Severance / Scissione

Ci sono opere cinematografiche e televisive che vengono scritte e prodotte pensando direttamente alla pancia del pubblico ossia ai suoi bassi istinti, con scene costruite per dargli il massimo appagamento immediato, mostrando ad esempio l’eroe o l’eroina che alla fine della storia risponde per le rime alle angherie subite, prendendo a sberle i cattivi per fargliela pagare, ricevendo ampia giustizia e fortuna dopo aver subito tanta sofferenza, in molti casi mettendo in scena la propria vendetta in modo elaborato oppure violentissimo: tranne alcune perle meravigliose assolutamente da vedere, che usano con furbizia questa modalità di racconto per parlare di tanto altro (un esempio su tutti il crepuscolare ed intimista La mariée était en noir –  La sposa in nero del 1968 di François Truffaut), questi sono in genere film e fiction televisive dove ogni cosa è appositamente eccessiva, dal sesso patinato a personaggi con prodigiose doti fisiche e intellettuali, che ti riempiono gli occhi come i gelati industriali o i panini da fast food fanno con lo stomaco.

Dopo aver creato il franchise e gli script dei primi tre capitoli di John Wick (la creatura cinematografica che ha ridato vita al divo Keanu Reeves), lo sceneggiatore Derek Kolstad ha firmato il copione dello splendido e divertente Nobody – Io sono nessuno del 2021, ennesima variazione sul tema dei revenge movie, che riesce incredibilmente a distinguersi dall’anonimato per una messa in scena portentosa, grazie alla regia del russo Il’ja Najšuller (qui al suo secondo film, dopo il quasi sperimentale ed ipercinetico Hardcore Henry del 2015) e soprattutto alla deliziosa recitazione molto understatement del mai troppo lodato Bob Odenkirk.

Ci sono opere che invece parlano al cuore, ma non per questo più belle delle precedentemente descritte, sia chiaro, che premono con ricercatezza i tasti sensibili delle emozioni più forti e comuni, con storie di abbandono e tradimento o all’opposto di innamoramento e tenerezza, spaziando dal melodramma più banale ai drammi personali e coniugali più raffinati, usando il dolore ed il rimpianto come note sul pentagramma collettivo dell’empatia: è questo probabilmente il gruppo più grande e rappresentativo di tutta la storia della settima arte, a cui fanno parte la maggioranza dei lungometraggi drammatici statunitensi della prima metà del secolo scorso ovvero il periodo della Hollywood classica e divistica (talvolta colorati di trame gialle o belliche o western), il cui modo di raccontare ha certamente dato vita a capolavori immortali, ma che purtroppo nei suoi registri più bassi ha reso possibili  le ripetitive e sciatte telenovelas sudamericane, i drama sentimentali asiatici più semplici e le stupidissime soap opera statunitensi.

Se mai dovessimo immaginare un ipotetico percorso di storia del cinema nordamericano del rapporto di coppia nel momento del suo sgretolamento, senz’altro una tappa essenziale è stato in passato Kramer vs. Kramer, del 1978, scritto e diretto da Robert Benton in adattamento dell’omonimo racconto di Avery Corman, ma il film contemporaneo che a tutti gli effetti si può considerare un vero upgrade culturale del vecchio film con Dustin Hoffman e Meryl Streep è senza dubbio il pregevolissimo Marriage Story – Storia di un matrimonio, scritto e diretto nel 2019 da Noah Baumbach, che ha affidato portentose righe di dialogo a due bravissimi Adam Driver e Scarlett Johansson

Ci sono poi film e fiction che parlano alla nostra morale, che stuzzicano il senso civico ed il desiderio di giustizia, raccontando storie emblematiche di denuncia sociale o ambientale, mostrando sempre la violenza del potere, sia esso di un governo dittatoriale e di uno Stato di polizia contro cittadini inermi , sia anche parlando semplicemente della violenza domestica, quella dell’uomo padre e padrone e del bullo contro il diverso: sono queste opere in cui spesso il loro maggior valore non risiede nello specifico filmico  o nella cura della messa in scena, ma nella potenza del loro messaggio, ma anche in questo caso, tuttavia, con clamorose eccezioni di enorme valore artistico, laddove una storia di arricchimento storico ed etico si è coniugata con una narrazione per immagini magniloquente.

Se il capolavoro spielberghiano di Schindler’s List del 1993 ha regalato alla letteratura concentrazionaria per immagini tutta la potenza di fuoco di un cineasta titanico ed impeccabile anche nei blockbuster miliardari, pennellando la tragedia dell’Olocausto ebraico con un rigore ed una espressività mai raggiunte prima, il film ungherese Saul fia – Il figlio di Saul, scritto e diretto da László Nemes nel 2015, grazie ad un ritmo incalzante nel suo essere tragico e straziante e ad un uso geniale della profondità di campo (con lo sguardo della cinepresa costantemente incollato al protagonista, spesso in primissimo piano e sfuocando talmente tanto lo sfondo da rendere le atrocità che vengono agite nel campo dí concentramento quasi una presenza fantasmatica ma pesantemente incombente), riesce a far provare allo spettatore l’enormità di quanto gli uomini hanno commesso in quegli anni e in quei luoghi e lo fa senza appello o pietà alcuna per il pubblico che assiste senza riuscire a distogliere lo sguardo.

Molto più piccolo e soprattutto meno importante dal punto di vista strategico ed economico (ma forse, proprio per questa sua teorica fragilità finanziaria, anche molto cocciuto e sostenuto da un pubblico di cinefili orgogliosi e consapevoli) è il gruppo dei lungometraggi e delle serie televisive che parlano al nostro cervello, fatte per stimolare l’ingegno con storie e meccanismi narrativi complessi, come avviene con alcune delle più celebri storie gialle e crime ma non solo, anche con storytelling talmente intricati da rendere lo stesso viaggio per la loro comprensione il vero obiettivo del suo narratore: sono opere troppo spesso tacciate di essere ermetiche o inutilmente complesse ma nelle quali in realtà, specie in quelle più riuscite, si tratta solo di trovare il codice che sblocca l’enigma ovvero la cifra interpretativa che fa poi dischiudere completamente il prezioso scrigno dei significati.

Tratto dal romanzo del 2002 O homem duplicado – L’uomo duplicato dello scrittore portoghese José Saramago (chi mi segue da anni sa che è uno dei miei scrittori preferiti di tutti i tempi), il film Enemy del 2013, sceneggiato da Javier Gullón e diretto dal prodigioso Denis Villeneuve, è un film decisamente criptico e persino intelligibile se affrontato secondo i rigorosi canoni logici di consequenzialità, ma che se colto nella sua essenza di critica asprissima verso le convenzioni sociali e se soprattutto viene filtrato dalle teorie freudiane di un Es represso dal proprio Super Io, si disvela in tutta la sua natura di poetica del doppio.

Infine c’è il piccolo e prezioso mondo delle opere che parlano al nostro inconscio, usando in alcuni casi persino fallacie logiche ed un’alterazione del rapporto di causa ed effetto che tanto piace al nostro cervello nei momenti di veglia, preferendo invece muoversi per simpatie ed accordature simili a quelle che viviamo nei sogni, in cui la verità non si comprende, ma la si intuisce soltanto: sono in assoluto le opere che io personalmente preferisco, più simili alla poesia che non alla prosa, nelle quali mi posso abbandonare ad un flusso di sensazioni ed intuizioni difficilmente riassumibili, pena un travisamento completo delle intenzioni del loro creatore.

Quello specifico tipo di miraggio, che a volte è possibile vedere in una fascia ristretta sopra l’orizzonte, fatto di sagome simili a costruzioni di fantastici edifici ed alte torri, anticamente attribuito alla fata di origine celtiche che influenzava i marinai con le sue visioni, viene chiamato anche all’estero con il nome italiano di Fata Morgana, in considerazione del fatto che da secoli viene osservato con una certa frequenza sullo stretto di Messina, sopra il mare tra la Calabria e la Sicilia: il nome di questo particolarissimo miraggio è anche il titolo di uno dei più famosi lungometraggi del cinema d’autore europeo, scritto e diretto dal regista tedesco Werner Herzog, che nel 1970 volle creare questo film per usare le immagini del deserto come simulacro per descrivere l’ultima spiaggia dell’umanità, assemblando sequenze di povertà umana, personaggi bizzarri, disagio e macerie del passato colonialista, negando qualsiasi filo narrativo sequenziale, ma al contempo fingendo di crearne uno (tanto che il film è persino diviso in capitoli dai nomi biblici ed altisonanti) ed a suo modo incredibilmente metaforico, come potrebbe esserlo una distopia fantascientifica.

I film e le serie televisive di questo ultimo gruppo rischierebbero ogni volta di non essere nemmeno prodotte, perché sono in teoria difficilmente spendibili per un pubblico sufficientemente vasto da poter ripagarne i costi: per questo motivo, le opere di tale tipo sono sempre costruite con una base narrativa che lo spettatore possa riconoscere, accompagnandolo per mano attraverso un corridoio di immagini e situazioni familiari e facilmente distinguibili, per poi finalmente, quando questi si convince di aver cominciato a comprendere il meccanismo narrativo, spiazzandolo con l’esibizione della propria vera essenza poetica, con vere e proprie epifanie di significato non completamente traducibili in concetti lineari e prosaici.

Ideato, scritto e diretto da David Lynch nel 2001, Mulholland Drive è per la maggioranza dei critici il miglior film di tutto il 21° Secolo, mentre per una buona parte del pubblico ed anche per una piccola parte dei recensori è solo un incomprensibile fuffa senza capo né coda: questa incredibile differenza di giudizio non è basata su problemi di recitazione (Naomi Watts e Laura Harring, nei panni delle due protagoniste, sono assolutamente strepitose ed indimenticabili) o su divergenze di valutazione riguardo la regia, la fotografia, la colonna sonora (ancora una volta pennellata dal grandissimo Angelo Badalamenti), ma è principalmente dovuta alla frustrazione di chi, avvicinandosi per la prima volta a quest’opera, pensa di assistere ad una storia noir o horror o semplicemente thriller, magari molto complessa ma in ogni caso decodificabile e invece si ritrova in un viaggio assolutamente onirico ed ipnotico, in cui tutte le trame e le sotto-trame possibili vengono progressivamente scartate durante la narrazione, fino ad arrivare alla distruzione e successiva ricomposizione degli stessi personaggi, con sequenze palesemente di sogno e come tali collegate tra loro solo con legami non logici, in contrasto con frammenti di realtà ed altri sogni ancora, con un finale che sublima il concetto stesso di perfetta incompletezza e dove la vera spiegazione è solo un miraggio.

La serie televisiva Severance – Scissione, a cui questo post è dedicato, appartiene decisamente a quest’ultima schiera dorata di prodotti di intrattenimento culturale: infatti, malgrado la storia raccontata nei nove episodi della prima e per ora unica stagione venga scandita dal progressivo dipanarsi di un segreto aziendale dai densi significati metaforici e facilmente comprensibili, la vera natura di questa fiction resta fino alla fine tutta nelle immagini raffinatissime e nei geniali piani sequenza, con cui la cinepresa fotografa i personaggi andare avanti indietro per i corridoi bianchi e labirintici di una struttura aziendale (che sembra a tutti gli effetti un cervello), nonché nell’apposito indugiare su descrizioni spesso bizzarre di rituali di gratificazione lavorativa solo apparentemente logici ed in realtà quasi sempre insondabili ed infine nella descrizione dell’impalpabile gerarchia di un potere amministrativo i cui contorni sembrano sfumare nel metafisico.

In Severance, al primo livello della struttura dirigenziale della Lumon, troviamo Patricia Arquette nel ruolo di Harmony Cobel, Direttore Operativo Dipartimentale e Tramell Tillman in quello del manager Seth Milchick

Questo piccolo gioiello televisiv fu concepito dallo scrittore Dan Erickson, che ebbe anche la felice idea di sottoporre il suo soggetto ad un vero genio, a mio avviso, della cinematografia statunitense come Ben Stiller (chi pensa che lui sia soltanto l’interprete di commedie di successo, come There’s Something About Mary – Tutti pazzi per Mary o il regista ed attore di parodie demenziali come Zoolander, non conosce evidentemente il resto del suo lavoro come scrittore e produttore, tra cui senza dubbio spicca l’imperdibile e consigliatissimo The Secret Life of Walter Mitty – I sogni segreti di Walter Mitty), il quale decise subito di produrre la serie televisiva, accettando anche di dirigere 6 dei 9 episodi (gli altri tre hanno come regista la talentuosissima cineasta irlandese Aoife McArdle): la casa di produzione di Stiller si appoggiò infine all’eccellente piattaforma di streaming di Apple TV, a mio avviso quella fra tutte che ha il maggiore valore contenutistico di film e serie televisive offerte, ma anche pressoché priva di titoli di grandissimo appeal (come possono essere uno Stranger Things per Netflix, una fiction Marvel e Star Wars per Disney plus o una The Boys per Amazon Prime), tanto che essa è quasi sempre una seconda opzione di abbonamento, acquistata da chi ne ha già almeno un altro ad uno dei servizi prima citati.

Severance, la nuova impiegata Helly entra a far parte del dipartimento Macrodata Refinement

Ogni singolo episodio di Severance ruota attorno ad un dipartimento sperimentale della multinazionale Lumon Industries, dove lavorano degli addetti che, per vari motivi personali, hanno accettato di farsi volontariamente impiantare chirurgicamente un chip radio-controllato, in grado di separare in modo netto ed impermeabile la memoria e la consapevolezza di ciascuno individuo da un determinato momento ad un altro, come un circuito che si apre e si chiude, creando di fatto due individui distinti nello stesso corpo, che conducono esistenze separate in momenti separati: ad ogni dipendente è stato spiegato il funzionamento di tale pratica ed entrambe le loro coscienze sanno dell’esistenza dell’altro loro, ma non possono sapere null’altro e per questo viene fatto loro preciso impedimento di mandare al proprio alter ego messaggi di qualsiasi tipo: ogni cosa è rigorosamente controllata, prima e dopo il varco dell’ufficio, dai testi vocali, a quelli scritti ed il sistema di controllo studiato dalla Lumon tiene conto persino di eventuali tatuaggi usati per comunicare di nascosto tra i due sé.

Nel cast di Severance anche due titani della recitazione quali John Turturro (nei panni di Irving Bailiff, del dipartimento Macrodata Refinement) e Christopher Walken (nelle vesti di Burt Goodman, capo dipartimento Optics and Design)

Ogni mattina i dipendenti che sono stati sottoposti alla pratica definita appunto “severance” (scissione), non appena si chiudono le porte dell’ascensore di servizio che li porta al loro reparto, dimenticano all’istante chi erano prima di entrare e tutto quello che fanno nella vita fuori dell’azienda (hanno anche orari scaglionati di entrata ed uscita dai turni, per evitare che si possano incontrare anche solo casualmente); allo stesso modo, quando la sera, finito il proprio turno, escono dal medesimo ascensore per tornare alle loro vite, dimenticano di colpo cosa hanno fatto al lavoro, ritrovando intatta la memoria lasciata prima di entrare.

In Severance viene descritto come la Lumon Industries sia molto interessata al mantenimento di un corretto equilibrio psico-fisico dei suoi dipendenti, incoraggiandoli nel raggiungimento dei loro obiettivi di lavoro con numerosi benefit (alcuni di questi davvero bizzarri o ridicoli) e premi produzione, tra cui non di rado c’è il diritto di usufruire di una speciale sessione di rilassamento nella wellness room, gestita da una dipendente chiamata semplicemente Miss Casey (interpretata dall’attrice Dichen Lachman)

Come chiunque può immaginare, le implicazioni di tutto questo sono molteplici ed anche le possibili applicazioni di politica sociale, ma non ho intenzione di parlarne, perché la trama dell’intera stagione, una volta fatta la premessa iniziale, si costruisce proprio nell’esplorazione di tutto ciò e quindi rischierei di rovinare l’esperienza di visione: preferisco invece ancora una volta sottolineare lo straordinario e ricercato linguaggio usato per raccontare questa storia, giocato su una splendida fotografia ed una scenografia degli ambienti interni ai vari reparti (il cui vero numero ed il significato del lavoro in essi svolto è misterioso e sconosciuto ai singoli dipendenti) piena di rimandi alla storia del design industriale, tanto da creare il tessuto visivo con cui sembra cucita una realtà all’apparenza parallela a quella vera, ma in realtà per l’appunto solo scissa.

Severance, l’area denominata Perpetuity Wing, costruita all’interno del piano interrato della Scissione, usata come museo e zona ricreativa, con le mostre permanenti delle statue dei vecchi e nuovi amministratori delegati delle Lumon Industries ed una riproduzione in dimensioni reali della casa del fondatore dell’azienda Kier Eagan

Nella sequenza mostrata dalla clip seguente, tratta dai primissimi minuti del primo episodio, si può osservare il protagonista Mark Scout (interpretato da un applauditissimo Adam Scott) nell’istante in cui, entrando al lavoro la mattina con l’ascensore di servizio, subisce da remoto il trattamento di scissione, dimenticando così il mondo esterno e diventando l’altro se stesso che si trova dentro gli uffici della Lumon: segue quindi una lunghissima sequenza, senza un reale significato narrativo ma soltanto empatico, del character che attraversa corridoi tutti uguali, privi di qualsiasi punto di riferimento, seguendo un percorso invisibile a chi non ha evidentemente memorizzato prima ogni svolta da compiere, fino ad arrivare alla scrivania del suo ufficio; la clip ha anche lo scopo di presentarvi uno dei brani davvero speciali della stupenda colonna sonora composta dal musicista Theodore Shapiro, che qui si diverte a citare e rielaborare un classico motivo di easy-listening del secolo scorso, in quel sottogenere musicale del jazz anche definito popolarmente “musica da ascensore”.

Prima di lasciarvi, vorrei tornare un’ultima sul concetto di Severance come di serie televisiva che parla all’inconscio: esiste chiaramente una vicenda che, come dicevo all’inizio, si disvela progressivamente allo spettatore, con anche importanti colpi di scena e plot twist che danno alla visione un ritmo assolutamente mai stancante o ripetitivo, ma stiamo davvero parlando solo di uno dei possibili livelli di lettura della fiction, giacché basta mettere in pausa un attimo il proprio bisogno di logicità e concretezza per riuscire a cogliere ein ogni passaggio la poesia nascosta delle varie situazioni, come esemplificato benissimo nella clip seguente, dove il personaggio di Helly (interpretato dall’attrice Britt Lower) appena arrivata nell’ufficio capitanato da Mark e denominato Macrodata Refinement, sta finalmente per concludere il suo primo compito, consistente nell’identificare misteriosissimi numeri definiti dai colleghi come “spaventosi” (senza aggiungere alcuna altra spiegazione) ed imprigionarli virtualmente in una scatola sul fondo dello schermo (attività che come potete bene immaginare non esiste nella vita reale in alcun posto al mondo).

Amche per questa volta, è davvero tutto: spero con tutto il cuore che possiate trovare in giro per il web questa serie e che ve la possiate godere fino all’ultimo minuto!

Buona serata e buon week-end!


Bonus Track

Come parte di un’arguta ed azzeccata campagna di marketing, Apple Tv ha deciso per promuovere questa serie di creare anche un sito web a nome delle fittizie Lumon Industries, dove è presente, insieme ad altre informazioni sul cast e sulla trama, anche un link da cui iniziare una propria sessione di benessere.

Inoltre, sul canale YouTube delle Lumon Industries, è possibile ascoltare un video di 8 ore con la musica rilassante che i personaggi della fiction ascoltano durante le loro sedute nella wellness room:


36 pensieri su “Severance / Scissione

  1. Pingback: Severance / Scissione [Re-Blog] – Come cerchi nell'acqua

    • Ah, amica mia, da quel che ti conosco sono certo che ti piacerebbe, perché non è banale, mai scontata ed incredibilmente con un gran ritmo!
      Mi dispiace solo di non poterti fornire copie degli episodi, perché ho usato il coupon che Will Smith aveva lasciato sul suo profilo Instagram per ottenere 2 mesi di abbonamento gratuito ad Apple TV (che tra l’altro ho saputo solo grazie ad una risposta di PizzaDog ad un mio commento) e così me lo sono guardato in streaming…
      Grazie della stima!!!

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  2. Quando hai parlato della Hollywood classica e divistica mi hai fatto tornare in mente una miniserie tv che ho visto su Netflix proprio questo mese, e intitolata semplicemente Hollywood. L’ho trovata molto ben fatta, perché ha una storia coinvolgente, ci sono tanti ottimi personaggi (compresi quelli di contorno) e non ha mai un momento di noia: ho apprezzato soprattutto quest’ultimo aspetto, perché i momenti morti si trovano spesso anche in un film di 2 ore, figuriamoci in una miniserie di 7 puntate.
    Hollywood oltre che coinvolgente è anche istruttiva, perché guardandola vieni a conoscenza di quanti intrighi ci siano dietro la produzione di un film, e di quanto sia difficile mandarlo in porto nonostante tutti gli intoppi assolutamente imprevedibili che nascono dal momento in cui viene finanziato al giorno in cui viene distribuito nei cinema. Perfino al termine delle riprese non puoi tirare un sospiro di sollievo e credere di avercela fatta, perché uno dei tanti produttori che hanno investito nel tuo film potrebbe decidere di chiudersi in sala montaggio, tagliuzzare senza alcun criterio le scene che hai girato e rovinare completamente la tua opera.
    Tutto questo non succedeva solo nella Hollywood classica: anche in seguito gli artisti di qualsiasi tipo (fossero essi registi, attori o sceneggiatori) hanno sempre dovuto lottare con tutte le loro forze per mandare in porto il loro film. Questo l’ho capito guardando (sempre su Netflix) una serie di documentari intitolata “I film della nostra infanzia”. Per farti un esempio, Forrest Gump e Pretty Woman hanno rischiato seriamente di rimanere per sempre una sceneggiatura in uno scatolone, e anche dopo che il progetto è stato approvato ci sono stati tanti momenti di svolta che, se fossero andati in modo anche solo leggermente diverso, avrebbero trasformato un capolavoro in una merdaccia fetida e inguardabile.
    Guardando “I film della nostra infanzia” mi è venuto da pensare che almeno nel caso di Forrest Gump e di Pretty Woman ne è valsa la pena di affrontare tutti quegli ostacoli, perché alla fine entrambi i film sono stati un successone. Ma pensa a tutti quei film che hanno causato gli stessi problemi e le stesse angosce a coloro che ci hanno lavorato, e che alla fine hanno fatto pure flop. A questo proposito mi vengono in mente soprattutto 2 esempi: L’eccezione alla regola e Sognando a New York – In the Heights.
    Il primo è un progetto a cui Warren Beatty ha lavorato per più di 40 anni, e che sembrava destinato a non realizzarsi più quando nel 2011 la Paramount (che in un primo momento aveva deciso di finanziarlo) decise di non farne più di nulla. Invece nel 2014 Warren Beatty riuscì a convincere la New Regency Pictures a dargli un budget di 25 milioni di dollari, e quindi ha potuto finalmente girarlo. Tuttavia, esattamente come nella miniserie Hollywood, la fine delle riprese non significò la fine dei problemi: infatti la New Regency Pictures tenne il film nel cassetto addirittura fino al 23 Novembre 2016, e quando lo fece uscire scelse il peggior fine settimana possibile. Nello stesso giorno infatti uscivano altri 2 film molto più grossi: Oceania e Allied. In pratica gli adulti con figli andarono a vedere l’ultimo film della Disney, gli adulti senza figli andarono a vedere l’ultimo film di Brad Pitt e L’eccezione alla regola non se lo filò nessuno. Ha incassato 3,7 milioni negli Stati Uniti e 0,2 nel resto del mondo (perché tutti gli altri paesi, dopo il megaflop domestico, preferirono non importarlo o distribuirlo direttamente in streaming).
    Anche Sognando a New York – In the Heights ha avuto una gestazione travagliata. Inizialmente era un musical, e non aveva neanche chissà quali pretese, perché debuttò in un teatro qualunque del Connecticut, non certo a Broadway. Tuttavia, quel musical era talmente bello che partendo da un contesto così piccolo riuscì a compiere un’ascesa inarrestabile: dal Connecticut arrivò ai teatri di Off – Broadway, poi a quelli di Broadway, poi fu candidato ai Tony Awards e vinse il premio più importante, quello per il miglior musical. A quel punto venne spontaneo dire: Facciamone un film.
    La prima a pensarci fu la Universal, che nel 2008 stanziò per il film 37 milioni; poi sorsero delle divergenze tra lei e il regista che aveva scelto (Kenny Ortega), perché la Universal voleva che la protagonista femminile fosse una superstar come Jennifer Lopez, il regista invece avrebbe preferito un cast composto totalmente da attori sconosciuti. A quel punto la Universal avrebbe potuto sostituire il regista e continuare il progetto con un altro, invece si stufò e decise di cancellarlo del tutto.
    Nel 2016 l’autore del musical (Lin – Manuel Miranda) riuscì a trovare un altro produttore per il film. Peccato che il produttore in questione fosse Harvey Weinstein: l’anno successivo lo scandalo sessuale che l’ha travolto fece colare a picco tutti i film che aveva in lavorazione, compreso Sognando a New York – In the Heights.
    Per fortuna Lin – Manuel Miranda riuscì a trovare subito un terzo produttore, la Warner Bros. Tra l’altro il produttore in questione fu molto generoso, perché la Universal gli avrebbe concesso un budget di 37 milioni, la Warner Bros invece gliene dette addirittura 55. Nel 2019 finalmente il film fu girato, e nel 2020 avrebbe dovuto uscire. Invece è arrivato il covid, che ha fatto slittare l’uscita del film fino al 2021. E quando alla fine è uscito non se l’è filato quasi nessuno: un po’ perché nel 2021 non eravamo totalmente fuori dalla pandemia e quindi la gente evitava le uscite non necessarie, un po’ perché a quel punto si era già radicata la tendenza del pubblico ad andare in sala soltanto per vedere cinecomics e affini (e aspettare l’uscita in streaming per tutti gli altri film). Alla fine di quei 55 milioni la Warner Bros ne ha visti solo 45, e deve pure ringraziare Iddio che sia andata così, perché oggi per un film senza supereroi qualsiasi incasso superiore ai 15 milioni è un vero miracolo.
    Sognando a New York – In the Heights avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio per una nuova attrice davvero deliziosa, Melissa Barrera. Aveva la dolcezza necessaria per diventare la nuova Julia Roberts o la nuova Meg Ryan. Invece dopo il flop di questo film ha lavorato soltanto come scream queen in degli horror di mezza tacca: certo, sempre meglio lei di tante aspiranti attrici che finiscono a lavorare come cameriera in un diner o addirittura come prostituta, ma il ruolo della scream queen non potrebbe essere più lontano dai film in cui dovrebbe recitare.
    I 2 film che ti ho citato non sono belli, sono magnifici. La mia speranza è che un domani vengano rivalutati, e ripaghino così le fatiche enormi di chi li ha realizzati. Magari quando morirà Warren Beatty un influencer con milioni di followers andrà a vedere il suo ultimo film, ne parlerà bene in una sua storia Instagram e lo farà diventare per qualche giorno il film più visto su Netflix. Magari un domani uno degli attori di Sognando a New York – In the Heights diventerà un divo, e quindi i suoi fan andranno in massa a riscoprire questo suo vecchio film per vedere se già allora si poteva intuire il grande futuro che avrebbe avuto. Nel frattempo io cerco nel mio piccolo di rendere giustizia a questi 2 capolavori ingiustamente ignorati, pubblicizzandoli ogni volta che posso. Spero che qualcuno legga questo commento, e decida di passare la sua Domenica guardando almeno uno dei 2 film in questione: sono convinto che non se ne pentirebbe.

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    • Mamma mia Wwayne, hai praticamente scritto le recensioni di due lungometraggi in un solo commento!!
      Anzi, a dirla tutta, queste due recensioni sono persino più lunghe di molti tuoi post…
      Caro amico, soprattutto hai mostrato una preparazione notevolissima sulle singole opere, ma questo non dovrebbe stupire né me né chiunque ti conosca bene, perché tu in realtà approfondisci quasi sempre la storia produttiva di un film quando ti avvicini ad esso, con una cura che spesso tieni nascosta e che non fai sempre trapelare nei tuoi post, lasciando spazio in quel caso a note biografiche ed aneddoti di vita vera, che per altro sono la chiave del tuo successo…
      Non c’è niente da fare, tu il cinema lo ami davvero e sono felice di aver di fatto questa ospitato queste tue due recensioni, inattese e gradite ed anch’io mi auguro che chi passerà di qua noterà questo commento e cercherà quei due film, magari proprio perché rimasto affascinato dalla tua oratoria!
      Buona serata e buona domenica

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  3. Davvero molto molto interessante, come ogni cosa che riguarda la mente in effetti, per me.
    A parte il fatto che già solo l’idea di poter chiudere qualcosa di spaventoso, che siano numeri o altro, in una scatola è vicente per me, ovviamente mi incuriosisce molto l’attività di questa azienda (che non può essere nulla di buono) e il percorso attraverso il quale qualcuno può arrivare ad accettare di scindersi.
    Per qualche verso questo pensiero mi riporta a Eternal Sunshine of the Spotless Mind perché su due piedi direi che l’unico motivo per non voler ricordare è evitare e sperare di smettere di soffrire … vana illusione però.
    Il corridoio è spaventoso tendente ai livelli di Shining, io ci ho visto il nulla, ma so di essere un caso patologico …

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  4. Bellissimo pezzo Kasa come sempre! Tra l’altro hai nominato una serie di opere che mi hanno fatto entrare in brodo di giuggiole, in particolare Storia di un Matrimonio di Baumbach di cui ho visto l’altro giorno la sua ultima fatica (letteralmente) White Noise, che spero tu abbia già recuperato!
    Venendo al protagonista del post, Severance, ricordo di averne sentito parlare in un podcast e di esserne rimasto affascinato già solo dalla premessa (come spesso accade per i prodotti Apple Tv+, belle premesse per serie che non vengono minimamente pubblicizzate…). Inutile dire che è finito diritto nella mia watchlist che, al momento come sai vede in cima i prodotti di Apple TV prima che mi scada l’abbonamento XD
    Finito The Afterparty e recuperando in questi giorni il bellissimo Foundation e soprattutto Ted Lasso (che viene da sempre osannata…e ora capisco il perché) Severance è il prossimo della lista.
    Ovviamente una volta finito tornerò qua a commentare meglio il tuo post (la seconda parte l’ho saltata, sorry. Non che abbia timore degli spoiler ma vorrei arrivarci il più “vergine” possibile. Capiscimi 😀 ).

    Ci si sente quindi tra qualche giorno amico mio!

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    • Sono molto felice che tu sia riuscito a trovare il tempo per passare di qua e non lo dico tanto per dire: sai bene quanto affetto provi per te, in nome dei vecchi tempi in cui i nostri scambi erano più frequenti, così come non ho mai fatto mistero della stima che ho per te e per il tuo modo di approcciarti ai prodotti di intrattenimento culturale, anche ora che ne parli più su Instagram (dei social parleremo più avanti), ma la tua lettura odierna del mio post è ancora più importante perché molto probabilmente questo era il mio ultimo post su WordPress scritto con questa modalità.
      Non sto lasciando ne il mio blog personale ne la mia partecipazione a quello ha gestisco in tandem con Silvia su Come Cerchi nell’Acqua, ma parlo solo della modalità di scrittura ed impaginazione delle mie condivisioni…
      Già da tempo ho abbandonato Facebook, che quindi tolgo dall’equazione e non faccio mai video in cui parlo di faccia, perciò la scelta delle mie condivisioni si restringe a tre soluzioni che porterò avanti contemporaneamente.

      La prima sarà ancora WordPress, come appunto piattaforma di blogging, in cui continuerò a scrivere con la modalità del saggio didattico ma dimezzando la lunghezza dei testi (in questo caso ad esempio avrei tolto tutta la parte storica iniziale e le foto e le didascalie): questo sarà il mio testo base, da cui poi attingerò per i due social.

      La seconda sarà TikTok, dove continuerò a produrre clip in cui abbino un video ed un testo (il lavoro fatto per Euphoria mi ha ripagato con una visibilità enorme)

      Il terzo sarà Instagram, social molto in voga ma anche molto “ingessato” ed a mio giudizio destinato ad essere sostituito da qualcos’altro a breve (non da TikTok che già viene da Instagram e YouTube imitato a bestia con l’introduzione dei Reel e degli Shorts, ma proprio con un nuovo social che ancora non ho visto): qui posterò una foto ed un testo, in modo simile a ciò che ho fatto fino ad ora (e che non farò più) sui miei post elefantiaci su WordPress; inoltre per un po’ userò Instagram come mirroring di TikTok pubblicando i video fatti là.

      Quindi, non so quando inizierò a fare tutto questo ma di certo questo su Severance è l’ultimo mio post così lungo!!

      Ci si vede sul web, con stima ed affetto!

      P.S. White Noise vera bomba!
      P.P.S. Foundation per me molto bello ma altalenante
      P.P.P.S. Ted Lasso capolavoro e lo urlo da una vita!!
      P.P.P.P.S. La seconda di The Last of Us è immensa!! Amo il suo sceneggiatore, ho amato il gioco (primo e secondo capitolo) ed amo HBO
      P.P.P.P.P.S. Tulsa King procede più sornione di altri lavori di Sheridan ma con lo stesso meccanismo: due oggetti narrativi che arrivano da molto lontano in rotta di collisione (mi gioco qualcosa che questa definizione me la ruberanno, dato che l’ho già scritta su alcune chat di Twitch) e quando si scontrano è un vero spettacolo; in TK, la partenza è stata debole, silenziosa, semplicistica, ma era un trucco perché stava montando la tensione e quando nella puntata 5 i due oggetti narrativi si sono scontrati la serie si è capovolta come nelle puntate finali di ogni stagione di Yellowstone.

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      • Carissimo, mi spiace in parte sapere che abbandonerai la tua solita modalità di scrittura (che posso immaginare possa spaventare qualcuno vista la lunghezza dei testi ma allo stesso tempo risultava una vera gioia per chi era veramente interessato e ci teneva a leggerti…come il sotto scritto ovviamente) ma allo stesso tempo appoggio ogni tipo di cambiamento ed evoluzione. Se non fosse per la mutabilità del web staremmo ancora scrivendo MySpace.

        Io devo dire di trovarmi bene con IG, ha il limite del numero di caratteri che mi fa impazzire ogni volta (non ti dico le bestemmie) ma allo stesso tempo mi spinge a scrivere “meglio” e andare dritto su certi concetti (in fondo i social sono anche quello, fruibilità rapida…infatti non sai quanto odi il fatto che abbiano allungato il tempo delle stories, secondo me 15 sec era il tempo perfetto). Facebook ormai l’ho abbandonato anche io (lo tengo attivo solo per il parentato e per quelle 2/3 pagine che sono ancora solo lì) e Tik Tok…bè dovrei decidermi a farlo prima o poi. La tua presenza ovviamente mi invoglia ancora di più ad entrarci 🙂
        Per il resto ti auguro il meglio ovunque tu decida di scrivere e in generale esprimerti, sai bene la stima che ho anche io verso di te (anche se non ho tempo di leggere un articolo me lo salvo per poi tornarci e dedicarci il tempo che merita) e finché continuerai a farlo io ci sarò! 😀

        PS: White Noise, mindblowing. Scriverò due righe prossimamente!
        PPS: Foundation sono ancora all’inizio ma anche solo la messa in scena e gli effetti visivi…MADONNA!
        PPPS: Ted Lasso capolavoro vero, poco alla volte sta scalando la classifica delle mie serie del cuore;
        PPPPS: argh sono in ritardissimo, ho ancora lì la prima da vedere! Una di queste sere me le sparo una dopo l’altra!
        PPPPPS: Tulsa King è in lista. In parte per Sly ma soprattutto per Sheridan, responsabile di alcune delle mie sceneggiature preferite degli ultimi anni (Soldado, Sicario, Windriver, Hell or High Water, Senza Rimorso…wow).

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  5. Con sommo ritardo Kasabake ho letto il tuo lunghissimo post ringraziando esista ancora qualcuno che utilizza WordPress a dovere e non come Instagram (😈). E tu dirai: e tu? E io ti dirò, è già tanto se posto ogni tanto qualche avanzo di tempo per non ritrovarmi intasata di stupide mail (un giorno dirò cosa penso perché ce l’ho lì lì….)
    In ritardo perché con la febbre non me la sono sentita di leggere per bene e rispondere a dovere, come va fatto quando si legge un post così ricco. Che dirti…..sai che non lo so? Sto guardando poche serie TV, anzi sto poco davanti alla TV ma certamente segno quanto hai suggerito perché sono certa che merita attenzione.

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  6. Ero già pronto a scrivere il mio pippone non richiesto e nemmeno troppo collegato al tuo post (ormai mi conosci) e anzi già avevo un paio di concetti in punta di penna, pronti per essere sparati a caso con la consapevolezza tu (probabilmente SOLO tu) li avresti compresi ed apprezzati.
    Poi però ho fatto una cosa che ultimamente faccio di rado, ovvero leggere tutti i commenti, e così mi sono imbattuto in questo:

    La prima sarà ancora WordPress, come appunto piattaforma di blogging, in cui continuerò a scrivere con la modalità del saggio didattico ma dimezzando la lunghezza dei testi (in questo caso ad esempio avrei tolto tutta la parte storica iniziale e le foto e le didascalie): questo sarà il mio testo base, da cui poi attingerò per i due social.

    Mi si è bloccata la digestione, giuro.
    Potrei citare anche qualche articolo ermenautico per ammonirti e ricordarti che, semplicemente, non puoi essere sintetico o ermetico, magari criptico, ma comunque prolisso perchè come sai la logorrea non è una malattia ma una benedizione.

    Poi però, nonostante la digestione bloccata, mi è scappato un sorriso, forse sarebbe più corretto definirlo “smorfia di consapevolezza” ma mi piace immaginare che se il monitor del PC avesse occhi e coscienza lo avrebbe catalogato come sorriso, perchè “fare un sorriso” ha un’accezione positiva, mentre “fare una smorfia” solitamente no.

    Se la natura umana non avesse mai avvertito il bisogno di provare a cambiare per migliorare, ancora vivremmo nelle caverne, parleremmo solo con i gesti e aspetteremmo che un fulmine colpisse un albero per avere il fuoco.
    Il desiderio di scoprire per poi capire è uno dei motori più potenti che esistano ed è ammirevole che tu senta il bisogno di assecondarlo: in questo genere di divulgazione (perchè te l’ho detto tante volte, tu non sei un blogger, tu sei un divulgatore) sei un campione impareggiabile, pertanto potresti perseguire questo standard gustandoti gli osanna (i miei per primi, sempre) e continuando probabilmente senza neppure troppa fatica a sfornare riflessioni e recensioni che potrebbero essere lo spunto per un’intera enciclopedia.

    E’ per questo che la tua decisione di esplorare altro per tradurre le tue conoscenze e le tue riflessioni in un lunguaggio nuovo, ti fa onore e ancora una volta mi ricorda perchè la mia stima per te come blogger, come intellettuale e (soprattutto) come persona è praticamente illimitata.

    In bocca al lupo, fratello ermenauta, perchè so già che qualunque viaggio tu voglia intraprendere, merita di essere intrapreso.

    PS: Scissione l’ho finita proprio oggi, è una figata pazzesca (come hai spiegato tu in maniera più aulica), ma francamente è una questione secondaria rispetto al tutto il resto che sentivo il bisogno di dirti 🙂

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    • Normalmente dedico il tempo libero che ho dopo cena per rispondere a messaggi importanti come questo, che riguardano non solo un generoso apprezzamento e tanta stima nei miei confronti, ma il modo da me annunciato con cui ho intenzione di modificare l’approccio che ho nelle pubblicazioni delle mie condivisioni: sento infatti la necessità di fare una precisazione.

      Come ho già scritto a PizzaDog e a Silvia, non ho alcuna intenzione di cambiare il mio stile di scrittura (con le mie parentesi, i miei inciso, la mia notoria prolissità e conseguente logorrea), ma vorrei solo applicarlo in modo più organico.
      Da tempo, infatti, avevo preso l’abitudine di creare nelle mie recensioni dei lunghi preamboli (incredibilmente molto più lunghi di quelli che facevo in passato) ed oltretutto avevo cominciato ad infarcire ed appesantire i testi delle recensioni con didascalie, alle singole foto di film e fiction da me selezionati come esempi di quello che stavo scrivendo, sempre più corpose, tanto da diventare ognuna una micro recensione di qualcosa: il risultato finale di questo stile di scrittura, confrontandomi a posteriori con chi mi legge e mi commenta, non è stato quello che speravo e l’unica cosa che ho ottenuto da questa stratificazione di post e note aggiuntive è stato un ancora maggiore distacco in chi legge dall’oggetto del mio testo.

      Ora, considerando che normalmente il “ditolunismo” (adoro questo sporco neologismo, che fa riferimento all’abitudine di alcune persone che quando ascoltano un intervento altrui si soffermano soltanto su una parte periferica di ciò che è stato detto e saltano completamente l’oggetto del discorso, come coloro che quando vedono qualcuno indicare la luna si soffermano a guardare il dito e non la luna) è un vizio che solo in parte è giustificato dalla voglia di conversare anche di altro (quello squisito andare OT tipico degli ermenàuti, ma che in coloro che sono veramente tali è una aggiunta al commento e non l’unica cosa detta nel commento nella sua interezza, altrimenti diventa egocentrismo), ma spesso manifesta una certa maleducazione o noia in chi legge, ho pensato di tornare ad uno stile più asciutto, scrivendo recensioni senza preamboli che potrebbero essere, per lunghezza ed importanza, dei post paralleli; inoltre le mini-recensioni che già scrivo per le didascalie delle immagini diventerebbero delle vere recensioni, accompagnatrici di video-post.

      Insomma, fratello, io continuerò a scrivere nello stesso mio solito modo, ma poi “spacchetterò” il tutto in varie forme…
      Parafrasando un classico adagio marchigiano, diciamo che dei post del blogger Kasabake si fa come con il maiale: non si butta via niente!

      Grazie ancora davvero delle bellissime parole che hai scritto, di plauso ed incoraggiamento a continuare!!

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  7. Ogni elogio allo stile ed al contenuto mi pare superfluo, vista l’altissima qualità di entrambi. Fresco di abbonamento (in prova) di Apple TV mi hai dato lo spunto per la mia prossima serie. Ho appena terminato Ted Lasso (una full immersion di due settimane) e visionato (purtroppo) la prima puntata di Fondazione. E’ ora di Severance, quindi! E se la raccomandi tu non posso che avere aspettative non alte … altissime.

    P.S. Enemy filmone. Ma ormai sto giungendo alla conclusione che tutto quello a cui mette mano Villeneuve sia, come minimo, pregevole.
    P.S. Su Marriage Story posso solo dire che il buon Driver si è dimostrato – per l’ennesima volta – un signor attore. Chissà che un giorno possa ricevere una statuetta o finire per essere l’alter ego maschile di Amy Adams (attrice bravissima ma sempre bistrattata dall’Academy)?

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    • Carissimo Amulius, è davvero un grandissimo piacere ritrovarti! Peraltro le tue parole di elogio nei miei confronti mi fanno sempre ovviamente moltissimo piacere ma ciò che ricordo di te era l’intelligenza delle tue osservazioni anche quando potevamo non essere completamente d’accordo, cosa che peraltro capitava molto di rado!
      Sono molto felice che tu abbia deciso di fare un abbonamento di prova ad Apple TV, perché, con tutti i distinguo dati dalla diversità di genere tra una serie e l’altra, penso che al momento sia il servizio di streaming con i contenuti di livello più alto: sto proprio parlando della qualità con cui sono realizzate le regie, le sceneggiature, le interpretazioni e persino le scenografie.
      Prendiamo ad esempio la serie sicuramente più divisiva e problematica ovvero Foundation: è innegabile che il tradimento del testo di Asimov sia gigantesco, persino maggiore di quello fatto da Amazon Prime Video partendo dall’opera di Tolkien, eppure anche in una serie come questa c’è qualcosa di particolarmente potente nella sua capacità di essere visionaria, al netto del terribile calo di ritmo narrativo che avviene a metà della prima stagione e del delirio confusionario portato da una conduzione quale showrunner da parte di David Goyer davvero scarsa (troppa differenza tra una sceneggiatura di un episodio ed un altra e questa è una cosa assolutamente deprecabile) oppure anche nei suoi livelli più bassi in questa serie c’è ugualmente una potenza straordinaria nel tratteggiare i character, in particolare Giorno, il più carismatico dei tre cloni dell’imperatore (cosa che dal punto di vista narrativo è assolutamente inedita in confronto all’opera di Asimov persino disturbante per chi come me ha amato la trilogia galattica eppure paradossalmente è una trovata narrativa per rappresentare agli occhi del pubblico odierno il concetto stesso di decadenza di una stirpe, giacché il clone ci rimanda all’idea di fotocopia e le fotocopie dell’originale si sa che a furia di farne sbiadiscono).
      Ma abbandonando Foundation al suo destino e parlando invece delle altre serie, abbiamo una serie di perle: quella da te citata di Ted Lasso è semplicemente straordinaria, per non parlare di Severance e persino l’apparentemente banale The Morning Show ha una potenza drammatica davvero incredibile (che purtroppo si perde in barocchismi ridondanti nella seconda, in una sorta di infinita elaborazione del lutto che diventa stucchevole); personalmente, dopo una fortissima perplessità iniziale, dettata dalla mia incapacità di entrare in empatia con una serie realmente anomala, mi sono letteralmente innamorato di ogni singolo personaggio anche della inquietante ma mai orrorifica The Servant, dove ogni volta sembra di essere sul punto di precipitare negli inferì per poi ritrovarsi al punto di partenza con un senso di disagio simile a quello che si prova camminando all’imbrunire vicino a un lago stagnante minaccioso senza che poi accada davvero nulla o forse semplicemente lasciandosi ipnotizzare e catturare dentro un’inquietudine costante secondo dopo secondo.
      Tuttavia la serie tv che mi sto godendo maggiormente adesso, sempre su Apple TV, è certamente Silo, con una assolutamente straordinaria e magnetica Rebecca Ferguson e la fortuna di avere avuto un esperto di atmosfere tetre e fumose quale il cineasta norvegese Morten Tyldum, che oltre ad aver diretto i primi tre episodi di questa prima stagione è anche il produttore esecutivo di tutta la serie, dando anche agli altri registi l’impostazione base per trattare i personaggi, non a caso molto simile a quella drammatica ed intimista che avevamo già visto nel suo The Imitation Game.
      Insomma, consigliatissima!
      Scusa la lunghissima risposta e perdona la mia abituale logorrea, ma avevo veramente piacere di averti ritrovato!
      Buona notte e buon proseguimento di visione!

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