“Belle”: Il Drago e La Principessa Lentigginosa

Viviamo in un mondo complesso, non solo politicamente ed economicamente ma anche come intrattenimento culturale e quindi sento l’esigenza di chiarire subito che questo lungometraggio giapponese, per via del titolo italiano e del modo con cui è stato presentato dai media, non è assolutamente come si potrebbe pensare l’ennesima versione animata de La Bella e la Bestia, la classica fiaba europea le cui origini si perdono nell’antichità, ma che è stata per lo più canonizzata da autori francesi del ‘700, come Jeanne-Marie Leprince de Beaumont ed oggetto di innumerevoli varianti letterarie, nonché di adattamenti filmici dal vivo ed animati, di cui certamente il più popolare è quello della Disney del 1991, a cui è seguita anche la versione con attori dal vivo del 2017, con Emma Watson nei panni di Belle (anche se la mia versione preferita resta La Belle et la Bête, il film del 2014 di Christophe Gans con un magnifico Vincent Cassel e la divina Léa Seydoux, ma questa è un’altra storia).

Questa precisazione è essenziale per comprendere il reale significato di quest’opera, completamente incentrata su un’adolescente, Suzu Naito, colpita da bambina da un terribile trauma familiare ed ora incapace di “riavviare” la sua vita per offrire a se stessa una seconda possibilità di crescere in modo differente.

Tuttavia, il marketing ha insistito in tutti i trailer e nella pubblicità (pensando soprattutto al mercato estero, specie durante la presentazione del film al Festival di Cannes) su scene ed immagini ben riconoscibili nella memoria collettiva popolare di tutto il mondo come i luoghi e la fenomenologia tipici della fiaba prima citata, come una bellissima e radiosa fanciulla, simile ad una Principessa delle favole, un essere misterioso e bestiale, in parte uomo ed in parte Drago, un Castello regale nascosto a tutti e persino una Sala da Ballo e delle Rose Magiche.

Quello di usare il nome e le sembianze dei due personaggi dell’antica favola francese è però in realtà solo uno stratagemma linguistico e stilistico, ossia un modo usato in questo anime per permettere al pubblico di meglio visualizzare nella propria mente la sfida della ragazza protagonista, da sola contro tutti, nello scoprire il potere dei sentimenti nascosti nelle tenebre dentro di sé, attraverso l’avventurosa ricerca dell’identità segreta (definita “origin” nel game online e nel film) di un misterioso giocatore, violento e sfuggente, che si fa chiamare Ryu all’interno di una futuristica realtà virtuale di gaming online (chiamata “U”).

Con l’abituale attenzione che gli anime giapponesi riservano sempre alla rappresentazione anche fantascientifica della tecnologia, viene inoltre mostrato come sia il proprio smartphone a permettere agli utenti l’accesso al mondo virtuale del gioco, attraverso la generazione (che avviene in occasione del primo login) di un avatar individuale, che prende in prestito elementi corporei e biometrici reali dell’utente, abbinandoli ad altre indicazioni aggiuntive impartite appositamente: si assiste in questo modo alla costruzione di nuove sembianze immaginifiche, trasformando il mondo del videogioco in una tangibile seconda vita, tale sia dentro che fuori la virtualizzazione.

Diretto nel 2021 dal maestro Mamoru Hosoda, lo stesso regista che aveva già regalato al mondo tanti capolavori, tra cui è impossibile non citare per lo meno La ragazza che saltava nel tempo (時をかける少女, Toki wo kakeru shōjo, del 2006) e Summer Wars (サマーウォーズ, Samā Wōzu, del 2009), entrambi su character design di Sadamoto, questo Belle (竜とそばかすの姫, Ryu to Sobakasu no Hime, che in originale significa “Ryu e la principessa lentigginosa”), è uno straordinario racconto, meravigliosamente animato (la cura nel dettaglio e nella fluidità dei movimenti umani è davvero fuori scala), con un character design prezioso ed una narrazione che usa le parole immortali dell’amore come rivelazione, attraverso toccanti dialoghi e splendide canzoni e che infine non si vergogna di esibire le lacrime della protagonista, quasi a renderle catarsi ed epifania dei suoi incubi.

Una composizione di scene e disegni che non ha timore di indugiare in momenti di profonda dolcezza, attraversati di colpo dalla rapidità e dalla ferocia, affilata come un coltello, delle parole e del tono dei social network e delle chat online, finalmente portati in scena per ciò che sono realmente, ovvero non solo la cloaca di gelosia, cattiveria e ignoranza degli anonimi haters, sempre pronti a  condannare e sminuire, che certamente sono in buona parte, ma anche l’estrema razionalizzazione di una realtà oggettiva inevitabile ed anzi da controllare per sopravvivere nel consorzio civile.

Tutto questo potrà forse sembrarvi difficile da immaginare ed effettivamente lo è, perché stiamo parlando di un’opera adulta, che corre come uno Shinkansen (anche chiamato “treno proiettile” o “bullet train”, la linea ad alta velocità che attraversa il Giappone) mentre descrive ciò che accade dentro “U” (il mondo virtuale rappresentato dal gioco, dove ci si muove come delle AS) e che scorre invece placido, come una delle carpe disseminate nei tanti ruscelli a bordo delle strade di campagna della prefettura di Kōchi (高知県), nella regione isola di Shikoku, mentre l’occhio dell’animatore e del regista si adagiano a guardare i movimenti dei capelli della protagonista e dei suoi occhi persi nello strazio della memoria o nei brandelli di una vita dissociata, come quella di ogni animo interrotto  o spezzato.

Al pari di tutte le altre grandi opere animate giapponesi, anche Belle viene ricamato sul tessuto quotidiano nipponico, fatto di allarmi terremoto o tsunami, di scuole pubbliche con ragazzi e  ragazze in divisa, dei panorami semplici e pieni di natura della provincia, appena alle pendici dei colossi metropolitani, con interi piani sequenza e scene disegnate in modo da prendere per mano lo spettatore ed accompagnarlo a piedi insieme ai personaggi, mentre in riva ad un canale o nella solitudione di uno scompartimento del treno misurano l’enormità del loro microcosmo emotivo, con un misto di spavento e di speranza.

Se siete abbonati, trovate questo film anche su Netflix, oltre che in altre piattaforme, ma altrimenti cercatelo in rete e non ve ne pentirete.
Buona Visione e Buon Week-end


22 pensieri su ““Belle”: Il Drago e La Principessa Lentigginosa

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  2. Primo forte impatto la grafica: vedo le immagini e sul primo istante penso ad un incrocio tra fotografia e disegno.
    Ryu … per noi del giurassico è impossibile non pensare immediatamente a “il ragazzo delle caverne.”
    Invece leggo tutto il resto come totale poesia.
    L’immagine nottura mi sembra una sorta di impressionismo digitale.
    Il verde (mio colore preferito) viene rappresentato nelle sue splendide declinazioni che, per quanto mi riguarda, coinvolgono fortemente, oltre a rappresentare una forte contrapposizione con il mondo U che tu descrivi.
    GRAZIE per il consiglio!

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  3. Come sempre i tuoi post sono così esaurienti e profondi che spingono sempre a vedere l’oggetto del post, che si tratti di serie, film o anime, come in questo caso. Sicuramente lo cercherò perché la curiosità suscitata è molta, quindi grazie come sempre amico mio, i tuoi post oltre che una guida e un suggerimento sono un arricchimento. Buon fine settimana e buona fiera 😉

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  4. L’ho visto al cinema, da sola. Ero l’unica in sala, è stata un’esperienza magnifica. È un bellissimo film, e se devo trovarci dei difetti, riguardano un finale a cui manca un vero e proprio epilogo e forse un uso non ottimale della cgi. Tutto il resto è bellissimo e ti lascia addosso una sensazione di meraviglia che raramente si riscontra in un film con tematiche del genere.

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      • A me è capitato una sola volta di vedere un film in una sala totalmente vuota a parte me. Tra l’altro il film era appena uscito e io andai a vederlo di Sabato pomeriggio (che è il momento clou di tutta la settimana per i cinema), quindi mai mi sarei aspettato di trovarmi in quella situazione. Il film in questione era “My father Jack”, e non mi spiego perché sia stato totalmente ignorato, perché io l’ho trovato molto divertente.
        Tra l’altro, così come il film da te recensito in questo post ha delle “scene – cartolina” volte a promuovere il turismo nell’isola di Shikoku, allo stesso modo “My father Jack” ha delle scene palesemente studiate per mettere in luce la bellezza del Trentino – Alto Adige (regione in cui è ambientato il film). Ovviamente si tratta di un do ut des: per andare in pari con le spese i film italiani hanno quasi sempre bisogno che una parte del budget venga coperta dai finanziamenti statali, e in cambio di quei soldi lo stato pretende giustamente che all’interno del film ci sia della pubblicità occulta a favore di una località turistica italiana.
        Suppongo che anche in Oriente ci sia lo stesso meccanismo, perché nelle serie tv giapponesi e coreane che ho visto su Netflix ci sono sempre 2 o 3 puntate interamente ambientate in una località di mare. Tra l’altro il motivo per cui i protagonisti della serie tv devono andare lì è sempre chiaramente pretestuoso, quindi è proprio evidente che quelle puntate “vacanziere” sono state inserite non perché fossero essenziali ai fini della trama, ma perché c’era l’intento di promuovere il turismo.
        Nell’unica serie tv thailandese che ho visto invece non c’è nessuna puntata vacanziera. Il motivo è ovvio: come ho spiegato nel mio ultimo post (dedicato proprio alla serie tv in questione), molti thailandesi sono così poveri che non possono permettersi neanche un paio di scarpe, figuriamoci una vacanza. E il bello è che, pur dovendosi accontentare di una vita semplice e priva di lussi, i thailandesi non sono affatto un popolo triste. Al contrario, sono più felici di noi, perché noi occidentali avremo anche tutto il necessario e pure qualcosa di superfluo, ma viviamo in una società egoista in cui se hai un problema ti devi arrangiare da solo; i thailandesi invece proprio perché sono poveri per sopravvivere si aiutano gli uni con gli altri, e quindi vivono in una società così piena di calore umano da far passare totalmente in secondo piano la mancanza di questo o quel comfort.

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        • Un commento di rara bellezza, te lo dico con il cuore, perché hai parlato in modo oggettivo di una modalità di promozione turistica (quindi di marketing) applicata nel cinema e nelle serie televisive, in questo caso animate ma come hai detto tu stesso, è cosa frequentissima in quelle giapponesi e coreane ed io aggiungo anche in quelle turche.
          Va detto tra l’altro che quella della promozione pubblicitaria (di un luogo, un prodotto e persino di un’idea politica ) è cosa vecchia quanto l’industria a dell’intrattenimento culturale: davvero non si contano le presenze di “place product”, alcuni palesi (come gli orologi e le auto di lusso nei film di 007), altri più sottili (marche di sigarette e liquori o bibite) ed altre ancora quasi invisibili malgrado l’enormità dell’investimento (forse l caso più clamoroso è stato l’investimento pubblicitario che Disney fece per promuovere la costruzione e l’apertura di Eurodisney Parigi, per la quale finanziò il film bellissimo Pixar “Ratatouille”.
          Concludo che sarebbe anche stupido scandalizzarsi per tutti questo, primo perché la bellezza è la qualità di un’opera non dipende dalla pubblicità in essa inserita, secondo perché l’arte è da sempre finanziata da mecenati che la usavano per promuovere a volte contesti politici terribili (nessuno ha mai trovato nemmeno per un istante a pensare che l’arte rinascimentale italiana o quella fiamminga fossero in qualche modo svalutabili per essere di fatto composte quasi solo da dipinti e sculture realizzati dagli artisti su commissione (Chiesa, Despoti locali, Ricchi mercanti, a scelta).
          Adoro, amico mio, quando esuli dal puro contesto solo biografico (interessante sempre ma anche limitante) per fare invece panoramiche di ampio respiro in cui le tue disamine vengono dettate dall’osservazione e dalla speculazione, perché lo fai con grande cultura e capacità di analizzare una struttura (cosa che tendo a fare anch’io, malgrado il pericolo insito in questo approccio, che è poi quello di prendere cantonate e di difenderle con convinzione misurando le scarpe con il proprio piede 😅).
          Grazie per il ricchissimo commento!

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            • su questo posso confermarvi con certezza che tutto il mondo ha questa pratica, ma è data da motivi di forza maggiore. Per poter girare all’aperto c’è bisogno di autorizzazioni speciali che vengono gestite dalle agenzie di film commissions. Sono loro, quindi, a dire quando e come si può girare, di conseguenza ne approfittano per sviluppare il “Film Induced Tourism”. Inizialmente fu per caso, per esempio Rocky non ci pensarono proprio, ma dopo l’uscita del film ci fu un incremento di viaggi e si capì che si poteva sfruttare. Per assurdo, funziona anche quando il luogo scelto non combacia con il luogo filmico, creando (in certi rari casi) doppio flusso turistico nelle due mete. Per la Disney tutto iniziò con Lilo e Stitch, decisero di ambientarlo alle Hawaii su richiesta dello stato stesso. On questo caso, il film fu un successo ma il turismo non partì a causa del marketing non corretto. Ma ci riprovarono e con i successivi ce la fecero: Brave per esempio era legato a concorsi legati alla Scozia.

              L’unica “nazione” che sembra non seguire questa linea è la regione intesa come “MittelEuropa”. Lì si basano sulla persona famosa e il turismo non viene indotto dal luogo di per sé ma dal fatto che ci abbia abitato qualcuno.

              Ci ho fatto una tesi su questo argomento che è parecchio affascinante e ha un sacco di implicazioni dietro.

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    • Sull’uso della Cgi, il suo non essere “perfetta”, per me rientra nella modalità produttiva degli anime recenti, mi sempre in movimento ed anche in continua sperimentazione e non pianificata all’inverosimile come quella usata nei film animati nordamericani (basta vedere il modo con cui usa la CGI in Chainsaw Man o Jujutsu Kaisen lo studio più alla moda in Giappone oggi ovvero Mappa, a tratti persino straniante), ma in fin dei conti è in equilibrio con la mancanza di esaustività narrativa dei grandi capolavori nipponici (pensa alla trilogia climatica di Shinkai) e quindi anche per l’epilogo zeppo di ellissi sui personaggi (terribilmente non-occidentale) come Mononoke Hime di Miyazaki.
      Okay, ad ascoltarmi sembra tutto giustificabile, ma penso che ci sia davvero un modo diverso di concepire il “finale” nelle narrazioni televisive e filmiche dei giapponesi, che non si riscontra nemmeno in quelle coreane (dove si preoccupano di raccontarti anche il destino dei personaggi minori).

      Oppure hai semplicemente ragione tu ed io mi sono fatto un bel viaggio mentale…
      Tanta soddisfazione di leggere la tua passione.

      P.S. Comunque a me sono scese le lacrime (di nascosto) quando Suzu canta alla platea oceanica di U dopo che si è svelata la sua origin…

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      • È pieno di scene che mi hanno fatto scendere la lacrimuccia 🥲 anche la prima volta in cui canta è estremamente liberatoria: mettersi la maschera non significa per forza nascondersi, ma anche liberarsi.

        I due problemi che ho riscontrato riguardano principalmente il tempo che viene dato agli animatori, piuttosto che a un fattore prettamente culturale. Spesso non si dà il tempo necessario per terminare l’opera nel migliore dei modi, anche se si potrebbe, per questo spesso non si riesce a nascondere bene la cgi in animazione. Il caso dell’epilogo non è solo una questione culturale, ma anche di esperienza della scrittura. I nostri classici terminano tutti con il termine della storia, ma non parlavo necessariamente di farmi vedere del dopo, ma appunto di quei dieci minuti in cui mi fai accettare che l’opera sia finita. Anche il Dracula di Moffat manca di epilogo, per esempio, anche se lì credo sia dovuto a un voler rimandare alla struttura classica. Non era tanto il dopo a interessarmi, quanto proprio lo scioglimento del climax, l’avviamento alla chiusura, è questo che dovrebbe fare l’epilogo: riportare allo status quo. Ho trovato tutto l’ultimo pezzo troppo veloce rispetto al ritmo del film, come se dovessero chiudere in fretta. Un fatto culturale, per esempio, è più dovuto alla velocità del film: quelli orientali sono molto meno frenetici di solito, quindi l’accelerata finale a me personalmente è parsa molto occidentale, un po’ fuoriluogo rispetto alla calma del primo pezzo, che fu una bella ventata d’aria fresca rispetto ai film frenetici a cui ci stanno abituando. E nonostante questo, non è stato noioso.

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        • Splendida argomentazione, su cui sarebbe bello chiacchierare con te, che non hai paraocchi o idee preconcette ma un gusto estetico allenato: saresti una splendida compagna di parole con cui confrontarsi nel merito e non nello sterile preconcetto, che, insisto, in te e completamente assente.
          Grazie per aver speso tempo e parole sotto al mio post, dico sul serio 😊

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          • Ti ringrazio per le belle parole 😊 in realtà anch’io ho i miei preconcetti, ma cerco di informarmi il più possibile. Sull’animazione ne so un pochino (giusto un ciccino) in più della media e sicuramente di più rispetto ai film in live action, per questo più o meno so a volte dove sta il problema… Anche perché in animazione e videogame è sempre lo stesso: la mancanza di tempo. Non è neanche una questione di mancanza di fondi. In ogni caso, quando ho qualcosa da dire, ho piacere anche io a discutere con te

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            • Molto bello il parallelo dell’industria dei videogame e di quella degli studi di animazione (specie giapponesi) dove la variabile del tempo lasciato a disposizione degli artisti è decisivo (basti pensare a quello che è accaduto con il videogame di Cyberpunk!). Alla prossima allora!

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