The Wachowskis Parte 2 di 2: all boundaries are conventions

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A tre anni distanza dall’orgia mediatica della trilogia di Matrix, i fratelli W

achowski erano di nuovo pronti a siglare un altro capitolo della loro personalissima lotta di liberazione e nel 2006 firmarono la sceneggiatura e la produzione di V for Vendetta, affidandone la regia al loro adepto ed aiuto-regista James McTeigue (che ritroveremo poi anche alla direzione di un paio di episodi della fiction Netflix Sense8) e selezionando per il cast il loro attore feticcio Hugo Weaving per interpretare l’uomo-cavia dietro la maschera e la grandissima Natalie Portman per il doloroso ed eticamente complesso ruolo dell’orfana amata dalla stesso V.

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I due cineasti amanti dei manga e dei comics, avevano scelto un’opera maledetta del fumetto anglosassone, l’omonima graphic novel firmata da Alan Moore (quando si pronuncia questo nome, qualsiasi lettore di fumetti in genere ammutolisce e china la testa per rispetto, come di fronte ad una divinità) e disegnata originariamente, dall’artista inglese David Lloyd, in un lancinante e sporco bianco e nero (così come apparve sulla rivista britannica Warrior) e solo più tardi  ricolorata per la pubblicazione in volume.

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Molte e forti sono le differenze tra il romanzo grafico ed il film, ma non è questa la sede per sviscerarle tutte: limitiamoci a dire che mentre il fumetto mirava in modo netto ad una critica più diretta al regime politico del primo ministro inglese Margaret Thatcher, ambientando la storia in una versione distopica del decennio anni ’90 ed in uno scontro tra anarchici e fascisti, lo script dei nostri due sceneggiatori si ambienta invece in un prossimo futuro, tra il 2028 ed il 2038, smussando il cinismo assoluto del protagonista mascherato originale per una versione più attenta alle vittime innocenti ed introducendo valenze più mainstream, come il virus Saint Mary che avrebbe aiutato i conservatori a prendere il potere.

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Il cinema di Lana ed Andy Wachowski è infatti un cinema che cerca di parlare ad un pubblico il più ampio possibile e spesso nelle sue trattazioni sceniche e narrative scende a compromessi, per rendere più fruibile una vicenda e cercando così di far arrivare a più spettatori possibili il suo asserto rivoluzionario: alla fine, infatti, il messaggio profondo dell’opera concepita da Alan Moore, malgrado egli ne abbia ripudiato l’adattamento cinematografico (ma lo ha sempre fatto per tutti i film tratti dalla sue opere e non sono pochi!) esce dal ghetto delle poche migliaia di lettori della graphic novel (io non faccio testo, che a casa ho tre versioni della stessa opera) per raggiungere i milioni di spettatori del film e la figura eversiva del rivoltoso clandestino V, pericolosamente vicina al concetto stesso di terrorista, diviene patrimonio del grande pubblico, così come la maschera di Guy Fawkes (storico rivoltoso dinamitardo del ‘600 inglese) entra dal comic nel film e dal film nel web e dal web nell’attivismo politico quotidiano del gruppo di hacker di Anonymous e del movimento Occupy.

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Il produttore rampante Joel Silver aveva comprato dall’editore, a suo tempo, due fumetti epocali: V for Vendetta e Watchmen per farne dei blockbuster: se oggi abbiamo due capolavori cinematografici, pur diversi dai fumetti d’origine e pur traditori di parti essenziali delle opere di origine, lo dobbiamo solo ai Watchowski ed a Zack Snyder, senza il cui amore e rispetto per i comics, avremmo avuto senza ombra di dubbio due tradimenti di gran lunga peggiori e catastrofici in senso etico, filosofico e narrativo.

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Nel 2008, Laurence e Andrew Wachowski ne fanno un’altra delle loro ed assolutamente impermeabili ai consigli degli esperti di marketing che li volevano dissuadere, ma ascoltando solo la loro inarrestabile volontà interiore di cambiamento e rivoluzione visiva, se ne escono con la pellicola forse più sottovalutata ed incompresa del dopoguerra, il cromatico e psicadelico cartone animato dal vivo di Speed Racer.

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Sgombriamo subito il campo dai dubbi e diciamo che questo film è un gioiello, un’opera sontuosa e coraggiosa, meticolosa e raffinata, stordente come un tiro di crack e precisa come un cronografo svizzero: il plot è basato solo in apparenza sulla serie animata omonima della giapponese Tatsunoko (a cui ovviamente i nostri due fratelloni fanno grande omaggio), ma esso è soprattutto al servizio di un viaggio che lo spettatore è condotto a fare dentro un territorio nuovissimo e virtuale, fatto di tavolozze di infiniti colori, luci psicadeliche, texture che si sgretolano e si ricostruiscono davanti ai nostri occhi attoniti e personaggi umani che si muovono in una realtà non-realtà, come in un sogno e vivono gli accadimenti della storia come in un continuo behind-the-scenes, una perpetua finzione ammiccante.

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Vedere per credere: osservate attentamente i titoli di testa e vi renderete conto immediatamente di quanto sto dicendo e fortunatamente non solo io, perché, dopo più di un lustro di sbeffeggiamenti e stroncature, questo film viene ora finalmente recuperato da pubblico e critica ed infine compreso per ciò che è davvero, ossia una nuova grammatica filmica fatta di esplosioni luminose, fiamme, scintille e colori così saturi ed intensi da colare letteralmente fuori dello schermo.
Imperdibile, per chi non si fosse mai cimentato, la visione di quest’opera in Blu-Ray sullo schermo più grande che riuscite a trovare.

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Passano gli anni, quattro per la precisione, durante i quali i Watchowski iniziano una proficua collaborazione con l’artista tedesco Tom Tykwer, reso celebre dalla sua opera Lola rennt, thriller atipico sul conflitto filosofico tra libero arbitrio e determinismo, elaborato con sequenze filmiche a triplo finale e continui flash forward.
Con Tykwer i nostri due cineasti americani decidono l’impresa apparentemente impossibile di adattare per lo schermo Cloud Atlas, il romanzo post-moderno di David Mitchell, il cui stesso titolo è una metafora dell’imponderabilità (potremmo noi, difatti, disegnare un atlante di cose che si spostano in continuazione?), narrata attraverso 6 diversi racconti che vengono registrati in catena, interrotti e poi conclusi dai protagonisti delle storie via, via successive.

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Nel 2012 esce dunque l’epocale film omonimo, scritto e diretto dal trio composto dai nostri Laurence e Andrew Wachowski e dal Tom Tykwer già citato, che, per l’occasione, compone anche parte delle musiche (per altro di una soavità senza pari): un’opera magistrale, totemica, in cui su pellicola viene perfettamente ricreata quella magia di alternanze e ritorni presenti nel libro, archiviando la tradizionale diegesi filmica in favore di un raccontare inframezzato da fili continuamente ripresi e colorando il tutto con una folla di allusioni e rimandi: un film che non ho alcun timore di citare come tra i cinque più significativi del decennio.

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Con una storia che copre un arco temporale di circa 600 anni, vediamo in questo film raccontata l’ascesa e la caduta del concetto stesso di monopolio aziendale globale, illustrata attraverso 6 storie personali, ognuna emblematica e rappresentativa di una condizione di schiavitù, in cui viene affidata al grandissimo Hugo Weaving la funzione di pivot, con 6 diversi ruoli di censore ed aguzzino: è il padre mercante di schiavi nel segmento del 1846, in cui tutto cerca di costringere il figlio a rinunciare alla sua volontà di ribellione contro il sistema; è un nazista che si intuisce abbia avuto una storia di sesso (senza seguito perché la famiglia di lei è ebrea) con la moglie dell’anziano compositore Vyvyan Ayrs, nel segmento dedicato al giovane musicista del 1936; è un “fixer”, un killer a cui viene dato il compito di “risolvere” i problemi legati alle fughe d’informazioni sul diabolico piano legato alla centrale nucleare nel segmento della San Francisco del 1973; è la grottesca infermiera e carceriera Noakes, della casa di riposo dove viene rinchiuso l’editore Timothy Cavendish nella Londra odierna del 2012; è l’alto rappresentante della Unanimity, che, nel segmento della Neo-Seoul del 2144, risolve (o crede di risolvere) il problema della paladina di libertà Sommi-451 e del suo amante proibito  Hae-Joo Chang, comandante delle forze di ribellione; infine è Old Georgie, sorta di Diavolo tentatore, che compare più volte a Zachry Bailey, il protagonista del segmento ambientato 106 inverni dopo The Fall, la caduta, avvenuta nel 2321 ed è forse di tutti censori il più terribile del film, perché controlla la gabbia più insidiosa ossia quella che ci costruiamo da soli, quando siamo convinti di non aver altra scelta se non quella di seguire il destino scelto per noi da altri.

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In Cloud Atlas ogni attore è al servizio di un ruolo che è al servizio di un’idea, di un pensiero filosofico che porta, insieme agli altri, alla stessa conclusione: per quanto schiavi, mutilati, uccisi o derisi, tutti i personaggi centrali della vicenda arrivano sempre a liberarsi dai loro vincoli, nella loro o nella vita di chi li seguirà e questo è il vero motivo per cui, con scelta geniale, il trio di autori del film userà gli stessi attori per interpretare tutti i ruoli dei sei diversi plot narrativi, giocando con il make-up per nascondere e rivelare contemporaneamente (certi trucchi facciali sono appositamente grotteschi per mostrare il vero volto, altri talmente elaborati da rendere quasi impossibile l’identificazione dell’interprete), in una corsa verso la liberatrice spiaggia finale, dopo il dopo del dopo, alla fine dei tempi, con le stelle che stanno a guardare, dove anche le comete, alla fine del kharma, raggiungono il loro Nirvana.

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Tutto il cinema dei fratelli i Watchowski sembra condurci a questo punto, come un cavaliere solitario che ci ha condotto eroicamente in salvo e poi si gira, da sopra il suo destriero, a guardarci dritto negli occhi, non per cercare nel nostro sguardo gratitudine, ma perché noi si possa osservare dentro le sue stesse pupille nere, come in uno specchio magico, la storia del dolore di interi popoli schiavizzati ed usati come fonte di energia per alimentare le macchine, le corporazioni, le caste dei potenti e degli oppressori: questo, infatti, erano gli esseri umani attaccati ai baccelli, in campi sterminati, a cui succhiavano energia, questo erano i neri nord-africani, deportati e resi in schiavitù da un’economia capitalistica primitiva che si ritrovava manodopera gratuita, questa la sorte dei giovani artisti derubati del loro estro da vecchi baroni arcigni che li ricattavano per la loro sessualità non conforme, questa la sorte dei nuovi paria, dei cloni, degli esseri concepiti in vasca e non in culla, costretti a mangiare loro stessi, dopo essere stati uccisi nella convinzione di aver raggiunto il paradiso.

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E’ il paradigma del soylent verde, il cibo sintetico fatto con i cadaveri di chi accettava di suicidarsi per risolvere il problema della sovrappopolazione e della crisi economica del film “Soylent Green” del 1973 di Richard Fleischer, che Lana ed Andy Wachowski non si limitano a citare o peggio a copiare, perché l’animo dei nostri è superiore a questi mezzucci, perché per loro i capolavori non hanno tempo o proprietà ma sono linguaggio comune, una sorta di grande cineteca e fumettoteca semantica 3.0, dove il pensiero corre libero ed allora il riferimento al film americano che ho citato viene persino urlato a squarciagola, con tutta la disperazione e la potenza possibile, dal personaggio di Timothy Cavendish, protagonista del segmento narrativo della casa di riposo, mentre gli addetti lo riportano in prigionia “Soylent Green is people! Soylent Green is made of people!”

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Schiavitù, sfruttamento, inganno, persecuzione ed infine la mietitura
Si, la terribile verità cosmica celata nell’apparente bonarietà della loro ultima fatica, l’epopea fantascientifica di Jupiter Ascending, la salita al trono della terrestre Jupiter, reincarnazione della discendenza regale proprietaria ed unica erede del nostro pianeta, nonché l’estrema beffa di due eterni adolescenti, di due divoratori di film, fumetti e cartoni animati, che si fanno beffe dei monoliti di Clarke e Kubrick che avrebbero aiutato l’uomo nella sua evoluzione o degli stessi umani del futuro di Nolan, talmente progrediti da tornare indietro nel tempo per aiutarci nel nostro momento di massima crisi e che ci raccontano invece che noi terrestri come tanti altri popoli, di questa ed altre galassie, non siamo altro che allevamenti intensivi, campi di carne, da poter ad un certo punto della nostra esistenza, essere mietuti e raccolti per produrre il prezioso elisir di eterna giovinezza, che permetterà alla élite di vivere in eterno: il sacrificio di tanti per il benessere di pochi, ossia la freccia semantica dell’idea stessa di sfruttamento e di schiavismo.

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Difficile anche per un creativo trovare una metafora più bella di quella messa in scena dai Watchowski per raccontare questa idea atroce e tragica, questo valore e questo significato dell’esistenza non solo nostra ma di tutti i mondi possibili.

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Questo film è tecnicamente e filosoficamente il sequel di Cloud Atlas, ne è anzi la sua estremizzazione, perché qui si concepisce un intero universo governato ancora dal profitto, dove non c’è quella giustizia, raggiunta dal superamento di secoli di violenza e lotte dal genere umano come si favoleggia nel politically correct Star Trek televisivo, ma solo la legge del più forte, il regno dei maiali del romanzo di Orwell, un governo che fa le leggi solo per impedire che lupo mangi lupo, dove la polizia ed i governi controllano burocraticamente che tutto resti come deve essere e che ogni ricco abbia quello che il suo rango prevede che abbia.

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Come già in Cloud Atlas anche in Jupiter Ascending lo spirito citazionista  di Lana ed Andy (più goliardico che cinefilo) assume lo spessore ed il corpo della storia e la burocrazia terrestre diventa burocrazia galattica e come il pensiero di ogni appassionato di buon cinema va al capolavoro di Terry Gilliam Brazil, così i nostri due registi prendono lo stesso Gilliam in carne ed ossa e gli fanno interpretare direttamente il personaggio del Ministro dei Timbri e dei Sigilli (Seal and Signet Minister) , in una magnifica sequenza assolutamente ironica e divertita.

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Ma è proprio questa leggerezza ad essere la massima violenza sui nostri cuori, perché Jupiter, la protagonista femminile del racconto, sta di fatto accettando tutto questo sistema di governo ed amministrativo e persino il suo nuovo status, così, anche se alla fine, fermando il piano del fratellastro per destituirla e ritrovandosi la padrona incontrastata del nostro mondo, riuscirà a fermarne la mietitura, questo non cambierà nulla al grande ordine cosmico, perché lo sfruttamento dell’intero universo continuerà imperterrito nei millenni, perché non è caduto il regime, né la casta, né il sistema politica che lo alimenta.

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Jupiter Ascending è decisamente un film di target familiare, senza violenze evidenti e senza scene di sesso altrimenti imbarazzanti per una coppia di genitori che accompagnassero i loro bambini al cinema, ma è anche un serpente ingannatore, una vecchia storpia che racconta storie di paura venendo da tutti creduta una demente e non la depositaria di una verità inconfessabile e dolorosa: la sequenza in cui per la prima volta apprendiamo della mietitura, con i tre fratelli riuniti assieme per l’occasione su uno dei pianeti appena sfruttati, con la polvere blu cobalto che riempie le strade e gli spazi tra i palazzi è una delle cose più lancinanti e brutali mai viste al cinema, perché quella polvere, immobile ai piedi dei regali, è fatta di persone, miliardi di persone bruciate e consumate, non tanto nell’indifferenza generale, ma nella regolarità di un sistema legale che permette ai legittimi proprietari di disporre come meglio credono dei loro allevamenti, ma in fondo, per chi sceglie di non vedere, è solo polvere colorata, simpatica e graziosa.

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Jupiter Ascending è anche un perfetto catalogo di prodigi, di nuove razze create con l’ingegneria genetica, frutto degli esperimenti e dei divertimenti di scienziati che assemblano, incrociano specie diverse e le marchiano come vacche da allevamento, con punzoni che fanno da marchio di copyright, perché il film dei Wachowski è anche il fantasma di “The Island of Dr. Moreau (L’isola del dottor Moreau)”, il film del 1977 di Don Taylor tratto dal romanzo di H.G.Wells, dove il protagonista voleva trasformare gli animali in esseri umani e così troviamo nel film splendidi campionari di rettiliani (un classico del fantasy e dello sci-fi di tutti i tempi), ma anche il soldato mezzo uomo e mezzo cane che affiancherà Jupiter e che sarà il deuteragonista maschile.

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Non è possibile poi non commuoversi di fronte alla grandiosità dei “keepers”, i classici alieni malvagi, dal corpo grigio e dinoccolato, specializzati nei rapimenti e che nel film di Lana ed Andy Wachowski sono ovviamente alle dipendenze della casa reale, come una sorta di scagnozzi incaricati del lavoro sporco: faccio davvero fatica ad esprimere la profonda gioia che un lettore di fumetti, di libri di fantascienza, un estimatore dei trifidi che conquistano il mondo, dei baccelli che ci vogliono clonare e dominare, dei dinosauri intelligenti che governarono il mondo prima di noi, un sognatore lucido ed amante del cinema come me, ha provato nel vedere questo film, dove astronavi disegnate con l’eleganza ed il lusso estremo di vascelli per ricchi emiri penetrano il Nido delle Tempeste di Giove o solcano il pulviscolo degli anelli di saturno ed ancora le enormi rampe da skateboard dipinte di verde e costruite nei giganteschi set in giro per Chicago per simulare al computer il sorvolo antigravitazionale degli stivali del protagonista maschile e le api che ronzano attorno a Mila Kunis, a cui non era richiesta la sofferenza tragica della Sandra Bullock di “Gravity”, né la profondità emotiva della Chastan di “Interstellar”, ma l’essere spaesata ed attonita ed infine a suo agio nel suo nuovo ruolo di regina che continua a pulire i cessi dei ricchi, sapendo però bene chi è davvero e che potere infinito si celi alle sue spalle.

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Jupiter Ascending è una fiaba crudele, dove il Lupo Cattivo si è mangiato Cappuccetto Rosso e poi con le sue ossa e le budella avanzate ha costruito un golem che girovaga per il mondo dicendo a tutti di aver ucciso il lupo ed essersi salvata.
Perché chi come me crede alle favole, ne ha giustamente anche paura.


In questo post abbiamo parlato di:

V for Vendetta”, USA, 2006
scritto da Lana ed Andy Wachowski
diretto da James McTeigue

Speed Racer”, USA, 2008
scritto e diretto da Lana ed Andy Wachowski
interpretato da Emile Hirsch, Christina Ricci, John Goodman

Cloud Atlas”, USA, 2012
scritto e diretto da Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer
interpretato da Hugo Weaving, Tom Hanks, Halle Berry

Jupiter Ascending”, USA, 2015
scritto e diretto da Lana ed Andy Wachowski
interpretato da Mila Kunis, Channing Tatum


The-Oracle


A questo link, potete trovare la sotto-pagina del blog dedicata a Lana e Lilly Wachowski

The-Wachowskis-on-the-set


 

34 pensieri su “The Wachowskis Parte 2 di 2: all boundaries are conventions

    • Grazie Gianluca, sono davvero convinto anch’io che molti non abbiano capito le vere intenzioni dei registi in questo film. Non è solo un discorso di bella o brutta messa in scena, perché poi nemmeno i più agguerriti detrattori disconoscono la bravura di fratelli Wachowski: come per la trilogia di Matrix, penso che anche in questo caso sia proprio un discorso di intenti.
      Non possiamo, d’altronde, pensarla tutti allo stesso modo: in questi giorni che sono in vacanza, sto rileggendo molti dei tuoi articoli e sto trovando sempre più punti in comune tra il mio modo di vedere il cinema ed il tuo: questo ovviamente non rende le nostre cose giuste e quelle dette dagli altri sbagliate, ma è semplicemente la testimonianza di una sensibilità comune e che ogni volta ho piacere a riscontrare.
      Ho scritto questa seconda parte nella mia lunga carrellata sui due fratelli registi, mentre ero ancora a casa ed avevo programmato la pubblicazione in modo che avvenisse mentre ero in vacanza.
      Nel frattempo sto recuperando molte cose che avevi consigliato nei tuoi post.
      Quando non avrò più solo il telefono per poter commentare, ti farò sapere di più!

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  1. La profondità con cui hai analizzato e collegato le opere dei Wachowski mette in difficoltà chi, come me, vorrebbe commentare per riflettere su ciò che hai scritto. Perché sottoscrivo ogni parola su V per vendetta, come su Cloud Atlas, un film complesso, articolato, colmo di significati nascosti, in pieno stile Wachowski. Ma anche su Speed Racer, che andai a vedere al cinema e amai dal primo momento (come hai scritto tu, film dove i colori accesi ti avvolgono colando letteralmente dallo schermo). Poi c’è la mia grande mancanza: Jupiter non l’ho ancora visto. Ma puoi stare tranquillo, appena posso DOVRÒ recuperarlo. È un obbligo morale, dopo aver seguito il filo rosso che collega le opere dei fratelli, fino ad arrivare alla recentissima serie Sense8 e, appunto, a Jupiter.

    Grande articolo Kasa, un omaggio degno della creatività e del cinema dei Wachowski, che solo tu avresti potuto scrivere in modo così completo.
    Complimenti!

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  2. Non ho ancora visto JUPITER ASCENDING ma lo farò il prima possibile in barba alle miliardi di critiche lette in giro per il web, perché se c’è una cosa che ho imparato nella mia breve vita [e credo che tu condividerai] è che sono solo io che decido se un film mi piace oppure no.
    Parlando però dell’eredità di CLOUD ATLAS, credo che il suo degno successore sia la serie SENSE8 sempre ad opera dei Wacho Borthers. Queste due opere hanno dimostrato che i fratelli Wachoski non si limitano solo ad una impeccabile resa visiva a discapito di un contenuto profondo [queste le maggiori critiche mosse per film come JUPITER, SPEED RACER e i due sequel di MATRIX] ma c’è sempre una grande cura da parte loro per i personaggi, su ciò che li motiva come singoli ma soprattutto come insieme.
    La tua come sempre è un ottima analisi di un tipo di cinema che non è [e non vuole] essere per tutti ma solo per chi ha voglia di aprire la mente e farsi coinvolgere totalmente dalla visione di qualcuno che ha sinceramente voglia di raccontare una storia, lasciando pregiudizi e sterili lamentele fuori dalla porta.
    Granze Kasa 😉

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    • Odio non poter scrivere per bene e con il giusto rispetto a commenti come il tuo, ma quando non sono davanti al PC gli altri mezzi sono incredibilmente limitanti!
      Volevo scrivere tanto su ciò che hai detto che come sempre è bello, profondo e pieno di stimoli di discussione, così come volevo commentare il tuo post sublime (eh, si, sublime, perché si sente l’amore e la conoscenza per i comics come in nessuno dei post che ho letto fino ad ora sullo stesso argomento) sul trailer di “Deadpool”, perché è diventato un post sul personaggio stesso e l’ho amato!
      Mamma mia, volevo parlarti di Bruxelles, dell’Atomium, del museo (ho una foto con ed uno dei ragazzi alla biglietteria che mi conosceva via internet quando avevo il negozio di fumetti e mi ha aiutato tantissimo perché non parlo una cippa di francese…) e delle Gaufres farcite nei modi più disparati…
      Appeno torno al PC chiacchieriamo da veri uomini!
      Per ora, grazie dei tuoi bellissimi articoli!!!

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      • Ti capisco, anche io faccio serie difficoltà a scrivere su altri dispositivi come smartphone o tablet [è incredibile come riesca a sopravvivere incolume a questo 21esimo secolo 😀 ], ma già questo messaggio mi ha fatto enorme piacere! Non importa se riesci a non rispondere, anche solo un tuo “Mi Piace” mi lusinga 😉

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  3. Vedendo un film, presto sempre maggiore attenzione all’aspetto NARRATIVO che a quello STILISTICO, sia per passione personale che per evidenti competenze e conoscenze (so come raccontare una storia ma non ho la più pallida idea di come si giri un film).
    E’ per questo, credo, che ormai io abbia scarsissima considerazione degli Wachowsky e questo post, ancor più della parte 1, me ne ha dato conferma.

    Se fossi un caustico apologeta del tweeting e dovessi riassumere in 140 caratteri gli Wachowsky, non esiterei a scrivere:
    autori di film tutti uguali in cui i ricchi-potenti-malvagi sfruttano gli uomini-servi-inconsapevoli per il proprio profitto e benessere.

    Effettivamente ‘sta storia dei potenti che fruttano gli umani è ripetitiva:
    – le macchine di matrix
    – il governo di V per vendetta
    – gli alieni supremi di Jupiter

    E poichè, come premesso, io guardo e apprezzo più il contenuto della forma, va da sè che Jupiter lo abbia schifato. Son gusti, opinabili in quanto tali, frutto di ignoranza (senza accezioni negative) e incompetenza.

    Inoltre, leggendo questo post, ho colto chiaramente un aspetto degli Wachowsky che prima avevo intuito solo parzialmente: il loro è un cinema per pochi poichè è ricco, complesso, polisemico, citazionista. Chi ha una conoscenza filmica e fumettistica vasta come la tua può coglierne tanti aspetti che invece sfuggiranno agli ignoranti come me che, figurati, ignora del tutto chi sia Alan Moore 😀

    Ciò non toglie che la coppia di fratelli oggetto di analisi sia tra le espressioni più interessanti del panorama cimatografica del nuovo millennio il che mi porta a fare una riflessione che ebbi leggendo già il primo post che mi tenni in serbo nel secondo.
    Oddio, più che una riflessione è una domanda che pongo a te e agli altri illustri lettori.

    Da tempo ho maturato l’impressione che il cinema del nuovo millennio faccia fatica ad esprimere autori che sappiano mantenere un livello altissimo in tutte le loro pellicole. Pensiamo a Spielberg, Scorsese, De Palma, Cameron: loro inanellarono successi per oltre 20 anni prima di sbagliare un film, seppero replicare e rinnovare la loro grandezza in molteplici pellicole prima di suggerire l’impressione che il loro estro si stesse affievolendo. Ecco, io non vedo tra le nuove generazioni di registi nessuno in grado di mantenere un altissimo livello su ogni lavoro: nè gli Wachowsky (l’immensità del primo Matrix, checchè possiamo chiosare qui, non è stata nemmeno sfiorata dai loro film successivi), ma neppure Nolan che, al netto degli haters, con gli ultimi due film (pur belli) si è messo qualche gradino sotto la trilogia di batman o Prestige o Memento.
    Lo so che è una riflessione assurda, probabilmente dettata dal sole e dal caldo torrido, nonchè dalle ferie ancora molto lontane (settembre, ahimè…), Vaneggio, ma la cosa – lo confesso – non mi turba anzi quasi mi allieta. Quindi ti e vi chiedo: Che ne pensi?

    Buone ferie kasa!!!! Riposati pure per me!!!!

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    • Difficile rimanere insensibili di fronte a commenti come i tuoi e non parlo di questo in particolare, perché manifesta un disaccordo con il mio apprezzamento generale sul cinema dei fratelli Watchowski, ma in generale di tutti i tuoi commenti, sempre più pacati dei tuoi post e più riflessivi e per questo, ovviamente, anche più pericolosamente prestanti il fianco alle critiche ed alle osservazioni: è il paradosso dell’idiota e del sapiente, per il quale, se io definisco un film una merda o un capolavoro senza spiegare il motivo del mio giudizio, posso essere additato come semplicistico ma al contempo molto difficilmente potrò essere attaccato, perché posso sempre cavarmela, in caso di difficoltà, con un classico “si ma io intendevo…”; altresì, se io motivo in modo dettagliato il mio disprezzo (come hai fatti tu) o il mio apprezzamento (come ho fatto io), mi assumo tutte le responsabilità del giudizio ed in più metto in gioco il mio senso critico, la mia cultura e la mia aperura mentale.
      Ci siamo, ossia, messi da soli sotto osservazione…

      Ho riscontrato per la prima volta questo problema all’Università, quando facevo Lettere e Filosofia e dove misi a dura prova i concetti di bello e brutto in arte (sia essa letteratura, pittura, musica, danza etc.), di ben fatto e mal fatto e così via, perché lo studio vive di analisi e di critica e la critica vive di considerazioni e spiegazioni.
      Inoltre la grande arte raramente si manifesta in prove così basilari e concrete da essere “solo” assorbita nella sua spontaneità (in arte solo immaginaria) e quasi sempre, non solo necessita di un minimo di allenamento (una sorta di abitudine che permette di fare proprie la sintassi e la grammatica narrativa anche visuali), ma in più rivela tante più cose a chi ha la conoscenza dei lavori precedenti dello stesso artista o di quelli dei suoi colleghi.
      La fruizione completa non può quindi essere solo istintiva “a pelle”, ma in qualche modo vissuta e digerita, altrimenti è una conoscenza superficiale: tu stesso ti metti sempre in discussione e le tue critiche negative sono argomentate sulla base di rapporti, confronti e contenuti, quindi non sono mai solo emotive.

      Penso ad esempio ad un quadro italiano del Rinascimento, bello non solo perché bello (in senso vago) ma perché rivoluzionario con la sua idea di prospettiva, con il porre l’uomo al centro, penso poi più tardi ai neri profondi del Caravaggio, che assumono significati proprio se paragonati ai colori dei suoi coetanei, penso a Picasso ed al cubismo tutto, che acquista valenza se si conosce l’arte figurativa classica alla quale si rivolge polemicamente e così andando poi nei terreni della letteratura, leggendo il grande romanzo storico italiano del Manzoni o quello russo o quello francese, che non si riescono ad apprezzare se non si è lettori abituali ed infine penso al capolavoro dei capolavori, all’opera somma, indiscutibilmente tale ed unanimamente accettata come opera poetica altissima, ossia alla “Divina Commedia” che, aldilà dell’italiano antico, non è possibile apprezzare in tutta la potenza senza la comprensione dei suoi tanti sotto-testi, delle allegorie, delle simbologie di cui è intrisa.

      Poi arrivo al cinema, alla settima arte, frutto sempre di un lavoro corale, di scene costruite in modo meticoloso, piene di tecnici, di inservienti, di autori, di costumisti, di direttori della fotografia, di attrezzisti… un circo di persone che lavorano spesso con sottomano i decoupage su carta o iPad della scena, con movimenti di macchina costruiti al computer per disegnarne la geometria nello spazio ed allora è ovvio che ciò che noi vediamo in pochi secondi è il frutto giammai di un impulso, ma di un lavoro di cesello e di costruzione complesso: non esiste un cinema istintivo, ma tutt’al più (forse) solo uno script con un’idea fulminante, perché il resto è solo tanto tanto lavoro.
      Noi spettatori, i fruitori ultimi dell’opera filmica, possiamo bercela tutta di un fiato ma chi l’ha realizzata certamente non l’ha fatta così e ciò che ci sembra fatto “di pancia” in realtà è fatto apposto per parlare “alla pancia” ma in modo assai più costruito.

      Allora penso all’idea che c’è dietro, all’emozione che si riesce a trasmettere ed è così che io giudico sempre un’opera cinematografica, dall’emozione che riesce a darmi attraverso la sua messa in scena, ma un’emozione o solo compulsiva o anche solo intellettuale o entrambe le cose mescolate assieme, che vanno a titillare ricordi e piaceri già provati in altri film (il gusto per la citazione, la rievocazione) oppure le rivelazioni dell’idea vincente, del genio o al contrario della forma perfetta (penso alla ricercatezza quasi maniacale con cui Kubrick componeva il quadro filmico… per il suo ultimo film, forse il suo film più complesso, “Eyes wide shut” spedì mesi prima un fotografo a catturare le immagini di migliaia di portoni di case di un determinato quartiere, fino a trovare quella che trasmetteva a Stanley le giuste emozioni…).

      In questo mio apprezzamento, io non faccio distinzioni (boundaries) di alcun tipo: amo le opere dal linguaggio diretto se fatte bene, come “Duel”, così metafisico e metaforico o come “Shugarland Express”, entrambi di Spielberg oppure le opere piene di citazioni, codici doppi ed amore per il cinema di genere come “The Raiders of The Last Ark” sempre del nostro amato Steven o “Pulp Fiction” o “Django Unchained” di Tarantino; amo la ricerca di continua innovazione lessicale, come quella dei Wachowski di “Speed Racer” e “Matrix”; amo la sregolatezza dietro una forma perfetta dei film di Wes Anderson; amo la voglia di cinema devastante dei piani-sequenza infiniti e meravigliosi di Scorsese e dei suoi ricercatissimi movimenti di macchina (un uomo che si perde nell’usare il cosiddetto Effetto Vertigo – con cui si allontana la cinepresa dal soggetto mentre intanto si zooma così che in realtà il soggetto resta fisso e lo sfondo si allarga – per far vedere allo spettatore i malavitosi che si muovo dietro i due protagonisti che parlano); amo la commedia degli equivoci di tanto cinema francese ed americano del subito dopo guerra (uno fra tutti “Man’s Favorite Sport?” di Howard Hawks); amo la fantascienza cosmica e galattica (alla “Star Wars” per intenderci), ma anche quella riflessiva ed intimista (alla “Zardoz” o alla “Solaris”) o quella ambigua e contaminata con altri generi (come “Ender’s Game”); amo il noir d’annata (come quello di Polanski di “Chinatown”) ma anche quello freddo e moralmente inquinato dei fratelli Coen di “Fargo” e di “Miller’s Crossing; amo il cinema cervellotico e sofferto (alla Bergman prima maniera de” Il posto delle fragole” o a quello più familiare di “Fanny ed Alexander”) ma anche quello visionario alla Lynch (il suo “The Elephant Man” è per me un patrimonio dell’umanità come il suo “Dune”); amo il cinema di impianto pseduo-teatrale, con lunghi monologhi pregni di significato (come “Carbage” sempre di Polanski) ma anche quello più mescolato al dramma quotidiano (come lo Spike Lee de “25th hour”; amo l’animazione Disney, quella giapponese ed amo anche il Si. Rossi di Bozzetto.

      A Francoforte ho visitato il Museo del Cinema, dove, tra le altre cose, in mezzo a lanterne magiche, anamorfosi e camere oscure, si rimane folgorati nell’incontrare il prototipo originale di “Maria”, l’androide usato nel film “Metropolis” di Fritz Lang… ed allora, in quella sala, vicino a quella dedicata al genio illusionista di Melies, ho avuto la netta sensazione di essere, in qualità di spettatore di tutte queste pellicole viste fuori del loro tempo di creazione, come un highlander che vede nascere e morire le persone intorno a lui e con esse i valori che li rappresentano: quando a suo tempo Spielberg fece i suoi maggiori successi, i critici ed il pubblico lo applaudirono ma assieme lo definirono l’inizio della crisi artistica di Hollywood, l’uomo che con il suo genio stava portando alla banalizzazione l’arte del cinema classico… si potrebbe oggi dire una stronzata più grande? No, perché Spielberg è assurto a suo modo a Grande Classico, così come Scorsese e tutti quegli autori nati e cresciuti nella cosiddetta “nuova Hollywood” (Milius, Scorsese, Coppola, Lucas) e che da rivoluzionari sono diventati i massimi difensori della tradizione e non perché hanno “tradito” i loro asserti cinematografici, ma perché il mondo è andato avanti e deve fare i conti con altri stili ed altri linguaggi oppure (se preferiamo) nuovi dei e nuovi demoni.

      Nolan è il nuovo Spielberg: se paragoni le due filmografie resti sbalordito e per me, haters a parte, Nolan sta crescendo ancora di più film dopo film, nella padronanza di mezzi incredibili, nella capacità di narrare il grandioso, nel riuscire a fare blockbuster restando ancorato al pudore di raccontare storie credibili.
      Quando uscì “E.T.”, in molti, compresi il critico Franco La Polla (che per primo sdoganò in Italia Spielberg come grande regista e grande autore), dissero che il regista aveva iniziato la sua parabola discendente… che aveva cominciato a fare film stupidi per bambini stupidi e che il successo ed il denaro lo avevano rovinato: dopo quel lontano 1982, il nostro ha firmato opere entrate nella storia del fantasy (come “Jurassic Park”), del dramma concentrazionario (come “Schindler’s List”), della sci-fi (come “A.I. ”, di cui in molti ancora non hanno capito che quelli che arrivano alla fine non sono gli alieni ma altri robot…), perché un grande regista può girare delle film minori se non addirittura inutili (come “War Horse”, che è un po’ come ” Insomnia” per Nolan) e l’anno dopo girare affreschi storici come “Lincoln”).
      La verità è che nessun regista oggi avrebbe le palle che ha avuto Nolan di fare un film come “Interstellar” e secondo me siamo solo a metà del cammino di questo artista.

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      • Un commento così annichilisce, perchè dice già tutto e lo dice bene, quindi cos’altro potrei aggiungere?
        Ti avevo fatto una domanda stupida e tu te ne esci con uno dei commenti più aulici e poetici della Storia id WordPress. C’è del vero, quindi, nel detto che “non tutti i mali vengono per nuocere”, dove “i mali” sono la mia domanda e “il bene” la tua risposta.
        Credo di non conoscere nessun amante del cinema come te. Si, perchè non sei un semplice appassionato e lo si vede distintamente in queste parole che hai scritto: trasudano AMORE e lo vedo in ogni segno di punteggiatura, nel dosaggio degli aggettivi e dei superlativi, nel ricorso a termini ora elementari ora da accademiadellacrusca, nella testardaggine con cui ti ostini a chiamare i film sempre col loro titolo originale (solo alla terza lettura ho capito che “The Raiders of The Last Ark” è il primo Indiana Jones…) come il genitore che non si permette mai di appellare il figlio con un nomignolo o un soprannome anche se il nome è un impronunciabile Ermenegildo o un pessimo Orsomaria.
        Tu ami il cinema mentre ciò che ti appassiona è discuterne. Di solito è il contrario, perchè le persone amano più se stesse che non il mondo che li circonda e quando parlano di un film lo fanno solo per dimostrarti “quanto ne sanno” o “come sono acuti”. Tu no, quando parli di cinema l eo fai con lo stesso spirito con cui un bambino porta l’amichetto in camera per mostrargli i suoi giochi: non lo fa per vantarsi, ma solo per condividere il suo mondo e metterlo in comunione con la speranza che in due tutto possa diventare più divertente.

        Ecco cosa mi ha detto il tuo commento prima di tutto. Mentre parlavi di cinema, arte e sapienza, senza volerlo, parlavi di te. E l’affresco che hai fatto – te l’assicuro – è una meraviglia.

        Con un volo pindarico che farebbe impallidire perfino Pindaro stesso, passo a Spielberg e Nolan.
        Anche per me ci sono enormi paralleli tra i due (e lo scrissi in tempi non sospetti: https://lapinsu.wordpress.com/2013/11/12/top-20-registi/) e, fermo restando la loro immensità, io nel cinema di Nolan un leggero calo l’ho visto. Ed è un calo che ha la stessa matrice di quello degli Wachowsky: le ultime storie (Inception e Interstellar) corrono il rischio di restare complesse, troppo complesse, e di non riuscire a penetrare a fondo nell’animo di chi le guarda. Nolan, pur rimanendo l’unico grande regista in grado di coniugare cinema di qualità con mainstream (ed è qui, poi, che si concentra tutta la similarità con l’opera di Spielberg) mi sembra che abbia interrotto l’ascesa verticale riscontrabile nelle sue prime opere diventando sempre più complicato col serio rischio di diventare – col tempo – quasi incomprensibile.
        La tua risposta, però, mi rincuora perchè fondata su dati ed elementi verificabili ed è quindi più attendibile della mia impressione che, in quanto tale, è opinabile e melliflua.

        (ora clicco “commenta l’articolo” senza rileggere, quindi non badare gli errori :-D)

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        • Non potevi, neanche studiandolo a tavolino, con uno spirito da efferato persuasore alla Goebbels, farmi un complimento più grande e più piacevole!
          Le parole che hai usato per descrivere ciò che provo, quando parlo di cinema e più in generale di arte, suonavano come dei campanelli in festa nelle mie orecchie e s’incastravano perfettamente in ciò che in genere io solo spero (ma quasi mai raggiungendo tale effetto) di comunicare… Oh, grazie di cuore!
          Ecco, per farti capire, la sensazione che ho avuto sentendomi compreso è simile a quella che ebbi guardando il secondo tempo di “Hugo”, quando Scorsese mostra la vera arte di Georges Méliès, quella magia da tanti intesa solo come ciarlateneria e che lui invece viveva come affabulazione meravigliosa!
          E questo perché probabilmente è così anche per te, qualcosa che nelle nostre diversità ci accomuna e che ci rende (sembra banale dirlo) onesti!
          Una sensazione che vibra dal cervello fino al plesso celiaco, quello che ci fa attorcigliare lo stomaco, un po’ come un subwoofer dell’animo…
          Sei un grande, Lapi!

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  4. Spero perdonerai refusi e sgrammaticature ma, come avemmo modo di discutere tempo fa, non rileggo mai i miei commenti prima di pubblicarli, esponendomi così a questi pessimi risultati 😀

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    • Spero tu perdonerai me, perché, malgrado le vacanze ho scritto un commento “monster” che fa sembrare corto un MIO post… L’ho scritto su un file di testo del telefono (ci ho badato una parte del viaggio da Francoforte a Bologna, mentre guidava mia moglie, che per altro al volante sembra il protagonista di Transporter, film e fiction…).
      Consideralo un atto d’amore per te, per il cinema e per tutte e due assieme…

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      • Adoro quando il tuo periodare si fa complesso, impazzisco quando il tuo lessico colto tracima e inonda WP di bellissime parole come “titillare” (chi mai userebbe TITILLARE in un commento social??????).
        Ti ringrazio per la dedica e ti confesso che ho già letto con piacere immenso il post. Domani lo rileggerò una volta, forse due. E poi risponderò, spero a tono.
        Perchè, vedi, i miei commenti non li rileggo mai mentre i tuoi me li rivedo sempre con piacere!!!!!

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  5. E-pi-co articolo interessantissimo e degno di un libro sulla materia. Tralascio jupiter di cui abbiamo gia avuto modo di discutere, e mi concentro invece su speed racer. L ho visto davvero tanto tempo fa…. Non ricordo molto, nemmeno se mi fosse piaciuto ( probabilmente non lo osannai, altrimenti ne avrei un fulgido ricordo) e questo tuo pist mi ha dato la spinta giusta. Ora mi fiondo su amazon e me lo compro. In blu ray naturalmente. So gia che non me ne pentirò. E ricambio la fiducia che mi hai dato su jupiter. Blu ray alla cieca per kasa 😀 😀 poi ti farò sicuramente sapere. E ne approfitto anche per augurarti ferie immense 😉

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  6. Signor Kasabake, una magistrale esposizione come quella appena da me letta meriterebbe un altrettanto elaborato commento, ma mi limito a scrivere di concordare con pressoché tutto ciò che è stato esposto. Rimango a bocca aperta dalla leggiadria con la quale riesci ad esporre complessità e concetti, tutti elegantemente intrecciati da un filo narrativo degno di un professionista. Pertanto cedo spazio ad un reverenziale silenzio, e chino la testa. Sentiti complimenti.

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  7. Grazie tantissimo!! Resterò ancora una settimana lontano da casa e dal PC, per cui sto rispondendo e commentando con un telefono… che é un po’ una sofferenza!!
    Sappi che in spirito, però, sono sul pezzo ed aleggio su ogni tuo capoverso!
    Sei un grande, Michael!

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  8. …ed è altresì incredibile come noi in Italy non li sappiamo proprio concepire questi film e se, puta caso, ti venisse l’idea di fare una serie televisiva chessò di alieni o di mutanti, o peggio una serie che parla di un trono di spade, maffigurati le risate ! Ecchèssò ‘ste cazzate! 😀
    Grandissima esposizione Kasa.

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  9. Ho preso appunti.
    Mi sono divertito tanto.
    Ed essenzialmente condivido.
    Mi hai esaltato da subito, con la primissima frase (“Il cinema di Lana ed Andy Wachowski è un cinema politico.”), e da lì è stato tutto un crescendo.
    Bellissimo come hai raccontato nascita e sviluppo della loro idea di cinema e concordo pienamente con te quando dici “[…] Laurence e Andrew Wachowski peccarono, ahimé, di superbia ed ingenuità, pensando che tutto il mondo fosse fatto come loro […]” in riferimento ai sequel di Matrix che furono criticati da molti, perché non compresi fino in fondo.
    Tuttavia, secondo me, i due hanno commesso la stessa pecca con tutti i loro film successivi. Forse parlare di superbia non è esattissimo, mentre “ingenuità” è già un termine più adatto, ma sempre specificando in che senso. Perché i due hanno sempre voluto fare (giustamente) i film che volevano loro, film in un certo senso impegnativi (o comunque diversi da tutto il resto a cui siamo abituati), riponendo però fiducia in un pubblico troppo vasto e troppo eterogeneo che difficilmente è stato disposto a partecipare attivamente e a sforzarsi un minimo per comprendere e contestualizzare ciò stavano vedendo. Ed ecco spiegato il motivo degli insuccessi economici riscontrati con tutti i loro film post-Matrix (eccetto quelli solo scritti e/o prodotti dal duo): il cinema dei fratelli Wachowski è quindi cinema di nicchia, realizzato con budget e ambizioni del cinema mainstream.
    Lo scrissi, stranamente, già qualche annetto fa: l’idea di cinema, l’idea del mondo, dell’universo e della vita che hanno i fratelli Wachowski era, ed è ancora, avanti anni luce rispetto al resto del mondo e in particolare allo spettatore medio che di conseguenza fatica a seguirli. Ma sono abbastanza convinto che sia tutta una questione di tempo. Ce lo sta dimostrando Speed Racer, che quando uscì al cinema fu schifato da tutti mentre adesso pare che improvvisamente tutti lo amino alla follia.
    Insomma i Wachowski sono gli artisti e le personalità di cui la nostra società e l’umanità intera ha bisogno per crescere ed evolversi, ma sono anche gli artisti che non ci meritiamo perché non siamo ancora tutti pronti ad amarli e a comprenderli fino in fondo.

    Avrei voluto scrivere tanto altro ancora, ma mi è uscita fuori questa chiusa (lo so, sto abusando troppo della citazione del Cavaliere Oscuro) che mi pare abbastanza ad effetto, per cui mi fermo qui. Dico solo che concordo su Cloud Atlas e Jupiter e mi piace il discorso sulla politica e su V per Vendetta, ma non considero quest’ultimo un grande film essenzialmente perché non considero James McTeigue un buon regista.

    Scusa se ci ho messo una vita a rispondere.
    Ah, non l’ho detto ma era sottolineato, questi due post sono stratosferici e ho preso davvero appunti su un foglio di carta. Super Kasa!

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    • Sto commentando fuori casa (in un pub per l’esattezza, con tanto di PC per il pubblico) e quindi non posso dilungarmi, malgrado la lunghezza del tuo commento meriterebbe di meglio.
      Sarò didascalico:
      1. Ho provato un grossissimo piacere nel leggere di nuovo le tue parole e ti dico che mi sei mancato!
      2. Grazie di cuore per il gradimento che hai espresso in modo chiaro e netto e senza ombre, perciò tanto, tantissimo orgoglio.
      3. Concordo sull’ingenuità e forse superbia è sbagliato, come dici tu, perché presuppone una condanna morale che non meritano, così come concordo perfettamente sul fatto che tale ingenuità si estenda a tutte e produzioni indipendenti e quindi di conseguenza a tutto il loro cinema dal primo Matrix in poi.
      4. Concordo anche che V for Vendetta non è un film perfetto proprio perché il regista è solo un adepto e non un loro pari
      5. Felice che anche te piaccia “Speed Racer” e mi credi se ti dico che mi piacque da subito, appena uscito?
      6. Hai preso appunti e mi sono commosso…
      7. “il cinema dei fratelli Wachowski è quindi cinema di nicchia, realizzato con budget e ambizioni del cinema mainstream […]i Wachowski sono gli artisti e le personalità di cui la nostra società e l’umanità intera ha bisogno per crescere ed evolversi, ma sono anche gli artisti che non ci meritiamo perché non siamo ancora tutti pronti ad amarli e a comprenderli fino in fondo” sono due frasi perfette ed odio non averle scritte io… ma amo che l’abbia fatto tu… Sto studiando come inserirle nel post, con il tuo permesso.

      Ben tornato Big Zack!

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  10. Grazie mille per il bentornato!
    Adoro Speed Racer (anche se preferisco di gran lunga Cloud Atlas, decisamente tra i 5 più significativi del decennio come hai detto tu e anche uno dei miei preferiti in assoluto)! E certo che ti credo, com’è certo che hai il mio permesso di fare quello che vuoi con il mio commento. Sarebbe un’onore immenso e anche se cambi idea all’ultimo e non ce lo metti più per qualsivoglia motivo, mi hai comunque già riempito il cuore di orgoglio. In tutta onestà non credevo di essere all’altezza di un post del genere, un post che non so se sarò mai in grado di eguagliare. E ti assicuro che non è finta modestia, anzi. Fidati di me quando dico che anche i tuoi post stanno crescendo sempre di più in termini di precisione dell’analisi filmica e di consapevolezza del mezzo e del linguaggio. Non che prima il livello non fosse già bello alto, però adesso stai diventando un super fuoriclasse professionista.

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    • Non riesco a smettere di gongolarrmi per le parole che hai detto…
      Avevo già ieri identificato il punto esatto dove inserire in modo perfetto la tua citazione, nel primo dei due capitoli, a chiosa del ragionamento.
      Quindi, essendo la bozza già pronta, con tanto di immagine a corredo… ecco, click! Fastto, uploadata la modifica!
      E’ solo un semplice virgolettato, come avrei fatto per un altro giornalista o commentatore di rilievo.
      Diamo a Zack ciò che è di Zack.
      Respect!

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    • Avevo già letto questo articolo, giacché ho cominciato a seguire il blog di questo giovanissimo studente di giornalismo da quando me lo segnalasti tu.
      Prismo si trova in ottima compagnia, sia in Italia (penso alle analisi uscite su “Wired” e su “La Stampa”), sia all’estero quando parla dell’involuzione artistica e commerciale dei fratelli Wachowski, anche perché l’opinione di Prismo è aesattamrente idnetica a qulla esposta senza eccezioni dalla maggioranza dei columnist americani (con il “The Guardian” in testa, che ha usato le medesime argomentazioni ed esempi in occasione dell’uscita di “Sense8”).
      Non sono ovviamente depositariod ella verità ed anzi, dal punto di vista logico, se ha l’aspetto di un’antra e cammina come un’anatra forse ciò che stiamo guardando è proprio un’anatra… tuttavia continuo a pensare che negli USA (ed a ruota nel resto del mondo) si sia consumata nei media un’ordalia simile aquella che bruciò vivo Cimino dopo il disatro economico che il film “Heavn’s Gate” creò alla Universal.
      Mi unisco al carrozzone di coloro che vedono, senza se e senza ma, i fratelli Wachowski aver vissuto in una suicida comfort zone dal primo matrix, producendo solo film sbagliati e andando smepre più in calando, senza mai innovare davvero oppure resto della mia idea di due rivoluzionari che hanno sempre costantemente remato fuori delle acque serene del mainstream commerciale, senza mai tornare sui passi dei flop commerciali che a caduta si andavano affastellando sui loro passi e ricercando collaborazioni non con artisti o screenplayer sulla cresta dell’onda del successo ma cercando artisti difficili da digerire?

      Io resto della mia: ho molto più rispetto delle tue idee originali e personali (come la tua visione secondo cui “[…]la narrazione va intesa come processo in cui sono coinvolti due attori (chi narra e chi ascolta) ed entrambi devono SEMPRE AVERE COSCIENZA dell’altro. Nel momento in cui chi narra non si cura più di quanto e come sia stato compreso il messaggio, non sta più narrando, bensì riflettendo: si specchia e parla con se stesso. Parimenti, se chi ascolta non si sforza di farsi prendere per mano ed entrare nel mondo di chi narra per capirlo DA DENTRO, allora è solo un sordo che non vuol capire[…]” ed ancora “[…]il dubbio che siano loro ad esser diventati autoreferenziali è grande[…]”), che non di quelle più addomesticate confortevolmente omologate al comune pensiero critico di Prismo.

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      • Non seguo praticamente alcun sito\blog\testata di critica cinematografica perchè hanno la tendenza a polarizzare le loro posizioni: o sono tutti “vincenzomollica” e lodano qualunque cosa guardano, oppure sono dei sòloni-criticoni che se 2001 a space odissey uscisse oggi avrebbero da ridire pure su quello.

        Le uniche critiche di cui mi fido sono quelle dei miei amici (siano essi reali o virtuali) dei quali ho imparato a conoscere pregi e difetti (per quanto tu continerai a lodarmi District 9 per me resterà sempre una fetecchia ehehehhe).
        Diciamo che soffro di snobismo al contrario.
        Di solito Prismo offre articoli interessanti proprio perchè non affronta mai i temi da una sola prospettiva, ma li impreziosisce con più spunti e più punti di osservazione. Nel caso specifico è un po’ piatto, hai ragione, e soprattutto poco originale.
        Mo’ glielo mando io un un pezzo per demolire gil Wachowskyi 😀

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  11. Pingback: The Wachowskis Parte 1 di 2: Deus Ex Machina Vs Neo | kasabake

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