Apocalisse, Martirio ed Estasi nel cinema di Mel “Von Doom” Gibson

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Se Clint Eastwood, uno dei cineasti più importanti, intelligenti, capaci e significativi della scena statunitense, si mettesse di fronte ad uno specchio oscuro, vedrebbe rimandata indietro l’immagine di Mel Gibson, come suo contraltare demoniaco.

Questi due uomini di cinema americani non solo hanno avuto un inizio di carriera simile e sfolgorante, in generi narrativi pienissimi di epica action (Eastwood, con molto cinismo ed una corazza da uomo duro, traslando dal western al crime poliziesco il character di cavaliere solitario che si era costruito nei suoi primi film, mentre Gibson, in modo più scanzonato e guascone, giganteggiando da principe dei buddy movies in tanti film di avventura a tinte noir), ma speculare è stata anche la loro evoluzione professionale.

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Ad un certo punto della loro carriera hanno infatti sentito entrambi il bisogno prepotente di prendere in mano il timone della loro creatività e senza mai smettere di essere attori sono diventati anche produttori e registi dei loro stessi film: da quel momento nulla fu più lo stesso, né per le loro carriere, né per l’impatto che essi ebbero sull’intero cinema statunitense.

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Pur se in modo concettualmente diverso, ambedue questi artisti premettero a tavoletta sull’acceleratore dei soggetti che scelsero per le loro pellicole, fino al punto che oggi essi rappresentano ciascuno una diversa faccia del medesimo modo di affrontare il mondo da parte della politica e della cultura nordamericana, con una visione piena di contraddizioni, quasi sempre più ispirata concettualmente che non davvero realistica e questo malgrado la crudezza e l’apparente sincerità delle loro scelte stilistiche di messa in scena: se Eastwood, però, è diventato l’anomalo ed incontestabile guru di un pensiero repubblicano illuminato, schierato partiticamente , ma al contempo anche fiero portabandiera di una destra filosofica, il cui patriottismo sembra sposare all’opposto il socialismo cosmopolita multirazziale più estremo, dall’altro Gibson ricorda ad ogni film sempre più una versione registica del Doctor Doom dei Fantastic Four, immarcescibile despota generoso di una nazione dove regna un solo credo, un solo Dio ed una sola ontologia di giustizia.

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Permettetemi ora, per qualche piccolo paragrafo, di parlarvi proprio di Doom, nato dall’ingegno narrativo di Stan Lee e dalle matite del più grande disegnatore Marvel degli albori ovvero Jack Kirby e certamente uno dei più bei villain fumettistici mai immaginati, il cui spessore drammaturgico è ancora oggi eguagliato soltanto da una manciata scarsa di personaggi.

Ben noto ai lettori di fumetti, ma non, ahimé, agli spettatori dei cinecomics che ne hanno sempre e solo visto al cinema uno stupido surrogato, questo character, dopo le fugaci apparizioni del suo debutto, ha avuto l’onore di una di una magnifica ed epica storia nello speciale annuale dei Fantastic Four del 1963, in cui le sue origini furono tratteggiate con un’incisività che rimarrà scolpita per sempre nell’immaginario di tutti i lettori di comics supereroistici: nelle righe di quella fantastica biografia, potremo trovare i semi del parallelo più affascinante con quella parte demoniaca e metafisica di Gibson regista, sulla quale questo post vorrebbe porre attenzione.

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In quello storico albo, Victor Von Doom è descritto come un bambino di etnia Rom, nato dall’unione di una strega (Cynthia) e di un uomo di medicina (Werner), che viveva nella piccola nazione europea di Latveria, governata dal Baron, un despota sanguinario; rimasto ben presto orfano, sia di madre (per colpa di un demone chiamato Mephisto, che stroncò la vita di Cynthia), sia di padre (spinto dal Barone ad una fuga disperata sui monti innevati, dove alla fine trovò la morte per assideramento mentre proteggeva il piccolo Von Doom), Victor crebbe cercando con i suoi studi di fondere l’eredità oscura della magia lasciatagli dalla madre con i principi scientifici del padre ed in questo modo creò incredibili armi futuristiche, con cui protesse la sua gente dal despota.

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Le sua abilità di ricercatore autodidatta attirarono l’attenzione del rettore della Empire State University, il quale diede al giovane di Latveria la possibilità di studiare negli Stati Uniti, dove divenne compagno di stanza di Reed Richards, un geniale studente che in futuro sarebbe divenuto Mr. Fantastic, il suo più acerrimo nemico; durante la loro breve e conflittuale convivenza, Richards cercò spesso di mettere sull’avviso Victor dai terribili rischi di quegli esperimenti in cui combinava stregoneria e tecnologia, ma lo fece invano e durante i test di una misteriosa macchina, ideata dall’introverso Victor allo scopo di comunicare con i morti, questi rimase terribilmente sfigurato, in conseguenza di una devastante esplosione.

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Cacciato dal college e bandito da qualsiasi consesso scientifico, Von Doom divenne un paria maledetto e fuggì in Tibet, per nascondersi in un monastero sperduto, dove affinò il controllo del suo corpo e della sua energia psichica, seppellendo per sempre il suo corpo sfigurato dietro la maschera di ferro e l’armatura che tutti conosciamo; dopo essere divenuto il dominus degli stessi monaci che lo avevano accolto, tornò da cavaliere oscuro alla sua patria originaria e là guidò una rivolta popolare contro il Barone tiranno, divenendo il nuovo capo incontrastato di Latveria; governò quello stato ed il suo popolo come il più generoso ed assolutista dei monarchi super partes, idolatrato al pari di una divinità, ma soprattutto amato e rispettato dai suoi sudditi come un padre onnipotente.

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Anche Gibson, investito da un ardore messianico e reso più libero e forte dalla sua nuova veste di produttore (non dimentichiamoci, infatti, che nel 1989 il nostro divo investì i grossi proventi, ottenuti come attore dei suoi film, per fondare insieme a Bruce Davey la Icon Productions), prese Hollywood per le corna ed all’inizio degli anni ’90 la piegò a terra, portando sullo schermo un romanzo di formazione intimista ed in parte scandaloso (nel libro ci sono moltissimi riferimenti sessuali di genere queer, tuttavia assenti nel film) come quello di Isabelle Holland: nello splendido The Man Without a Face, Gibson indossa la maschera deforme di Justin McLeod, fuggito dal mondo come un profeta abbandonato al suo eremo, per nascondere il suo volto orrendamente sfigurato (a seguito di un incidente automobilistico) ed il suo senso di colpa per aver procurato incautamente la morte di un suo allievo; grazie all’amicizia virile con un nuovo giovane allievo, McLeod uscirà dal suo isolamento per divenire di nuovo il brillante insegnante che era un tempo, ma un destino ineluttabile lo crocifiggerà di nuovo, travolto dalle terribili ed ingiuste accuse di pedofilia da parte di una popolazione di bigotti ignoranti, incapaci di vedere la purezza del rapporto instauratosi tra i due protagonisti, ma ugualmente pronti a scagliare le pietre, come tanti farisei accecati dall’odio verso chi ogni volta ritengono aprioristicamente colpevole, perché mentore di un diverso credo.

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La libertà di una fede politica e religiosa, rivendicata da un solo individuo per la salvezza del suo intero popolo, da solo contro tutti, esempio impeccabile contro l’ignoranza e la malvagità: questa la cifra intellettuale che costituisce la prima fune di cui è costituita la forte gomena che unisce ogni capitolo della chiacchieratissima eppure scarna filmografia del nostro Victor Von Gibson, da questo primissimo esordio fino all’ultimissima pellicola, quel riappacificante (dopo le dichiarazioni antisemite fatte dallo stesso Gibson) “Hacksaw Ridge“, melodramma vecchia scuola girato in modo perfetto, ma tradizionale, pieno di cliché militari, ma anche ennesimo esempio di quell’arte del contrasto di cui il nostro cineasta è maestro, fondendo qui il pacifismo estremo dell’obiezione di coscienza per motivi religiosi (del Desmond Doss, membro intransigente della Chiesa cristiana avventista del settimo giorno) con la violenza assoluta che lo circonda nel campo di battaglia, in una sorta di Saving Private Ryan con molta più caffeina e ideologia.

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Sono solo cinque le pellicole che il nostro artista ha diretto in tutta la sua carriera cinematografica, nulla se paragonate alle quasi 40 messe in scena da Eastwood (delle quali più della metà nello stesso periodo di attività come regista di Gibson), ma sembrano tante di più se ne pesiamo l’impatto morale e contenutistico, mai suggerito, ma sempre urlato a pieni polmoni, come la parola “freedom” che il protagonista di Braveheart, l’eroe e patriota scozzese William Wallace grida a squarciagola in punto di morte, aldilà di ogni possibile sopportazione fisica per il dolore procuratogli dalla prolungata tortura, come il grido soffocato dal sangue del Cristo in The Passion a perdonare i suoi torturatori o il silenzio assordante di un intero ecosistema che muore per la rottura dei suoi equilibri in Apocalypto.

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La seconda fune, forse la più fragile (malgrado la sua visibilità) che compone la grossa corda di cui parlavamo sopra, come collante del pentacolo filmico di Gibson, è senza dubbio la violenza insistita, l’uso di dettagli gore e di carne straziata che abbonda nelle sue opere, per la quale spesso si è parlato di pornografia, ma per lo più a sproposito, giacché laddove è vera tortura, allora diviene estasi (ma di questo parleremo tra poco), mentre quando la brutalità realistica è quella della guerra ha una sua ragion d’essere: nell’intervista rilasciata alla reporter della testata Made in Hollywood, a proposito del suo Hacksaw Ridge, Mel Gibson ha affermato “Visually I wanted to give the audience a feeling of what it must have been like to be in the midst of something like that [war]. It would have been brutal. Maybe I didn’t make it as brutal as it was – Visivamente ho voluto fare in modo che il pubblico provasse le stesse emozioni di chi è stato costretto ad essere nel mezzo di una cosa come quella [guerra]. Doveva essere brutale. Forse io non l’ho resa brutale quanto lo è stata nella realtà”.

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Anche l’efferatezza di Apocalypto (certamente il minore tra i cinque film diretti da Gibson) è davvero più concettuale che esibita: se è vero, infatti che ci sono più spruzzi di sangue ed arti strappati qui che non in un classico film horror, è altrettanto vero che il modo con cui tale ferocia viene fotografata e mostrata non fa mai dubitare lo spettatore che la vera disumanità che sta osservando è quella che la civiltà umana ha fatto a se stessa.

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Già nel suo titolo (parafrasi di Apocalisse), questo film porta con sè tutta la ricca molteplicità di lettura delle sacre scritture, facendo convivere il significato più etimologico (dal greco) ed anche più comune di uno “sconvolgimento totale” (fine del mondo), con quello più biblico (dall’ultimo libro del Nuovo Testamento) di “rivelazione” (la scoperta del Nuovo Mondo, delle Americhe): il nostro autore, quindi, pur con notevoli distorsioni storiche e semplificazioni, pone in primo piano la questione del crollo di un’intera civiltà, sconfitta dai colonizzatori che l’hanno invasa, ma anche priva di difese, perché marcita al suo stesso interno ed il parallelo con The Passion diventa così ancora più lampante.

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Come le dita della mano del Cristo, prima che il soldato romano la inchiodi al legno o come quelle di una miracolosa protesi bionica innestata su qualche androide, vediamo le cinque pellicole di Mel Gibson flettersi ed inarcarsi nell’aria piena di significanza ed illusione della vecchia e nuova Hollywood, finchè si stringono a pugno sulla terza fune della nostra corda di salvataggio: il martirio.

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Tutti conoscono la fede profondamente cristiana di Mel Gibson e di certo è ben radicato in lui il concetto di martire e del suo significato più ancestrale e profondo (dal greco antico màrtyr) di “testimone” di una verità per la quale si è disposti a morire, perché martiri in modo pieno e netto sono tutti i personaggi più forti dei suo film, come il professor Justin McLeod del primo The Man Without a Face, che si fa lapidare per difendere la propria idea di dottrina scolastica e paterna, come il giovanissimo dottore Desmond Doss, che in Hacksaw Ridge si carica fisicamente sulle spalle i compagni feriti e mette la sua vita in mezzo alle pallottole pur di salvarli tutti, come l’eroico condottiero William Wallace, che in Braveheart sceglie la morte tra atroci sofferenze pur di non rinnegare la sua fede in una terra ed in un popolo liberi dall’oppressore, come infine Gesù Cristo, che in The Passion muore sulla croce per portare il messaggio divino in mezzo agli eretici ed agli infedeli.

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Ci stiamo ora muovendo su un terreno delicatissimo, perché i significati testuali presenti in un film vanno a collidere, nel caso delle opere d’arte vere e proprie, con la più rarefatta ed impalpabile necessità di trasmettere ciò che non è spiegabile con la logica: nel caso di Gibson, tutta la sua fede politica e religiosa, tutto il suo patriottismo sfrenato e la sua voglia di rivalsa dell’individuo sulla collettività anonima e sulle forme di governo troppo burocratizzate (perché così appaiono in superfice i nobili scozzesi in Braveheart, che si piegano agli inglesi per mercimonio e così anche i superiori di grado di Desmond Doss in Hacksaw Ridge, ciechi nella loro osservanza alle regole e persino i sacerdoti del tempio in The Passion, che vedono nel Cristo un pericoloso sovvertitore del loro amato status quo) si sciolgono come neve al sole di fronte al suo bisogno di rappresentare l’estasi, a costo di mescolare la sacralità della storia con la tradizione del masochismo maschile in arte e quindi con la perversione del demoniaco.

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Nello squilibrato ma rigoroso film The Messenger : The Story of Joan of Arc del 1999, Luc Besson ci ha mostrato in continuo parallelo (quasi uno split-screen tra realtà e misticismo) l’evolversi delle vicende storiche e l’ardore del sincero sentimento di fede dell’eroica ed invasata Pulzella d’Orléans, dandoci quindi sempre modo di separare la verità storica dal vissuto della beata, mentre nel capolavoro del cinema muto La passion de Jeanne d’Arc del 1928, Carl Theodor Dreyer aveva scelto di rappresentare l’estasi del martirio attraverso un modernissimo susseguirsi incessante di primissimi piani, sia del volto della prigioniera condannata a morte (tale infatti fu il tragico destino dell’eroina che dopo aver di fatto regalato il potere alla dinastia dei Capetingi, fu abbandonata dal nuovo re ai suoi nemici e condannata al rogo per eresia religiosa), sia dei suoi aguzzini, spostando il suo martirio in una dimensione fuori del tempo e della storia.

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L’estasi del martire, per un cinefilo, richiama subito lo scopo finale della ricerca di Mademoiselle in Martyrs, il capolavoro di Pascal Laugier, ma prima di lui c’erano state in pittura l’estasi con cui Giotto alla fine del ‘300 raffigura il suo San Francesco (affresco visibile nella Basilica superiore di Assisi), la bellissima Maddalena in Estasi della caravaggesca Artemisia Gentileschi o anche l’olio dipinto nel 1743 da Batoni Pompeo Girolamo per la sua Estasi di Santa Caterina da Siena.

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Insomma, l’estasi è quel momento di assoluta evasione della realtà che nel mistico diventa contatto con il divino o se vogliamo con il demoniaco: questa l’intuizione artistica che Gibson esprime nelle due scene madri dei suoi due veri unici film, laddove tutto il resto diventa quasi esercizio di stile di supporto: la tortura di William Wallace sul patibolo ad opera del boia inglese in Braveheart e la flagellazione di Gesù in The Passion.

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Non lasciatevi traviare da quanti si sono limitati a ricopiare (come i critici statunitensi e quelli italiani che lavorano sulla traduzione degli stessi) le frasi ricche di osservazioni degli pscologi e ricercatori, come quel Jeffrey A. Brown, della Bowling Green State University, Ohio, USA, che a suo tempo scrisse persino un saggio (saccheggiatissimo) al riguardo (The Tortures of Mel Gibson), in cui, dopo una geniale e brillante intuizione iniziale sulle implicazioni sessuali, forza le sue considerazioni finali, cercando di dimostrare come i film di Gibson non sono altro che semplici forme sensazionalistiche e grafiche di scrittura pornografica sulla tortura.

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Lasciate stare tutto questo, compresi i significati storici, religiosi, politici e persino di sintassi cinematografica in senso stretto (magari li riprenderete in mano dopo) e concentratevi solo sul ritmo e sul respiro di queste due lunghe sequenze, due unicum assoluti, quasi avulsi dal resto della produzione, che si sono mimetizzati nelle altre scene di sangue e morte sul campo di battaglia o dei dettagli cruenti della crocifissione, perché solo in questo modo potrete scorgere il respiro della metafisica che da esse scaturisce: sono momenti brevissimi e semplicissimi, solo un semplice carrello laterale di un personaggio assente.

Affinché per me fosse più semplice esemplificare i passaggi ed il gioco di similitudini, oltre a singole inquadrature, ho anche estratto dai due film in questione gli specifici segmenti narrativi dell’estasi.

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Prima dell’Estasi, la Tortura e prima della Tortura la Prigionia: questo il meccanismo con cui nelle sceneggiature e nel montaggio di tutti e due i nostri film viene sviluppato il viatico per le sequenze metafisiche.

Nella narrazione di Braveheart, William Wallace è stato arrestato a seguito del tradimento degli stessi nobili scozzesi che avrebbero dovuto sostenere la sua causa (al pari di Gesù Cristo, venduto ai romani dal suo discepolo Giuda) e poi portato in catene dai suoi aguzzini, per essere esposto alla gogna del pubblico ludibrio prima della tortura: le scene che narrano tali momenti preliminari sono (in entrambi i film) sequenze dalla cadenza tradizionale, viste mille volte in mille film diversi, con il solito montaggio alternato dei volti in primissimo piano, sia dei perfidi responsabili che attendono in ansia la conclusione dell’ultimo atto, sia dei testimoni silenziosi e frustrati ed infine la folla anonima, sempre uguale, sempre indignata, sempre urlante, senza conoscere davvero la gravità della colpa del condannato.

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In questa meccanica narrativa classica, tuttavia, si apre uno spiraglio di luce geniale, con l’esibizione di una coppia di nani e giullari, che mettono in scena un meraviglioso preview delle scene di morte e tortura successive, visivamente splendido e funzionale ad evitare un visto di censura troppo castrante: è una piccola ma preziosa perla cinematografica che voglio condividere con voi tutti.

C’è davvero tutto l’ardore fideistico di Gibson nel modo con cui il patriota e martire scozzese viene condotto sul carro, incatenato ad una croce, verso il patibolo e quella folla che si apre al suo passaggio è quasi la prova sacrilega di un’identità ricercata tra il divino e l’umano dei due personaggi e questa blasfemia, per lui così credente, diviene lo spiraglio in cui entra il maligno, ovvero la presunzione di un identico valore di sacrificio umano e carnale. Ma poi arriverà l’estasi, a salvare il nostro artista.

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Wallace viene mostrato inerme, incatenato, sanguinante, pieno di lividi (come avverrà in The Passion per il Cristo) ed anche messo di fronte all’orrore di ciò che lo aspetta: il torturatore-capo mostra i suoi strumenti di supplizio, apparecchiati come misteriosi ed inquietanti attrezzi di scena, con la recitata severità di un illusionista che sfida il suo pubblico a trovare il trucco delle sue magie.

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Poi, tra gli applausi della folla, come quella che nell’antica Roma assisteva ai circenses offerti dagli imperatori romani, con le loro spettacolari esecuzioni pubbliche, inizia la lenta e prolungata tortura: senza contare tutta la preparazione, parliamo di più di 6 minuti, un’enormità per un film della metà degli anni ’90, che fino a quel momento, pur senza lesinare sangue e dettagli raccapriccianti, aveva avuto soprattutto un afflato storico e sentimentale, rivolgendosi ad un pubblico il più vasto possibile.

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Il nostro Mel, però, a questo punto della pellicola è entrato a gamba tesa nel dolore e tratta i suoi spettatori come nel film viene anche trattata la folla che assiste sotto al patibolo: prima ammaliandola, con l’eroismo del suo personaggio e poi terrorizzandola per lo sbudellamento continuato (non mostrato, ma suggerito in modo esplicito ed anticipato dalla scenetta della coppia di nani di cui abbiamo parlato prima), tanto da spingere, sia nella finzione come nella realtà, lo spettatore stesso ad implorare la resa del condannato, affinchè una morte rapida sopraggiunga a terminare quello strazio.

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La lunga tortura in Braveheart ha luogo in tre atti, con una sorta di catalogo riassuntivo di tre torture molto in voga nel Medioevo: Hanged by the neck (Impiccato e Soffocato per il collo, non necessariamente mortale), Stretching (Allungamento forzato, in questo caso con due uomini per le braccia ed un cavallo per le gambe, anch’esso non necessariamente mortale), Disemboweled (Sventramento, laddove l’addome viene aperto con un falcetto, quindi le interiora vengono lentamente estratte mentre il soggetto é ancora in vita, ma dopo 6 o 7 metri di intestino egli muore).

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È proprio nella descrizione di questo terzo atto che il nostro regista, all’apice della rappresentazione della sofferenza, mette in scena l’Estasi.

Il boia ha già alzato il braccio che regge la scure con cui sta per mozzare la testa di Wallace, quando Mel Gibson ferma il tempo, lo distorce, allungandolo in modo impossibile, perché il suo eroe in quell’istante ha raggiunto uno stato di coscienza in cui non sente nemmeno più il dolore, trovandosi in quella dimensione, quasi astrale, dove i santi e gli sciamani sviluppano la prescienza ed è per questo che riesce ad accorgersi della presenza di Murron, la sua donna amatissima, uccisa dagli inglesi all’inizio della storia: egli solo riesce a vederla in mezzo alla folla, mentre l’attraversa di lato incurante di tutto, finché ella gli sorride, come già fosse nel regno dei cieli, dove attende il suo uomo nella pace eterna, ricompensa per gli eroi che hanno combattuto per la giustizia, per i beati che hanno resistito al dolore, per i martiri che hanno incontrato il divino nel dolore prima di spegnersi.

Poi il tempo riprende a scorrere e la scure del boia taglia la testa di Wallace.

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Spendete 66 secondi del vostro tempo e guardatevi la clip seguente, tenendo bene a mente quello “spostamento laterale” che Murron compie indisturbata in mezzo alle altre persone, senza che nessuno si possa avvedere della sua presenza incorporea, perché lo ritroveremo dopo 9 anni in The Passion: quel particolare movimento viene chiamato, dagli pseudo-ricercatori dell’occulto (che spesso hanno preteso di immortalarlo in foto o riprese video di dubbia fattura), la “mossa del diavolo” (Devil’s Move) e la qual cosa è notevole, considerando che qui lo spirito di Murron dovrebbe essere un angelo:

Sono passati 7 anni da Braveheart, quando l’anomalo e geniale scrittore e regista M. Night Shyamalan affida a Mel Gibson il ruolo di un pastore protestante che, dopo la morte del figlio, ha messo in crisi la sua stessa fede in Dio, ma un’invasione aliena lo metterà di fronte ad un nuovo scetticismo e ad una nuova necessità di credere nell’impossibile: quasi come un presagio o forse semplicemente come una risposta ad un suo bisogno, il nostro artista si mette in gioco nel film Signs con una convinzione quasi sacrale e regala un’interpretazione solenne, sempre in bilico tra la sofferenza e l’epifania di verità.

È in questo periodo che Gibson studia i testi delle due mistiche cattoliche, pesantemente antisemite, Maria di Agreda e Anne-Catherine Emmerich e sarà proprio sulle parole di quest’ultima in particolare (riferite al mondo dal poeta e scrittore Clemens Brentano) che comincerà a costruire il progetto cinematografico della sua intera vita ovvero un film sugli ultimi momenti di vita di Gesù.

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Malgrado gli innumerevoli miracoli attribuiti dalle testimonianze alla suora cattolica tedesca (solo in minima parte assunte come prove dalla commissione del Vaticano, che dal 1892 per 112 anni ne vagliò la presunta santità, fino alla beatificazione finale avvenuta per decreto di Giovanni Paolo II nel 2004), compresi i sintomi di possessione occulta mostrati sin da bambina (come la capacità di levitare ed il viaggio astrale, durante i quali dichiarò di aver assistito alla morte di Luigi XVI e di Maria Antonietta e di aver persino visitato il Purgatorio ed il Paradiso), nonché infine le sue dichiarazioni di aver ricevuto il dono della stimmate, Gibson era interessato solo alle parole della Emmerich sul duello interiore e metafisico tra Cristo e Satana, tra l’Uomo ed il Male, tra l’Aldilà di Vita Eterna ed un Aldilà di Inesistenza ed Insignificanza: per questo strutturò il suo film in modo diversissimo da qualsiasi altro precedente hollywoodiano.

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A differenza dei vecchi film statunitensi aventi come soggetto la storia di Gesù o altri brani del Vecchio e Nuovo Testamento, in The Passion non viene mai, infatti, mostrato nulla di ultraterreno o sensazionalistico: la narrazione degli ultimi giorni di vita del Figlio di Dio avviene con i toni del melodramma storico e con un’attenzione particolare alla ricostruzione quasi documentaristica degli usi e costumi delle popolazioni del tempo, comprese quelle degli invasori romani: persino la scelta di girare il film e presentarlo al pubblico di tutto il mondo in latino ed aramaico non ha precedenti, realizzata grazie alla traduzione ed all’attenzione maniacale dal Reverendo William Fulco, gesuita e docente di lingue mediterranee antiche presso la Loyola Marymount University di Los Angeles, scelto da Gibson come consulente linguistico della sua pellicola.

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La cura nella scrittura dei dialoghi, tra l’altro, è stata tale che sono stati appositamente introdotti da Fulco tanti piccoli errori e storpiature dialettali nelle battute dei soldati romani, quando essi usano l’aramaico per rivolgersi al popolo della Giudea, disseminando così la pellicola di sottigliezze quasi invisibili, ma che contribuiscono ugualmente a connotare i personaggi: una delle più evidenti, ad esempio, è la scena in cui Pilato si rivolge a Gesù in aramaico maccabaico, storpiandolo notevolmente, mentre questi gli risponde in un latino impeccabile.

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L’unica vera concessione allo spiritismo in questo film, seppur potentissima, è la presenza del Demonio in alcuni momenti cruciali: esso è presente nel campo cinematografico, ma mai incarnato, mai visibile ad altri se non al Cristo stesso, proprio a sottolineare quel duello metafisico che si combatte perennemente fuori dal piano di realtà degli umani.

Come già per Gesù, anche per la figura del Demonio,  Gibson sceglie una rappresentazione dimessa, con guance e carne umana sul suo viso, con la testa calva e coperta da un semplice cappuccio nero: il riferimento immediato è senza dubbio il personaggio della Morte così come è stata rappresentata da Ingmar Bergman nel suo capolavoro immortale Det sjunde inseglet (Il settimo Sigillo) del 1957, dichiaratamente usato da Gibson come ispirazione, sia materica che concettuale.

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Non è casuale, infatti, che tutto il film del maestro svedese poggiasse sul tema della fede religiosa (non scordiamoci di come Ingmar Bergman fosse figlio di un pastore protestante, al pari del deuteragonista del film Signs di cui abbiamo parlato righe sopra), intesa come strumento per vincere la morte stessa ed usata come arma vincente dal Cavaliere (la cui fede in Dio ha vacillato dopo le Crociate) per sconfiggere il vuoto dell’Esistenza, così come non è casuale la struttura del duello (partita a scacchi) tra il Cavaliere e la Morte.

Allo stesso modo, anche in The Passion è sempre una battaglia a due lo scontro tra il Figlio di Dio e Satana, giocato sul bordo dell’Apocalisse, perché, come racconta il libro di Giovanni, il Settimo è appunto l’ultimo dei sigilli che bloccano la lettura del Libro tenuto in mano da Dio, quello con la Rivelazione finale che permetterà a tutti gli uomini di sconfiggere Satana ovvero il Male presente nei loro cuori e solo l’Agnello di Dio (ossia suo figlio) potrà togliere tale sigillo.

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La lettura dei testi di Brentano (con le parole della beata Emmerich), affiancate alla conoscenza già posseduta del Vecchio e del Nuovo Testamento, produrranno in Gibson un processo interiore che lo condurrà in The Passion ad un apparentemente sacrilego ed irriverente filo di empietà identificativa, con il quale metterà in scena la figura umanizzata del Cristo (incarcerato dai romani perché rivoluzionario, sia politicamente che religiosamente), al pari di un nuovo William Wallace, ma soprattutto come la rappresentazione di se stesso e del suo furore fideistico di artista perennemente in lotta, convinto di essere il depositario di verità sovrumane, come il Doctor Doom fumettistico che, in tutte le storie di Kirby e Lee, anche quando commetteva gli atti più scellerati, lo faceva con la convinzione nel suo cuore di essere nel giusto.

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Gibson è Wallace, ma è anche Cristo (quello della sua fiction, non quello evangelico, sia chiaro), tanto che suoi sono realmente i piedi che Maria Maddalena (una Monica Bellucci forse nel ruolo più convincente di tutta la sua carriera di attrice) pulisce fisicamente nel film e sempre sue sono le dita riprese nel dettaglio delle mani di Gesù durante la lunga scena della crocefissione, con un furore che ha il gusto della penitenza e della fustigazione autoinflitta: è così che la sua ricerca dell’Estasi diventa in The Passion la sublimazione catartica di quanto già visto in parte in Braveheart, perché qui la mossa del diavolo non sarà compiuta da un presunto angelo o da un fantasma, ma dal Demonio stesso (impersonato da una sorprendente Rosalinda Celentano, resa appositamente emaciata da una dieta a base di solo riso e fagioli, a cui fu obbligata dal nostro regista per tutta la durata delle riprese del film) e dall’Anticristo (un mostruoso bambino dall’aspetto di un vecchio, portato sullo schermo dall’attore italiano Davide Marotta, scelto in un guizzo di geniale scorrettezza di casting non solo per il suo nanismo, ma per essere stato interprete di mostri deformi in Phenomena di Dario Argento ed in Dèmoni 2… L’incubo ritorna di Lamberto Bava).

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Questo processo identificativo, interiore ed artistico, è essenziale per comprendere il valore dell’accanimento visivo che Gibson Von Doom decide di mettere in scena sul corpo umano di Gesù, che viene nel film mostrato in un crescendo di drammaticità senza precedenti anche per pellicole espressamente costruite sulla tortura: tolto 1 minuto scarso di flashback e 3 minuti complessivi di intense scene preparatorie e conclusive della lunghissima tortura, restano circa 8 minuti di flagellazione, fotografata nel dettaglio della pelle che si lacera e si strappa sotto le frustate ed i colpi tirati con il flagrum (sferza normalmente costituita da funicelle di cuoio con nodi e palline di piombo all’estremità, ma qui rappresentata nella variante più sadica possibile ovvero quella con ganci di ferro, atti a rendere più veloce il lavoro di rimozione della carne).

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Come per la simmetrica scena di tortura in Braveheart , anche in questo caso la scaletta di montaggio è la medesima, con in primis l’arrivo del condannato martoriato ed in ceppi, ma la folla che lo attende è più teatralmente disposta e classificata, con gli infedeli ed i sacerdoti del tempio (tutti colpevoli del reato forse universalmente peggiore mai concepibile per Gibson ossia il deicidio) ed in mezzo ad essa i discepoli, impietriti da un orrore che non pensavano mai potesse raggiungerli ed infine la sacralità delle figure di Maria Maddalena, distrutta dal dolore e della madre di Gesù, Maria, resa in modo efficacissimo, con una maschera di sofferenza materica palpabile, dall’attrice rumena di confessione ebraica Maia Morgenstern, fortemente voluta nel casting dallo stesso Gibson, quasi in divino contrappasso.

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Anche il punto di vista dello spettatore è diverso, più alto, ma non come quello di Dio (al cinema il “God’s Eye” è per l’appunto una ripresa assolutamente perpendicolare), bensì come quello del governatore Pilato, che da pochi metri di altezza della sua tribuna assiste non visto con vigliacca scelleratezza: una ricercatezza stilistica che esula il commento morale e resta solo una cifra visiva, sia in apertura che in chiusura delle lunga scena della flagellazione.

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A proseguire il significativo parallelo tra i due film, anche in The Passion la tortura si svolgerà in tre tempi, con tre fasi incrementali di fustigazione: le vergate iniziali, l’uso brutale del successivo flagrum (in cui vedremo la pelle di Gesù che si strappa ed il sangue che schizza sulla faccia del centurione che sta ridendo) ed infine il dolore oltre ogni soglia, il terzo atto, quando il flagrum, già usato in modo devastante sulla schiena precedentemente piagata e lacerata dalle verghe, viene adoperato ora per colpire il condannato girato a faccia e torace in su, massacrandolo quindi a 360 gradi: essendo inedita tale procedura di fustigazione (tranne nei casi di condanna a morte, che però in quella fase della storia non era stata ancora comminata da Pilato), Gibson fa intuire allo spettatore che l’eccesso di zelo da parte dei legionari romani nel colpire il Cristo potrebbe essere dovuto all’intervento (divino?) del Demonio, che passando tra i soldati e godendo dello spettacolo sadico inferto al suo nemico, ne avrebbe rincarato la dose.

Siamo infatti arrivati anche in The passion all’atteso momento della Devil’s Move, a quel movimento del Diavolo che avevamo conosciuto in Braveheart e che qui ritroviamo sublimato ed ingigantito, tanto da essere presentato persino in due sequenze distinte, di cui la prima è di fatto solo anticipazione drammatica ed esplicativa della seconda:

Con un climax lineare di ferocia, scandito anche dal conteggio in lingua latina dei colpi portati dai torturatori, lo spettatore viene accompagnato attraverso il demoniaco corrispettivo filmico della transustazione sacerdotale: come un prete che nella Messa mostra il mutamento di tutta la sostanza del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, così Gibson schizza letteralmente il suo pubblico del sangue e del corpo scarnificato di Gesù, torturando lo spettatore (tentandolo) nella fede ed anche nella redenzione dalla malvagia parte sadica del proprio inconscio, mentre ammira l’estetica del dolore.

Si giunge in questo modo al vero momento epifanico dell’estasi, con la discesa sulla terra di quel piano astrale di cui parlavamo per Wallace, portandoci direttamente nel centro del teatro metafisico ove si svolge la battaglia con il Demonio, aspettando in modo beffardo ed arrogante una vittoria sul figlio di Dio che invece non arriverà.

Sono non più di quaranta secondi, per una imperdibile sequenza, talmente densa di significati da perdersi in un pozzo di rimandi:

Il nostro viaggio ai confini dell’Apocalisse, del Martirio e dell’Estasi nel cinema di Mel “Von Doom” Gibson è finito e davvero mi scuso per il fiume di parole che ho usato per condurvi fin qui, in un non-luogo che ha più il sapore di una domanda che non la serenità di una meta.

Vi lascio con un post-scriptum sul concetto stesso di tortura ed ancora una volta mi viene in soccorso l’etimologia per capire il significato profondo che una parola porta con sé: tortura deriva da tortus, participio passato del verbo latino torquere, che significa “piegare” (sia in senso fisico che psicologico), con specifico riferimento alla capacità del prigioniero a resistere agli interrogatori; come tale, anticipa non già il metodo, ma lo scopo della tortura stessa, come viene anche oggi concepita dai moderni sistemi in uso, ad esempio, tra gli agenti della CIA (esemplare in tal senso la serie di tavole illustrative, realizzate per Vice dal comic artist statunitense di taglio uderground Krent Able).

That’s all folk!


A questo link, potete trovare la sotto-pagina del blog dedicata a Mel Gibson

Mel-Gibson-inside

In questo post, ho parlato dei seguenti film:

La passion de Jeanne d’Arc“, FRA, 1928
Regia: Carl Theodor Dreyer (assistito da Paul La Cour)
Sceneggiatura: Carl Theodor Dreyer e Joseph Delteil

Det sjunde inseglet” (Il Settimo Sigillo), SWE, 1957
Regia e Sceneggiatura: Ingmar Bergman
dal suo stesso lavoro teatrale Trämålning (Pittura su Legno)

The Man Without a Face“, USA, 1993
Regia: Mel Gibson
Sceneggiatura: Malcolm MacRury
dal romanzo omonimo di Isabelle Holland

Braveheart“, USA, 1995
Regia: Mel Gibson
Sceneggiatura: Randall Wallace

The Messenger : The Story of Joan of Arc“, FRA, 1999
Regia: Luc Besson
Soggetto e Sceneggiatura: Luc Besson e Andrew Birkin

Signs“, USA, 2002
Sceneggiatura e Regia: M. Night Shyamalan

The Passion of the Christ“, USA, 2004
Regia: Mel Gibson
Sceneggiatura: Mel Gibson e Benedict Fitzgerald
dal Nuovo Testamento e da The Dolorous Passion of Our Lord Jesus Christ
della beata Anne Catherine Emmerich

Apocalypto“, USA, 2006
Regia: Mel Gibson
Sceneggiatura: Mel Gibson e Farhad Safinia

Hacksaw Ridge“, USA, 2016
Regia: Mel Gibson
Sceneggiatura: Robert Schenkkan e Andrew Knight
dal romanzo The Conscientious Objector di Terry Benedict


Oltre che su vari albi successivi, la storia delle origini del Doctor Doom da me riassunta è per lo più raccontata su

Fantastic Four Annual (1963) #2
Testo: da Stan Lee
Matite: Jack Kirby
Chine Chic Stone


Per approfondire a livello visivo la figura controversa della beata Anne-Catherine Emmerich, questo è il link al trailer della mini-serie di 5 documentari televisivi della Sydonia Entertainment “Rebel Spirits – Segnati da Dio“, tra i quali spicca quello dedicato appunto alla suora tedesca:


22 pensieri su “Apocalisse, Martirio ed Estasi nel cinema di Mel “Von Doom” Gibson

  1. I film di Mel Gibson sono immediatamente riconoscibili, perché questo regista ha una dote riservata a pochissimi: l’abilità nel creare un’atmosfera epica. E il bello è che ci riesce non soltanto nelle scene di guerra, ma anche quando affronta dei temi di vita quotidiana, come l’amore, la famiglia e l’amicizia. Ad esempio, ne La battaglia di Hacksaw Ridge le scene ambientate fuori dal campo di battaglia sono addirittura le migliori di tutto il film, perché ci fanno capire che Desmond Doss non era straordinario soltanto quando indossava una divisa, ma in ogni aspetto della sua vita, e ha illuminato con la sua sconfinata umanità tutte le persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
    Detto questo, non si tratta di un autore infallibile, per un motivo molto semplice: è un uomo costantemente in bilico tra genialità e pazzia, e quindi la qualità dei suoi film dipende molto dallo stato d’animo in cui si trova quando li gira. Se li gira in un periodo in cui è stato risucchiato nel gorgo della sua pazzia e dei suoi vizi, inevitabilmente trascinerà il film a fondo con sé; se invece li gira in un periodo in cui il genio prevale sulla sregolatezza, allora rimarremo ancora una volta a bocca aperta davanti al suo talento.
    Insomma, a un genio non puoi chiedere la continuità: devi mettere in conto che, per ogni suo film da 5 stelle, ce ne sarà sempre uno che di stelle non ne merita neanche una. Se non ti sta bene, puoi benissimo abbandonarlo e rivolgerti ad altri registi, a degli onesti artigiani che non tireranno mai fuori un capolavoro, ma un film da 3 stelle riescono sempre a garantirtelo. Io stesso non so quale sia la miglior tipologia di regista tra queste 2.
    A proposito di film “cristiani”, ti segnalo che a breve uscirà Maria Maddalena. Ritengo che con questo film abbiano commesso 2 errori mortali:

    – promuoverlo pochissimo (nonostante la presenza di Joaquin Phoenix nella parte di Gesù, che avrebbe potuto incuriosire non poco il pubblico);
    – farlo uscire subito dopo gli Oscar. I film biblici hanno storicamente un ottimo feeling con l’Academy (perfino il criticatissimo La passione di Cristo ottenne qualche nomination), e quindi poteva essere l’occasione giusta per dare finalmente la statuetta a Joaquin Phoenix. Anche perché conosco Sam Rockwell, e posso dire con sicurezza che anche al suo meglio non reciterà MAI come il buon Joaquin.

    Ma tant’è, ormai è andata. Ah, ti segnalo un altro splendido film che ho visto di recente: “Distretto 13 – Le brigate della morte.” Se Mel Gibson è un maestro nel creare un’atmosfera epica, John Carpenter è imbattibile nel creare un’atmosfera gotica e inquietante, e questo film lo prova in modo molto chiaro. E’ lo stesso motivo per cui (nei fumetti) adoravo il Todd McFarlane scrittore, sia quando lavorava sull’Uomo Ragno che quando passò a concentrarsi esclusivamente su Spawn. Poi finì le idee, quelle poche che gli venivano cominciò a sviluppare con una lentezza esasperante, e quindi mi stufai di lui. Ma quando rileggo i suoi esordi come scrittore, rimango sempre incantato dalle sue atmosfere gotiche e inquietanti. So che avrei dovuto trovare dei sinonimi perché l’ho già detto prima, ma soltanto questi 2 aggettivi riescono a cogliere la magia della sua scrittura.

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    • Da un lettore appassionato di fumetti come te non potevo aspettarmi certo di meno della tua felicissima intuizione su Gibson! Che è poi simmetrica a quella con cui ho costruito anche la mia analisi: siamo entrambi perfettamente in sintonia nel considerare Gibson un genio, ma incostante, un maestro, che però è vittima/succube della sua stessa sregolatezza e come dici giustamente tu essendo lui «costantemente in bilico tra genialità e pazzia, […] la qualità dei suoi film dipende molto dallo stato d’animo in cui si trova quando li gira».

      Gibson va preso così, come si dice in gergo “con tutto il pacchetto” e se non piace, pazienza!

      Dal punto di vista cristiano, ho voluto poi sfatare il mito critico di come l’esibizione della flagellazione di Cristo in The Passion sia stata pornografia, perché sono davvero convinto che l’intento di Gibson fosse tutt’altro (tra l’altro, anche tutte le sequenze della Maria Vergine sono nel film assolutamente in sintonia con l’immagine che la figura stessa della Madonna ha per la Chiesa e per i fedeli ovvero la Misericordia, quasi a mitigare l’immagine che i profeti davano del Dio vendicatore del Vecchio testamento: memorabile la scena in cui Maria, durante il calvario, nel momento della caduta in ginocchio di Gesù, ha la visione in flashback di una caduta di suo figlio da bambino e lei che da madre umana (non divina) gli corre incontro per aiutarlo/proteggerlo, mentre ora, che come Agnello di Dio viene sacrificato per il bene di tutti si duole della frustrazione come madre che non può più aiutarlo.

      Quello che per molti è apparso il più sbilanciato dei film di Gibson per me è invece il più misurato.
      È anche per questo che ho voluto inserire la citazione di uno dei film più amati dallc ritica cinematografica di tutti i tempi ossia “Det sjunde inseglet – Il settimo sigillo” di Bergman: quasi nessuno, quando ne parla, sottolinea la valenza religiosa del film e la sua lotta tra una Esistenza Vuota ed una Esistenza Piena… Ma si sa che si dice solo ciò che fa più comodo…

      P.S. Ho il terrore dei film religiosi in senso stretto, commissionati dalla Hollywood tradizionale, perché molto spesso il maggiore tradimento proviene proprio da chi invece, come produttore o regista, dovrebbe tutelarne maggiormente la fedeltà… E’ incredibile, infatti, ma alcuni dei più bei film religiosi sono stati fatti da registi e sceneggiatori che al contrario erano laici (a volte persino atei!): caso emblamitico il bellissimo “Agnes of God – Agnese di Dio“, del 1985, scritto dall’autore teatrale John Pielmeier e diretto da un cineasta come il mitico Norman Jewison (che certamente a suo tempo non era un baciapile o un sagrestano e già autore di opere di rottura negli anni ’70, quali Jesus Christ SuperstarRollerball) e che raccontando la storia scandalosa di un fatto misterioso avvenuto in un convento di suore, finisce per esaltare gli aspetti più sinceramente religiosi dei personaggi.

      Sai, come diceva Adolphe Thiers, alcuni sono “più realisti del re” e diventano ridicoli…

      P.P.S. Come già ti dissi altre volte, John, io sono vecchio in confronto a te e sono cresciuto con registi come Carpenter! Ovviamente il suo “Assault on Precinct 13 – Distretto 13 Le brigate della morte” è un ultra-cult del suo genere che amo alla follia ancora oggi!! Tra l’altro, in considerazione del comune amore per il western, avrai visto che è un remake dichiarato (non nascosto ma esibito) del classico “Rio Bravo – Un dollaro d’onore” del 1959 di Howard Hawks con il nostro mitico John Wayne!

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      • Eh, in effetti più andavo avanti a vederlo e più mi rendevo conto che io e Carpenter abbiamo in comune un grande amore per il Duca. Con la differenza che lui è un genio del cinema e quindi lo omaggia con un capolavoro come Distretto 13, io invece… con un misero nickname su WordPress. 🙂 E lo dico con autoironia, non come invidia: al contrario, ho sempre provato ammirazione per chi riconoscevo essere superiore a me. Anche perché, te lo confesso, avendo una grande autostima mi è capitato molto di rado di sentirmi inferiore a qualcuno. 🙂 Grazie per la risposta! 🙂

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          • Tengo in particolare alla sincerità: non riuscirei mai ad elogiare un libro o un film che in realtà mi fanno schifo. Sia perché non troverei le parole adatte, sia perché tirerei consapevolmente un bidone al mio pubblico, e so che in tal caso i miei lettori si vendicherebbero furiosamente, abbandonando per sempre il mio blog. E avrebbero pienamente ragione.
            Non a caso, quando nel 2014 una casa editrice mi chiese di recensire 3 suoi libri (pagandomi 25 euro per ogni post), io accettai solo a patto che quei libri mi fossero piaciuti davvero; in caso contrario, arrivederci e grazie. E accettai non per quei miseri 75 euro che mi avevano proposto, ma perché 2 libri su 3 erano stati scritti da degli autori emergenti, e mi faceva piacere contribuire a fargli vendere qualche copia in più.
            Saranno famosi quei 2 autori? Rispondo con il mio amato Manzoni: ai posteri l’ardua sentenza… 🙂

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  2. I tuoi post divulgativi, caro amico, sono in assoluto la cosa che leggo più piacevolmente su internet.
    Nonostante sia un internauta di lungo corso e “navigato”, mai mi è capitato di leggere saggi di questo spessore: si, perchè qui si è valicato di un bel pezzo il livello standard di un blog su wordpress per arrivare spediti nell’empireo della letteratura divulgativa (di nuovo).
    Ergo, il tuo non è un post, bensì un saggio.
    Se solo fosse possibile tradurre i tuoi saggi (dal primo che capitò di leggere (Mr. Holmes: tradurre, tradire, ricreare) passando per la magnifica digressione in 5 parti sulla Serialità Televisiva (nella quale scoprii di un avere un amico talmente folle da vedersi serie tv indiane e messicane 🙂 fino a quest’ultimo, ebbene avremmo tra le mani un trattato di divulgazione cinematografica e immaginifica con pochi eguali nelle librerie di questo paese.
    Ma purtroppo non si può fare, perchè il Nostro non si limita a scrivere e spiegare in modo perfetto l’argomento di cui tratta, ma impreziosisce i suoi saggi con dei video semplicemente perfetti, che arrivano al momento giusto condendo e arricchendo il significato di quanto spiegato a parole.

    Quindi?

    Niente, tocca rassegnarsi al fatto che alcune cose belle non dimorano alla luce del sole, restano in penombra, talvolta nascoste in un sottoscala e magari bisogna pure distendersi su un sacco per vederle.

    Ecco, l’ho detto, i tuoi post per me valgono come un Aleph.
    Lo so che ti schernirai, ma questo è quanto e non mi convincerai mai del contrario. Sappilo.

    E agli altri fortunati che son passati di qui a leggere dò un consiglio, anzi due.
    1. lo so che cotanta meraviglia toglie il fiato, ma non vi sentite in imbarazzo e commentate perchè discutere con l’anfitrione di questo blog vi arricchirà ancora più di quanto non abbia fatto con il saggio
    2. diffondete e divulgate il Verbo, perchè tutti devono avere la fortuna di capitare su questa pagine

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    • Aaaah, sei davvero impagabile, amico mio!
      Non solo hai letto tutto il mio post (tra i più complessi ed enciclpedici che io abbia mai scritto… Il che lo trasforma automaticamente in impopolare per i tempi del web), ma lo hai anche apprezzato, decantadone la forma e l’impaginazione!

      Non voglio nemmeno fare il falso modesto e mi tengo stretti i tuoi complimenti perché, come dicevo su FaceBook, ho scritto questo pezzo quasi in filosofica in antonomia all’analfabetismo imperante che ci circonda, un po’ per fare affronto alla semplificazione manichea che sta spingendo anche le migliori penne a dover sempre riassumere tutto, così che il massimalismo diventa un credo, il nuovo slogan di battaglia dei moderni barbari riformisti.

      Anche il soggetto del mio articolo è certamente quanto di meno modaialo in circolazione e ne sono lieto: la religione è inoltre materia spinosissima, sia al cinema, come anche in letteratura e come ho scritto nella risposta a Wwayne, è apparentemene paradossole che le migliori opere artistiche di consacrazione della stessa siano state prodotte a volte perisno con intenti opposti: diciamo che, come regola generale, l’arte non può piegarsi alla commissione di opere forzatamente educative, altrimenti suona falsa e crea l’effetto opposto (come i film di propoganda che finiscono per farti simpatizzare per il nemico tanto sono sfacciati nella loro partigianeria).

      Ma tornando al tuo commento generosissimo, dopo avermi regalato la tua abituale iniezione di autostima, hai poi persino spronato coloro che hanno letto senza commentare ad osare di dire la loro… E questo mi ha fatto persino sorridere di compiacimento! Grande Lapinsu!!

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    • Aggiungo inoltre che questo post ha visto la luce grazie soprattutto ad una nostra chiacchierata proprio sul film The Passion, conversazione che mi ha spinto allora a fare ricerche approfonditissime sulla questione, sgombrando il campo dalle leggende e lasciando solo la verità documentata dalle interviste di chi era sul set e nella writer’s room di Gibson.

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  3. Come al solito i tuoi articoli sono incredibili. Sei riuscito a passare dai vari argomenti in maniera così elegante e naturale che a volte non me ne accorgevo. Anche la piccola parentesi fatta su Von Doom è stata ottima (e finalmente qualcuno che parli di questo villain, che per molto tempo è stato sottovalutato anche per colpa dei film in cui appariva). Praticamente hai fatto una filmografia molto approfondita del cinema di Mel Gibson, parlando dei vari punti che accomunano le pellicole e delle tematiche che a lui sono care.
    Come ha detto lapinsu, i tuoi articoli sono saggi e questo, insieme al tuo amore per il cinema, rende ciò che scrivi unico.

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    • Grazie Butcher per le meravigliose parole che hai usato per rendere omaggio al mio post e soprattutto a me! È verissimo infatti che amo il cinema in modo viscerale ed amo altrettanto parlarne ma questo non presuppone che io sappia farlo: sono stato persino indeciso fino all’ultimo se pubblicare o meno questa lunghissima digressione su Gibson (perché la facilità di essere fraintesi era enorme, così come la difficoltà di lettura di così tante parole su una piattaforma web), ma il tuo post su Frankenstein e la ricerca di Shiki su Lain, entrambi pezzi dalla valenza più culturale che emotiva, mi hanno fatto superare la paura.

      Non mi aspetto che simili operazioni siano popolari ma già il tuo gradimento, così come quello degli altri colleghi blogger, è un premio inatteso: complimenti che si sono aggiunti alla soddisfazione che già avevo per il solo essermi divertito a scrivere.

      Cavoli, sono stato logorroico anche nella risposta!

      Bye

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  4. Dilungarsi da parte mia sulla carriera di quell’uomo dopo un simile post e dopo tutte le risposte che hai ricevuto da ben più preparati spettatori e critici è impossibile e infatti non dirò niente.
    Aggiungo tuttavia il mio pensiero. Senza Mel, senza il suo modo pazzesco, a occhi sbarati, sempre di corsa, di recitare non ci sarebbe un intero filone cinematografico. Adorabile e perfetto in ogni ruolo o, per dirla bene, ogni ruolo perfetto per diventare suo. Non credo che Amleto sarebbe stato diverso se recitato da chiunque altro, ma lui è così, folle.
    Memorabile sempre, vestito da scozzese come da colono americano o da uomo qualunque o poliziotto. Un vero cavallo da guerra, niente da dire, anche come regista.
    Ora che resta di questa sua carica? Per fortuna chilometri di girato e un buon ritorno, sotto i panni di uno che ricomincia. Bravo e brava la Foster, che ce l’ha regalato di nuovo.

    Ps.: si vede che lo adoro?

    Sul gore, sul sangue, sulla sofferenza che alberga nei suoi film che dire… a volte eccessiva a volte troppa, ma mai falsa (oddio forse qualche volta un po’ oltre l’umano) ma… oh, il mondo spesso è peggio.

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  5. Approfittando delle festività pasquali (giusto per rimanere in tema), mi sono messo comodo e leggendo questa tua analisi il tempo è letteralmente volato.
    Che grande articolo o, ad essere precisi come chi prima di me ha giustamente evidenziato, che grande saggio! Si può creare del materiale educativo ma che al contempo non sia didascalico o già trito e ritrito ed in questo sei un maestro, riuscendo a condurre il lettore per mano in strade mai battute. Ho particolarmente apprezzato il paragone con il mitico Dottor Destino (e a questo punto devo chiederti chi sarebbe la controparte fumettistica di Eastwood) e tutti quei piccoli excursus interessanti e, almeno per me, educativi dal taglio storico (le tre fasi della tortura le ignoravo) o di altra origine (la mossa del Diavolo), per non parlare di tutta la tua lettura complessiva alle opere di Gibson. Sulla Passione non posso esprimermi perché, complice una mia allergia ai film “religiosi” probabilmente maturata a causa di ripetute visioni dei classici film per la tv di casa Rai che, fino a qualche anno fa, arrivavano puntuali, non ho visto il film (oltre al fatto che mi sono spoilerato il finale. Scherzi a parte, mi hai talmente incuriosito che appena possibile lo recupererò). Quanto a Braveheart, è uno di quei film che riguardo sempre volentieri, anche al netto delle inesattezze storiche. La scena della dipartita di Wallace è di una potenza tale che rimane impressa e averla analizzata e spezzettata, quasi con rigore proustiano da parte tua, me la fa apprezzare ancora di più.
    Dopo aver letto il tuo saggio ne so più di prima e posso apprezzare dettagli che ignoravo bellamente.
    Grazie.

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    • Tu e gli altri coraggiosi, che avete sopportato la mia logorrea professorale ed avete avuto la resistenza per arrivare fino alla fine di uno dei miei post più lunghi ed ostici, mi ridate davvero fiducia nell’umanità!!! Sono infatti ben consapevole che la lunghezza dei miei pezzi supera di ampissima misura qualsiasi limite di tollerabilità oggi previsti sul web e che oltretutto il mio amore per la settima arte mi fa discettare a volte in modo ermetico ed apparentemente contraddittorio, rendendo ciò che scrivo spesso difficile da digerire, ma sono anche una persona così fortunata da aver conosciuto persone di spessore e cultura come te, che sanno leggere oltre le righe e questo per me è la soddisfazione più grande!

      Per quel che riguarda i film a tema religioso, come ho scritto in un commento, in genere li detesto, nel modo più categorico, soprattutto per l’insopportabile veemenza evangelica ed il patetico indottrinamento, a partire dalle vecchie insopportabili letture bibliche in salsa hollywoodiane, ma per Gibson vale la constatazione di critica estetica che vale anche per le opere espressionistiche della campionessa della propaganda nazista Leni Riefenstahl, laddove il sublime diventa estasi e la follia scavalca la propaganda.

      Sei un lettore fin troppo generoso con me, Amulius, ma ovviamente me ne compiaccio!

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