Decision To Leave

Quella “Decisione di separarsi” di cui parla il titolo (nella traduzione letterale del suo originale, ma anche di quello in inglese dell’edizione distribuita all’estero) è come un fantasma che ci accompagna per tutto il film, ben sapendo che tale decisione è chiaramente quella presa da uno dei due protagonisti, ma ignorando chi sia fino alla fine ed anche allora con il dubbio che possa riferirsi ad entrambi, come potrà scoprire da solo chi scegliesse di regalarsi la visione di questo capolavoro cinematografico, un’opera impeccabile che riconcilia con la settima arte anche lo spettatore più stanco e disilluso dagli spettacoli tronfi e derivativi che dal nord America e da una parte della scimmiottante Europa dominano le sempre più deserte sale cinematografiche ed i sempre più intasati servizi di streaming.

Decision to Leave è un lungometraggio che, superando ogni ritrosia o difficoltà, catapulta con gioia chi lo guarda direttamente nel cuore del cuore del fare cinema ovvero nell’affabulazione splendida offerta dalla moderna lanterna magica del cinema sudcoreano contemporaneo, che senza scomodare costosi effetti speciali, comunque presenti in modo sobrio come artificio scenico, illumina una storia di amore e delitto, con la fascinazione ed i giochi di prestigio di molteplici doppi codici linguistici.

Non è assolutamente per snobismo o inutile vago senso di superiorità culturale che vi invito, se potete, a guardare questo gioiello con i sottotitoli e l’audio originale (cosa che nemmeno io sono riuscito a fare in prima visione), ma solo perché possiate apprezzare nella sua interezza ogni sfumatura comunicativa che il portentoso autore Park Chan-wook (qui in veste sia di produttore, che di scrittore e regista) ha usato per raccontare la sua storia, usando tutta l’efficacia ed al contempo la fallacia insita nel concetto stesso di traduzione da una lingua all’altra.

Una ricerca di tradurre senza tradire, come quella che prova a fare ogni volta Song Seo-rae, la ragazza cinese protagonista femminile del film (interpretata dall’attrice Tang Wei), che in più momenti, malgrado sia evidente che conosca benissimo la lingua della nuova patria che la sta ospitando, usa ugualmente il traduttore vocale di Siri del suo iPhone per esprimere concetti e sentimenti profondi al suo interlocutore, il detective sudcoreano Jang Hae-joon (il cui ruolo è stato affidato all’attore Park Hae-il, già noto a tutti per un altro grandissimo film drammatico ed investigativo come Memories of Murder, di Bong Joon-ho), giacché la lingua del cervello e delle cose senza importanza, compresa una deposizione alla polizia, può anche essere quella straniera appena appresa, ma non la lingua dei sentimenti, che invece parte dal profondo del cuore e che ci trova tutti quasi sempre indifesi e disarmati, spesso incapaci di comunicare la realtà di un’emozione o di un agito del proprio passato e quindi del significante delle azioni future.

Già nel titolo originale, scritto due volte nei manifesti cinematografici, una con la lingua coreana latinizzata moderna e l’altra con quella coreana hanja, appositamente utilizzata per le parole di origine cinese, appare evidente come quella del doppio linguaggio sia una delle cifre con cui l’intero film è stato pensato e scritto, tanto da essere interamente ritmato da quelle sospensioni e quelle attese necessarie, anche negli istanti del linguaggio amoroso e drammatico, a colmare la sfasatura ed il delay time necessari, tanto ai personaggi quanto allo spettatore, per decodificare cosa viene comunicato in un linguaggio diverso dal proprio, compresi quello del corpo e delle espressioni del viso.

Malgrado questo film, come tutti quelli davvero belli e grandi, non sia minimamente derivativo e quindi potendone chiunque godere senza la necessità di alcuna preparazione preconcetta sui prodotti di intrattenimento culturale di quella parte dell’Asia, non di meno, in chi come me è anche fruitore da molto della serialità televisiva dei k-drama, c’è un ulteriore piacere di visione quasi morboso, persino colpevole da far sorridere, nel divertirsi a riconoscere cibi e luoghi ed un certo modo di parlare e sorridere, per una lingua fatta di sentimenti espressi e celati, in base ai quali i volti si corrugano diversamente dai nostri.

Non vorrei parlare della trama, perché chi mi conosce sa bene che non sopporto coloro che, anche in perfetta buona fede, si sentono in dovere di scrivere una recensione inserendo una lunga parte contenente la sinossi della storia (in alcuni casi, a mio avviso, addirittura raccontandola tutta), nemmeno quando a farlo è una persona amica o semplicemente qualcuno che stimo per altri meriti, dato che secondo me così facendo si uccide una parte della magia della visione e della scoperta, ma di certo, quando si parla di un film che si consiglia di andare al cinema a vedere, qualche indicazione su cosa ci si troverà di fronte bisogna pur darla.

Così mi limiterò a dirvi che Decision to Leave è un noir e non quindi un semplice giallo, ma una storia drammatica dove, per la differenza che contraddistingue i due generi letterari, il meccanismo delittuoso e la decodifica del mistero sono solo una parte dello storytelling, nemmeno prevalente, mentre alle immagini ed ai dialoghi è lasciato per la maggior parte il compito di fotografare i significati profondi, di cuore e di epidermide, del criminale e del suo atto delittuoso, sia esso reale, presunto, agito o anche subìto.

In questo caso specifico poi la vicenda nera e criminale del delitto e dei suoi significati è però solo la metà della storia: si sappia infatti che Decision to Leave è un noir intrecciato a fil doppio con una struggente storia d’amore e se questa cosa di certo non è una novità, visto che il noir è quasi sempre scritto con l’inchiostro del dolore e della speranza annichiliti nel linguaggio amoroso (ne è testimonianza ogni grande capolavoro del passato di questo genere, dalle indagini del detective Philip Marlowe in film come The Big Sleep – Il grande sonno del 1946 di Howard Hawks, con Humphrey Bogart e Lauren Bacall, fino a quelle fantascientifiche del cacciatore di replicanti Rick Deckard nel cult Blade Runner del 1982 di Ridley Scott, con Harrison Ford e Sean Young), certamente nuovissima è la sintassi registica usata da Park Chan-wook per crearlo, che poi è ciò che fa davvero saltare di gioia sulla poltrona un appassionato di cinema.

Il rigore con cui la macchina da presa viene posizionata in ogni scena (spesso con un punto di vista leggermente più alto dell’occhio umano, ma ancora vicino e familiare, senza arrivare allo sguardo metafisico delle inquadrature dall’alto) non è mai né sterile manierismo, né inutile superbia, ma grammatica al servizio di una ritmica poetica tutta giocata sulle assenze e le presenze, dove i personaggi chiamati in causa dalla storia compaiono sul set vicino a coloro che stanno osservando da lontano o a cui semplicemente parlano raccontando di un altro non presente, ad esclusivo beneficio dello spettatore e senza creare la minima confusione nella realtà dello spazio cinematografico, così come è quasi impalpabile e magnifico l’altresì efficace uso del finto schermo del touch screen di uno smartphone a simulare una soggettiva dall’interno del cellulare, fino alla messa in pausa della scena stessa quando il resoconto a posteriori della medesima è fatta da un character che racconta e che nel farlo mette in PLAY e STOP lo stesso film.

A tanta prodigiosa bravura, la critica giornalistica asiatica ed europea ha risposto in modo unanime, conferendo alla pellicola uno stuolo di premi e riconoscimenti davvero impossibile da riassumere ed elencare, ma su tutti valga per quanto sopra detto il prestigioso Prix de la mise en scène assegnato quest’anno dalla Giuria della 75ª edizione del Festival di Cannes proprio a Park Chan-wook per la sua speciale regia in questo lungometraggio.

Park Chan-wook

Malgrado la mia reticenza a raccontarvi di più della storia sia dovuta, come già spiegato, a preservare più intatta possibile l’esperienza di visione di chi sceglierà di regalarsi questo lungometraggio, devo comunque ammettere che questo film ha una potenza comunicativa davvero incrollabile e probabilmente resisterebbe anche ai colpi vigliacchi inferti sotto alla cintola da uno sprovveduto recensore che vi raccontasse il finale, perché sarebbe comunque impossibile non lasciarsi ugualmente cullare dagli sguardi e dai sussurri e dalle interpretazioni che come in un flusso di magnifica corrente alternata intellettuale corrono dallo schermo allo spettatore, il quale finisce persino a voler sincronizzare il suo stesso respiro con quello della storia, aprendo gli occhi laddove quelli dei due protagonisti si chiudono, cercando di vedere oltre.


Post Credits Note

Per approfondire la figura di uno dei cineasti contemporanei più importanti dell’intero panorama cinematografico, quale è appunto il sudcoreano Park Chan-wook, a cui si deve una straordinaria filmografia di lungometraggi che hanno saputo conquistare senza difficoltà anche il pubblico occidentale (basterebbe anche solo citare lo straordinario successo anche di pubblico dei tre film della cosiddetta Trilogia della Vendetta ovvero Mr. Vendetta – Boksuneun naui geot del 2002, Old Boy – Oldeuboi del 2003 e Lady Vendetta – Chinjeolhan geumjassi del 2005), vi consiglio caldamente di leggere l’appassionato articolo scritto dal preparatissimo blogger The Butcher e pubblicato sul sito My Mad Dreams interamente dedicato a I’m a Cyborg, but that’s OK (싸이보그지만 괜찮아; Ssaibogeujiman Gwaenchana), una pellicola tra le meno conosciute al grande pubblico di questo autore, ma davvero particolare, folle, divertente, coloratissima e soprattutto diretta con una mano registica impressionante.

33 pensieri su “Decision To Leave

  1. Mi hai davvero incuriosito, dev’essere molto bello e avvincente, come al solito hai dato dettagli e particolari portando esempi pratici del tutto come fai sempre rendendo di facile comprensione ogni aspetto. Bel post come sempre amico mio, buona serata!

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  2. Tu hai nominato Bong Joon-ho: ebbene, a mio giudizio è uno dei tanti artisti che hanno vinto l’Oscar per il film sbagliato. Succede spesso sia agli attori che ai registi (e succede con una tale frequenza che potresti farci un post – classifica). Nel suo caso il film più bello che abbia fatto non è Parasite, ma Snowpiercer. Ma capisco che ai tempi di Snowpiercer l’Academy l’abbia snobbato, perché la fantascienza è da sempre considerato un genere di serie B dai suoi giurati.
    Tra l’altro ho appena letto sulla sua pagina Wikipedia che Bong Joon-ho ha in cantiere un altro film di fantascienza, e ancora una volta lavorerà con degli attori americani. E non saranno dei nomi qualsiasi: al contrario, sono degli attori legati ai cinecomics come Robert Pattinson e Mark Ruffalo. E dato che al giorno d’oggi i cinecomics sono gli unici film che garantiscono visibilità ad un attore, Bong Joon-ho ha a disposizione le star più in vista del momento. Vedremo se basterà per ottenere dei buoni incassi.
    Hai nominato anche i k – drama: ebbene, ne sto guardando uno proprio in questi giorni, “Venticinque e ventuno”. Il titolo fa riferimento alla differenza d’età tra la protagonista 21enne e il ragazzo 25enne con cui flirta, ed è un titolo ingannevole, perché in realtà questo amoreggiamento è soltanto una sottotrama: per la maggior parte del tempo la serie si focalizza sul tentativo della protagonista di diventare una campionessa di scherma.
    Ciò che rende questa serie così affascinante e anche educativa è il fatto che questa ragazza non si arrende mai.
    La sua scuola smette di garantire dei corsi di scherma per motivi di budget, e lei trova un’altra scuola che le permetta di continuare il suo sport.
    La prof di educazione fisica della sua nuova scuola non vuole inserirla nella squadra di scherma, e lei fa di tutto per farle cambiare idea.
    Una volta entrata nella squadra di scherma si trova davanti un’altra ragazza molto più brava, ma lei non perde mai la speranza di poterla battere.
    Sua madre fa di tutto per scoraggiarla e per convincerla a mollare la scherma, e lei anziché farsi abbattere dalle sue critiche è ancora più motivata a dimostrarle che ha torto.
    Mi sono identificato molto in questa ragazza così volitiva, perché anch’io mi sono trovato più volte di fronte a delle imprese che sembravano impossibili, ma non ho mai perso la convinzione di potercela fare. Per farti un esempio, nel 2016 ho partecipato a un concorso docenti, e vincerlo era quasi impossibile per vari motivi: perché i posti in palio erano pochissimi in rapporto ai partecipanti, perché la quantità di argomenti da studiare era virtualmente infinita e perché le prove erano palesemente congegnate per bocciare il maggior numero di candidati possibili. Ma io credevo in me stesso, e quindi ho vinto. Non so se la protagonista di “Venticinque e ventuno” vincerà anche lei perché ho visto solo 6 puntate su 16, ma sicuramente meriterebbe di riuscirci, perché solo in queste 6 puntate ha dovuto affrontare tutti gli ostacoli sopra elencati, e chissà quanti ancora ne affronterà nelle restanti 10 puntate. Io ovviamente farò per lei un tifo sfegatato! 🙂

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    • Aldilà della differenza di giudizio complessivo tra noi due su Parasite (di cui parlammo anche all’epoca della valanga di riconoscimenti ricevuti, non solo dall Academy con l’Oscar ma anche la palma d’oro a Cannes, per altro, caso rarissimo, con voto unanime della giuria), su cui già co siamo confrontati, resta davvero incredibile ed ammirevole la freschezza della tua intelligenza critica, capace di fare sue anche le tematiche ed i linguaggi della serialità televisiva coreana (ne parlammo poco tempo fa, ricordi?), senza paraocchi e senza pregiudizi!!
      La tua è una conoscenza aperta, a tutto campo e questo rende le tue parole sempre degne di essere lette con attenzione…
      Sei davvero impagabile, Wwayne!!

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      • Pensa che giusto ieri un altro blogger mi ha scritto la stessa cosa nei commenti ad un suo post (questo: https://nonsonoipocondriaco.wordpress.com/2023/02/17/la-nuova-baby-sitter-2/). Le vostre parole mi fanno molto piacere, anche perché vengono da 2 bloggers che stimo moltissimo a mia volta.
        Dal fatto che tu non abbia espresso delle considerazioni specifiche su “Venticinque e ventuno” deduco che non l’hai vista. Mi fa molto piacere di avertela fatta scoprire: per quel che ho visto in queste prime 6 puntate è davvero una serie straordinaria.
        Tra l’altro sono rimasto di stucco nell’apprendere che l’attrice protagonista nella serie interpreta una 21enne, ma in realtà di anni ne ha 32. E non è la prima volta che mi capita di vedere un’attrice coreana che porta benissimo i suoi anni: evidentemente in quello stato hanno un buon corredo genetico. Grazie mille per i complimenti e per la risposta! 🙂

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  3. “sarebbe comunque impossibile non lasciarsi ugualmente cullare dagli sguardi e dai sussurri e dalle interpretazioni che come in un flusso di magnifica corrente alternata intellettuale corrono dallo schermo allo spettatore, il quale finisce persino a voler sincronizzare il suo stesso respiro con quello della storia, aprendo gli occhi laddove quelli dei due protagonisti si chiudono, cercando di vedere oltre.”
    Trovo che in generale gli sguardi abbiano una potenza comunicativa affascinante ma la definizione di corrente alternata intellettuale mi fa pensare a perfezione pura. Ecco, forse rimane davvero solo il respiro perché io sono senza parole.

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  4. Uno degli aforismi più noti di Jack Kerouak e del suo “On the road” dice più o meno così (vado a memoria):
    non importa dove andiamo, l’importante è andare

    Mi sembra che questa frase sia stata anche ripresa nel film con Kristen Stewart di ormai una decina d’anni fa.

    Non sono un amante degli aforismi in generale (che Ezra Pound mi fulmini all’istante) nè di questo specifico di Kerouac in particolare, eppure quella frase si fissò nella mia mente adolescente (avevo su per giù 16 anni quando lessi ON THE ROAD) e come quei cattivi sogni che ci tornano in mente al mattino quando prendiamo il caffè per poi accompagnarci durante tutta la giornata, me la porto dietro da allora e ogni tanto torna a far capolino nella mia mente.

    Quest’aforisma significa tutto e niente, come tutti gli aforismi, perchè in realtà è un foglio bianco che possiamo colorare come preferiami in base a umore, preferenze, conoscenze. E mentre leggevo questo tuo (come sempre mirabilissimo)* articolo divulgativo sono infine riuscito a trovare un’accezione veramente meritevole per classificare quest’aforisma, perchè ora ho capito che posso applicarlo a una teoria di capolavori cinematografici praticamente sterminata, ovvero tutti quei film dove la trama può (non “è”, “può”) essere superflua perchè le chiavi di lettura e quindi apprezzamento sono molteplici e quindi, in base alla prospettiva che decidiamo di assumere possiamo godere di una bellezza diversa, eppure sempre concreta.

    Non importa quale sia la storia, l’importante è che tu la racconti con ricchezza di significati e significanti

    Forse Kerouac voleva dire proprio questo. Forse addirittura s’ispirava al remteneverbasequentur di catoniana memoria (e ancora ricordo con vergogna il commento dove attribuii questa frase a Cicerone e tu, con il garbo che sempre ti contraddistingue, mi facesti notare l’errore).

    Vabbè, ero partito da Kerouac e ho finito con Cicerone e una delle mie (tante) figuracce. Alla fine quel che resta è il prodigio della tua capacità divulgativa e l’interesse che mi hai instillato per un film di cui avevo sentito parlare ma che non avevo associato al nome di un regista che in verità ho molto apprezzato nelle sue opere più famose che tu stesso hai ricordato (faccio fatica a distinguere i nomi dei cineasti coreani, mi sembrano tutti uguali: mea culpa mea culpa mea culpa)

    sono in debito della nota preannunciata con l’* usato più sopra.
    Credo (Temo) che almeno la metà dei miei commenti ai tuoi post abbia un inciso tra parantesi che recita più o meno così: (come sempre mirabilissimo). Mi sento quindi in dovere di cospargermi il capo di cenere perchè la capacità di coinvolgere e insegnare che hanno i tuoi articoli meriterebbe da parte mia un maggior sforzo di fantasia per elogiarli. So già che mi perdonerai, anzi che neppure ci avrai fatto caso, ma mi sembrava comunque opportuno fare ammenda. Evito solo l’ipocrita promessa di migliorare in futuro. Ogni volta che ti leggo, ormai, penso COME SEMPRE MIRABILISSIMO…

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    • Ma che bello questo tuo appassionatissimo commento, amico mio, così ricco di amore e stima nei miei confronti, ma anche di golosi riferimenti culturali, tali soprattutto per me, che in età giovanile scrissi tutte le mie poesie seguendo la falsa riga del kerouachiano Mexico City Blues e che non perdo mai l’occasione di citare il Santo Bevitore della beat generation, come ho fatto anche nel recente post dedicato alla scrittura…
      Insomma, malgrado le nostre reciproche assenze, io e te ci siamo sempre ed in particolare quando tu ci sei, ci sei davvero, con tutto il peso e l’autorevolezza di chi sa davvero scrivere bene, come te.
      Grazie, ancora una volta, per la delicatezza del tuo passaggio!
      Vorrei dire tante altre cose, ma adesso non mi è possibile, ma sono certo che questa non sarà l’ultima nostra occasione di scambio qui su WordPress, tutt’altro…

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  5. Prima di tutto ti ringrazio per aver condivisione il mio post su I’m a Cyborg, un film che di solito viene poco citato quando si parla di Park Chan-wook. In ogni caso sono veramente contento di leggere questa tua analisi professionale e piena di amore per Decision to Leave. E non sto esagerando, ogni volta si vede quanto tu sia preparato verso una determinata operela e soprattutto si legge la passione che ti porta a scriverne. In questo caso basterebbero anche solo le immagini per mostrare tutta la bellezza dietro l’operato di Park Chan-wook, con delle inquadrature e un fotografia veramente elaborata e complessa ma mai artificiosa, riesce a far sembrare tutto perfettamente in sintonia con l’atmosfera e la situazione. Inoltre io apprezzo molto il noir, mi è sempre piaciuto come genere nonostante non l’abbia portato molto spesso sul blog e apprezzo come il tutto si intrecci alla storia d’amore, una storia d’amore tra l’altro ben descritta a cui fortunatamente manca qualsiasi tipo di retorica che si vede molto stesso in opere romantiche. Parlare di amore onestamente non è per niente semplice, anzi penso proprio che sia un sentimento difficile da cogliere appieno con tutte le sue sfumature. Per questo apprezzo queste opere, perché riescono a darti un quadro completo ma soprattutto a farti percepire quel sentimento. Come al solito hai fatto un lavoro egregio!

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    • Io e te non ci frequentiamo molto, come si può bene vedere dalla rarissima presenza di un mio commento sotto ad un tuo post, ma la nostra reciproca stima è assolutamente rimasta immutata negli anni: per quanto possa sembrare strano e persino a suo modo irriguardoso nei confronti del lavoro egregio che svolgi come blogger e divulgatore, sappi che io ti leggo sempre, anche quando non ti commento e non ti metto un like (ho come un blocco psicologico che mi impedisce di mettere like se non ho scelto anche di commentare, perché non mi è sufficiente dire a qualcuno che ho apprezzato ciò che ha scritto ma sento che ho il dovere di dire anche perché l’ho apprezzato).
      Per questo, quando mi sono accinto a scrivere questa recensione di un film che ho particolarmente amato non potevo non citare il tuo post che amio avviso completa perfettamente ed amplia l’opinione che molti hanno di questo autore ma spesso fermandosi alla famosissima Trilogia della Vendetta, anzi, a dirla tutta, fermandosi la maggioranza solo al primo capitolo!
      Onore al merito a te, Butcher!!

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