Chef (La Ricetta Perfetta): un artista prigioniero del suo mestiere di artigiano

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L’artigiano in questione non è Carl Casper, il capo cuoco del ristorante Gauloise a Brentwood in California protagonista del film, ma è Jon Favreau, che ha voluto nel 2014 scrivere il soggetto e la sceneggiatura di questo film, che ha poi convintamente diretto e persino prodotto.

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Con questi credits, normalmente si può parlare di cinema autorale, ma Favreau non pensa di essere un artista del cinema o meglio sembra non avere il coraggio di ammettere a se stesso che forse gli piacerebbe esserlo, perchè Favreau è il gigante buono delle majors, l’uomo per tutte le stagioni, una certezza al botteghino e la serenità di chi magari non farà mai il grande colpo ma nemmeno metterà i produttori in imbarazzo con scelte narrative bizzarre o stilisticamente troppo innovative. Sempre che un giorno, chissà, non decida di fare il grande passo.

Comme-un-chef---Jean-Reno

Difficile dire quale titolo sia peggiore per questa pellicola: in originale infatti si chiama Chef, titolo troppo semplice, banale e davvero affatto evocativo, inoltre pericolosamente confondibile con Comme un chef , nome dell’altrettanto gradevolissima commedia francese del 2012 (distribuito da noi soltanto come Chef giusto per crearci altri problemi), in cui Daniel Cohen dirigeva un imperdibile Jean Reno nella parte di un cuoco pluristellato in crisi d’identità; tuttavia il titolo italiano La Ricetta Perfetta, ha il vizio di essere troppo evocativo ed anticipatore (come tanti traler che ci raccontano praticamente metà del film), giacché fa riferimento (in modo ricercatamente ambiguo) al vero oggetto della ricerca del nostro protagonista.

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Casper, il personaggio principale della storia, infatti, non è alla ricerca di un piatto speciale o di un menù particolare e vincente, che per altro è in grado di produrre benissimo quando sta da solo in casa propria, ma è ansioso di trovare i suoi spazi, i suoi meriti, la sua dimensione di artista della cucina ed infine è sofferente, perchè non trova più nemmeno il divertimento, vero ingrediente basilare per potersi ancora mettersi in discussione, per sperimentare, provare e rifare tutto di nuovo e fare così il salto da semplice cuoco a grande chef.

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Chef nasce e si sviluppa come una deliziosa commedia on the road, con una sintassi filmica decisamente europea e quel pizzico di anticonformismo leggero alla Sundance Film Festival, ma poi si chiude con timore in una commedia, per quanto deliziosa, troppo velocemente diretta ad un happy-end eccessivo, quasi come un adolescente che finalmente trova la forza per urlare al proprio padre-padrone che si è stancato di lui, dei suoi metodi educativi, delle sua educazione, ma poi, intimorito dallo sguardo accigliato del genitore, si ritrae schivo, sibilando che stava scherzando, stava solo scherzando e nulla più.

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Non voglio mentirvi dicendo che siamo di fronte ad un filmone leggendario, ma posso garantirvi che ho ugualmente adorato questa pellicola, perché ti fa passare quasi due ore di piacere visivo ed emotivo, senza rotture di ritmo o momenti di stanca o stucchevoli risvolti sentimentali, ma anzi con la freschezza di un sapiente uso dei social network nella trama, senza bisogno di inserire nella storia diabolici hacker o geni informatici da barzelletta.

Away-We-Go

Dialoghi perfetti, sempre coerenti ai personaggi, equilibratissimi ed efficaci, scritti con una sorprendete maestria, che faceva sperare in qualcosa di più corraggioso, perchè le potenzialità c’erano tutte: una sceneggiatura in cui si sarebbe trovato a suo agio un regista come Sam Mendes (il film di Favreau per quattro quinti è tra l’altro molto più bello del suo Away We Go del 2009 e che magari avrebbe avuto la forza (o semplicemente la serenità) di arrivare fino in fondo.

Harlod-Hogan-and-Tony-Stark

Quando lo spettatore vede Jon Favreau sullo schermo, riconosce subito Harold “Happy“ Hogan, autista e fedelissima guardia del corpo di Tony Stark, ruolo che il nostro uomo ha interpretato sia nei due cinecomic dedicati alla figura del supereroe in armatura da lui stesso diretti (Iron Man ed Iron Man 2), sia nella terza (Iron Man 3), di cui comunque è restato produttore esecutivo.

Zathura

Quello di Hogan è un ruolo quasi meta-cinematografico, perchè Favreau ha genio da vendere e guizzi di creatività che quasi di nascosto rivela sottotraccia, ma resta un garante della continuità: già al suo secondo lavoro come regista, nel 2003, ha il suo primo grosso successo al botteghino con Elf (non proprio una pellicola trasgressiva) e prosegue nel 2005 con Zathura (la riproposizione ideale nello spazio cosmico del plot di Jumanji, entrambi tratti da due romanzi dello stesso autore, Chris Van Allsburg), dove ha modo di lavorare con uno degli sceneggiatori più pagati del mondo, David Koepp, dal quale verosimilmente impara la sottile arte del camouflage artistico hollywoodiano, che prevede la capacità di scrivere idee brillanti e ricche di spunti creativi mascherandole con uno spesso strato di banalità senza sorprese.

Iron-Man-3

Era nato un nuovo artigiano del cinema dei blockbuster, degli action e delle comedy non trasgressive ma di grande successo e come tale fu l’uomo perfetto per dirigere nel 2008 Iron Man, la pellicola dei Marvel Studios che ebbe il merito di creare una vera icona dal successo di pubblico virale ed inarrestabile ancora oggi: il Tony Stark di Robert Downey Jr., ruolo per cui l’attore americano di Manhattan sembra davvero essere nato, una parte che Favreau gli ha letteralmente cucito addosso rendendola memorabile.

Chef---Robert-Downey-Jr

Quando in Chef rivediamo Downey, nel delizioso cameo dell’ex-marito dell’ex-moglie del nostro protagonista, abbiamo una piacevolissima sensazione di déjà vu, come se potessimo vedere i due attori chiacchierare sul set come due vecchi amici ed anche quando la scenggiatura li spinge a scontrarsi, sorridiamo con la consapevolezza che in realtà stanno solo recitando e che fuori del set andranno a bere di certo qualcosa assieme.

Favreau è proprio questo: è un bravo regista, ma con mani e piedi immersi assolutamente dentro le regole estetiche fissate dall’establishment, senza voli pindarici di sorta e che ogni tanto alza la testa di un pelino e fa vedere chi è veramente.

Jon-Favreau-and-Cowboys-bs-Aliens

Forse il film più controverso della sua carriera è quel Cowboys & Aliens del 2011, pellicola incredibile, scritta da ben 5 sceneggiatori diversi, tra cui non casualmente troviamo Roberto Orci e Alex Kurtzman, il dinamico duo delle fiction procedural estreme (Alias, Fringe, Sleepy Hollow), ma anche lo snobissimo Damon Lindelof (creatore di Lost e The Leftovers): la storia creativa e produttiva di questo film è assai complessa e bizzarra e per questo meriterebbe un approfondimento in altra sede, ma ha comunque lasciato un segno in tutti gli appassionati di sci-fi classica e nei lettori di fumetti.

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Questa è una recensione di “Chef (La ricetta perfetta)”, ma abbiamo finito per parlare quasi solo di Jon Favreau e questo perchè il film è in realtà la storia del nostro uomo di cinema, da lui stesso interpretata nel ruolo del protagonista, che regala bellissime emozioni ad un pubblico che può anche non conoscerlo come artista , ma che si divertirà lo stesso guardandolo girare gli USA sul suo furgone da “eat street”, preparando panini cubani, in compagnia del figlio e di Martin, un suo sodale compagno di fornelli (nella impeccabile interpretazione del nostro colombiano d’eccellenza John Leguizamo).

Chef---Scarlet-Johansson

Come del cuoco John Casper, Favreau narra l’inquietudine, perché malgrado la sua bravura ed il suo genio culinario, egli non riesce ad emergere dalla piattezza in cui lo ha confinato il padrone del suo ristorante (un perfetto e perfido Dustin Hoffman), così Favreau racconta anche della sua vicenda di artigiano del cinema, intrappolato nella prigione, fatta di affidabilità e rigore così cara alle majors, da lui stesso costruita negli anni, con le sue interpretazioni, le sue direzioni artistiche, le regie.

Jon-Favreau---The-Sopranos

Nel lontano 2001, Jon Favreau interpretava se stesso nell’episodio D-Girls della fiction The Sopranos, come uno sceneggiatore che ha il compito di scrivere una storia di mafia cosa che nello stesso anno farà davvero, con il suo film di esordio Made (distribuito in Italia con il titolo Due imbroglioni a New York), da lui stesso scritto e diretto : l’arte che imita la vita e la vita che imita l’arte.

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Alla fine del nostro film, circa a metà dei titoli di coda, parte una sequenza in una parte ristretta dello schermo in cui viene mostrato il nostro regista mentre apprende l’arte di preparare il sandwich perfetto, un toast con formaggio e cipolla alla piastra, arrostito dal burro pennellato su entrambi i lati.

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Consiglio questa pellicola a tutti coloro che amano le commedie all’americana perché resteranno soddisfatti, ma anche a coloro che amano i programmi di cucina ed i reality sugli chef, perché tutti i passaggi, tutti gli ingredienti mostrati e preparati, sono rigorosamente fedeli ai metodi di preparazione dell’alta ristorazione; invito infine anche gli amanti del cinema, quelli veri, che sanno vedere oltre le apparenze, a godersi lo spettacolo, perché forse come me storceranno il naso alla fine, ma avranno goduto tutto il resto del tempo.


 

12 pensieri su “Chef (La Ricetta Perfetta): un artista prigioniero del suo mestiere di artigiano

  1. L’ho visto qualche settimana ma non ci ho trovato tutta la magia che invece a scorre a profusione nel tuo post.
    Accade di rado che un fil renda meglio del libro di cui è tratto.
    E accade ancora più di rado che una recensione sia più bella del film recensito. Ma questo è uno di quei casi.
    Sia chiaro: Favreau mi piace (e non solo per il suo cameo ne I Soprano…): realizza film leggeri ma lo fa con grazia e si lascia sempre gustare fino in fondo. Un cinema semplice, volutamente semplice, che però riempie gli occhi. Il problema di chef è che stabilisce un rapporto poco empatico, per lo meno con lo spettatore Lapinsù.
    Ma forse è solo colpa mia, che invecchio e divento brontolone.

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  2. Come sempre, fai dei commenti che sono delle recensioni essi stessi e penso che saresti un bravo soggettista, di quelli alla Ken Scott (l’autore di “Starbuck – 533 figli e non saperlo”, presente?)…
    Ho sorriso e tanto all’idea del Lapinsù brontolone, ma invece, no, è un parere giusto e che in realtà, anche se non sembra, è in linea con quello che ho scritto: quel rapporto di empatia di cui parli è effettivamente reso impossibile dal mancato coraggio di Favreau di essere artista vero, fino in fondo, di non avere avuto quel coraggio che aveva all’inizio della carriera, quando sfidava la mafia per raccontarne le gesta in chiave ironica e che poi ha sepolto sotto un buonismo da cinepanettone, a differenza del suo alter-ego, lo chef Casper… Come avrai capito, infatti, ho usato il film per raccontare la storia di un fallimento o forse solo di un artista che ha rimandato il suo coming-out…
    Grazie di essere sempre partecipe!

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  4. Mi ero perso questo pezzo, ma non ne faccio un dramma perché il tuo blog è per me la libreria (quella con la chiave) dove prendo un volume ogni tanto per non consumarli e so che per il tempo della lettura sarà un godimento senza soluzione di continuità.
    Hai scritto un’analisi meravigliosa di questo film e a parte il finale, che hai perfettamente inquadrato, lo ritengo davvero delizioso. Mi piace la regia e i temi toccati con tanta sensibilità da Favreau, commovente il rapporto (ri)trovato padre/figlio e la figura fondamentale a mio parere di John Leguizamo in un inedito ruolo che svolge in maniera sublime. Tra le tante porcherie che riesce sfornare ultimamente il cinema americano questa commedia l’ho trovata davvero ben riuscita e l’avrei inserita tra le mie Top 20 se non fosse per quel finale come detto, che eccede lo spirito stesso della pellicola che in fondo descrive le difficoltà della vita anche quando hai un talento.
    Ma venendo a Jon Favreau, perché come hai detto è di lui che stai parlando “ha genio da vendere e guizzi di creatività che quasi di nascosto rivela sottotraccia” (hai condensato divinamente in mezza riga quello che io avrei detto in dieci). E’ sacrosanto, l’ho seguo praticamente da sempre e non potrò mai dimenticare la sua interpretazione su Swingers il ragazzo iper-impacciato con le donne e che vive di atteggiamenti maniacali e tattiche studiate a tavolino o peggio suggerite dagli amici … quelli che di solito non hanno problemi.
    Grazie come sempre amico mio per queste tue perle che ci regali!!

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    • Non penso si possa fare un complimento più importante ed utile per un blogger che scrive per diletto personale e semplice passione, come faccio io, di quello di paragonare la mia raccolta di post ad una biblioteca… per me da sempre stanza e mobilio metaforici, quasi magici…
      Che emozione mi hai creato!
      Venendo invece al film ed nostro comune gradimento, effettivamente devo dire che anche a distanza di tempo lo considero un piccolo grande film, soprattutto una delle poche commedie americane dedicate al cibo e alla ristorazione che non sia una vaccata pazzesca!
      Con il passare degli anni e con il moltiplicare delle uscite, spesso con pellicole così telefonate e copiate fra di loro, accade purtroppo che i difetti rimangono tali, ma i pregi diventano ancora più valevoli, vista la mediocrità imperante.
      Quando ci sono persone come te che leggono le cose che scrivo, non è mai tempo perso dare voce ai propri ragionamenti. Grazie amico

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      • Sappi che sono cose che mi vengono spontanee, proprio dal cuore intendo, perché sono appassionato di cinema e posso dire di non aver mai letto recensioni più belle di quelle che scrivi tu. Piene di considerazioni, di dettagli, attenzioni e poi vivisezioni i singoli personaggi e gli attori che l’interpretano, scomponi le scene e relazioni storicamente gli eventi. Alla fine di tutto questo ne esce un’analisi talmente chiara e cristallina che non è più un’opinione ma un fatto.
        E poi quelle tue risposte, tanto nel tuo blog quanto in quello degli altri, prendi ad esempio (tornando a Godzilla …) “allo stesso modo, quando uscì il film di Edwards, io andai al cinema proprio nella speranza che questo nuovo reboot della versione statunitense del franchise di Godzilla potesse, nel suo primo capitolo gettare le basi per un ricongiungimento con lo spirito nativo del re dei mostri” ma chi le scrive cose del genere amico mio …. allora mi domando, ma uno che scrive così perché dovrebbe fare un altro mestiere?
        Ad maiora

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        • Oh, oh, oh, questa volta mi sono proprio crogiolato nel leggere i tuoi complimenti, perché oltretutto c’era questo particolare barocchismo di una critica alla critica che mi è sembrato così deliziosamente multistrato come solo pochi disturbati (leggasi anche amanti dell’arte come te è come me) possono concepire!
          Sì, perché la medesima patologia che ti affligge ha contaminato anche me: infatti entrambi spesso commentiamo i commenti, come fossero essi stessi degli articoli.
          Come il metaforico personaggio del key master di Matrix, le tue e le mie osservazioni, sia nei post, sia negli articoli e nelle foto, sono chiavi che aprono porte che danno su altre porte ancora e si estendono in una rete di significanze che spesso scavalca quelle di partenza… tanto che io sto ancora adesso ascoltando brani musicali derivati da quelli che tu hai indicato come scelte personali nella mia classifica sui movie music theme.
          Sarà anche per questo che la rubrica che maggiormente amo scrivere sul mio blog è anche quella che procede più lentamente e non certo per la sua impopolarità (catturare follower non.è mai stata una mia priorità… meglio pochi ma buoni, come il vino o i liquori), ma per la vastità intrinseca… tanto che poi finisco per innamorarmi di un filo rosso e lo seguo, come un incosciente che inseguisse il fantasma di un drago lisergico…
          Perciò, dopo il tuo commento ed anzi grazie ad esso, ho deciso di scrivere un nuovo post della serie dei 6 Degrees of Separation e per ora mi sto divertendo un mondo!
          Grazie Fed!!

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