Ehi, Zack, mi perdoni vero se ti rispondo solo ora?
          Ho persino il mio portatile dentro gli scatoloni del traslocatore…
          Sul timore reverenziale hai ragione… pensa che ho nel cassetto un lungo post sugli automi nel cinema fermo da mesi per colpa del segmento riguardante Metropolis… ogni volta riformulo le frasi perché quando mi trovo così vicino al divino, mi tremano le mani…
          Hai davvero un consiglio da chiedermi? Sarebbe un onore per me!!

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          • Uuuuuuuh non vedo l’ora di leggerlo!
            Comunque niente, sto iniziando ad andare nel panico. Vorrei partecipare alla masterclass del Giffoni Experience che quest’anno è organizzata in collaborazione con BadTaste e insomma sarebbe una figata. Per partecipare devo mandare una recensione di max 1500 battute su un film (e sperare che mi prendano, sono “solo” 100 posti). E io non riesco a decidere il film, perché il film, e quindi la rece, deve rispettare il tema del Giffoni di quest’anno, ovvero “DESTINAZIONE”. Un tema che più vago non si può. Ti lascio l’unico indizio che ho trovato sul loro sito:
            “Ogni viaggio dell’ eroe, per citare l’archetipo su cui si sono formate generazioni di “narratori di storie”, ha la sua destinazione. Obiettivo si potrebbe anche dire. Quest’anno il Giffoni Film Festival sceglie un tema che è in sé un obiettivo: destinazioni.
            Destinazione Giffoni, potrebbe sembrare un gioco di parole. Ma in fondo ogni viaggio è sempre un ritorno a casa, a se stessi, alla propria identità.”

            Bello, bellissimo. Ma quindi?
            Perdonami se rompo, lo so che è una domanda inutile perché lo devo sapere io di cosa parlare, ma la scadenza è il 19 giugno e non riesco a trovare il film giusto. Perché mi piacerebbe che sia un film popolare, ma allo stesso tempo non scontato. Quindi qualsiasi cosa puoi darmi è ben accetta, anche solo un guizzo, una riflessione da cui posso far partire qualcosa. Help me, please.

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  5. buongiorno esimio,

    mi limito a fare due elogi e una critica, gli elogi sono per il tuo post (sei un recensore very nice, si può non essere d’accordo col tuo dire ma nulla da eccepire sulla forma) e per gli aspetti tecnici del film in questione, la critica riguarda i contenuti, sul piano della sceneggiatura non lo ritengo essere un “filmone”, tutt’altro. La dolce vita è paragonabile a un quadro indefinibile che diventa stupendo e unico grazie alle evoluzioni, direi parkour interpretativi postumi. Fellini era sì un genio ma un genio pieno di paranoie e deliri, fisime e nevrosi. In fondo non è mai uscito dalla sua innata natura di disegnatori di fumetti. Superfluo rimarcare che trattasi di una mia opinione, opinione di un appassionato del settore.

    un caro saluto

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    • Carissimo, devi perdonare il mio ritardo nel risponderti ed anche l’esiguità delle mie parole, poiché sono agli ultimissimi giorni di un trasloco casalingo imponente e complesso.
      Ciò nonostante, malgrado il solo ausilio del telefono, volevo ugualmente esprimerti la mia profonda gioia per il tuo commento, perché è già raro incontrare un libero pensatore ed è ancora più raro che egli ti faccia i complimenti!
      Sulla corretta interpretazione, poi, mi astengo, in quanto la difficoltà nel digitare un reato su un telefono mi imporrebbe una brevità argomentativa che diverrebbe inevitabilmente fatta di slogan massimalisti e come tali parziali.
      Grazie ancora quindi di esserti fermato da me ed a risentirci alla prossima occasione.

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  6. Fin da piccola sono stata abituata a guardare moltissimi film ed a leggere qualsiasi libro, senza restrizioni. Anche se ho una memoria pazzesca per certi dettagli che di solito nessuno ricorda, non sono molto brava con i titoli ed altre formalità. Comunque, quando mi capita di rivedere qualcosa del passato, è affascinante come non solo alcuni ricordi risvegliano ma come ormai provi anche un qualcosa di emotivo. Poi come succede con certi libri letti in un momento in cui non eri pronto e non hai capito niente, con la rivisita riesci viverlo interamente, con una comprensione multidimensionale che afferra ogni dettaglio.

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    • È bello e rassicurantemente piacevole sentirti girovagare nel mio piccolo blog, soffemandoti a guardare i quadri appesi, le foto di famiglia appoggiate sui mobili o i messaggi di vita quotidiana lasciati sulle pareti del frigo… così come i tuoi commenti, lasciati anch’essi come note ed appunti.
      Non vorrei ringraziarti ogni volta, dei tuoi passaggi, solo per paura di annacquare parole importanti come amicizia, affetto, stima, ma poi lo faccio lo stesso, perché tanto io so che tu sai che sono sincero quando lo dico.

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