Lunga vita al Cyberpunk, Pt. 1 di 2

Quando i professionisti della scienza oratoria che vanno sotto il nome generico di “motivatori” (mezzi psicologi e mezzi venditori di fumo, sempre in bilico tra i guru ed i predicatori religiosi in salsa di marketing) impartiscono lezioni pubbliche su come ognuno di noi dovrebbe affrontare la vita quotidiana, sia essa familiare, scolastica o lavorativa, insistono tutti su un postulato essenziale e ricorrente nei loro slogan sempre un po’ approssimativi e massimalisti, ossia che non è tanto importante dove siamo oggi e cosa facciamo nel presente, quanto piuttosto dove vogliamo arrivare e cosa ci aspettiamo dal futuro.

Le scelte che ti cambiano la vita, da Matrix, USA, AUS, 1999, Scritto e diretto da Lana (nata come Larry) e Lilly (nata come Andy) Wachowski

Aldilà del tono messianico e delle tecniche usate da questi divulgatori online ed offline, va detto che in quel presupposto di partenza sopra enunciato si nasconde una verità essenziale ed indiscutibile: nulla di ciò che facciamo come individui ha infatti valore se non è alimentato dalla speranza, che come ci insegna il fumetto e la fiction televisiva di Sandman, non è una bugia solo perché si sta credendo in un sogno, ma è un potere capace di farci superare le difficoltà, sia quando si vogliono raggiungere piccoli obiettivi (come leggere un libro impegnativo o fare un lavoro di casa che si è rimandato, eccetera), ma anche molto più grandi (quali il conseguimento di un attestato di studi o una patente o l’ammissione ad un ordine professionale) ed infine le mete decisamente essenziali per la propria esistenza personale, come il miglioramento dello stile di vita, non solo economico ma anche fisico e spirituale.

L’attrice Lou Llobell nei panni di Gaal Dornick, la giovanissima matematica che decide di abbandonare la tribù teocratica delle sue origini per abbracciare il suo sogno di capire l’universo, in Foundation Tv Series, USA, 2021 in corso, ideata da David S. Goyer e Josh Friedman (molto liberamente ispirata al ciclo di romanzi di Isaac Asimov)

La tragica constatazione di come purtroppo l’attuale civiltà neo-capitalistica e neo-liberista (molto assolutoria per i potentati e di contro massificante per la maggioranza della popolazione) stia sotto gli occhi di tutti lentamente uccidendo nelle nuove generazioni qualsiasi aspettativa per un domani più bello e più ricco (in una litania funebre, recitata ogni giorno dai media, dagli scienziati, dagli economisti e dai politici, tale da spingere i membri della nostra società ad accettare senza ribellarsi un destino immutabile di continuo peggioramento), avvalorando l’ipotesi terribile che in un prossimo domani possa addirittura scomparire del tutto il concetto stesso di speranza per un futuro migliore, individuale e sociale, è proprio ciò che sta alla base di quella corrente della letteratura fantascientifica, impegnata a descrivere gli scenari urbani e umani dei prossimi decenni e secoli, che va sotto il nome di cyberpunk.

Particolare di una tavola del totemico fumetto The Long Tomorrow, USA, 1975, scritto dallo statunitense Dan O’Bannon ed illustrato dall’indiscusso maestro francese Jean Giraud (aka Moebius), considerato una delle opere di fantascienza più influenti di tutti i tempi, malgrado la sua brevità.

Tale sottogenere narrativo, prima letterario in senso stretto e più tardi cinematografico, dal punto di vista squisitamente immaginifico e visivo si caratterizza in primo luogo per la descrizione di megalopoli affollatissime, dove le strade e le abitazioni sono disposte su più livelli, in genere coincidenti con lo status sociale dei suoi abitanti, così che più si sale verso il cielo più aumentano i servizi, le comodità e gli spazi di vivibilità, mentre all’opposto più si scende più si sprofonda nel degrado e nell’abbandono, fino al piano più basso, spesso nemmeno abitabile, ricettacolo di rifiuti o scorie velenose, in cui si rifugiano i reietti o coloro che debbono nascondersi.

Il deposito di rottami di Iron City, città dove si svolge il film Alita: Battle Angel, USA, 2019, diretto da Robert Rodriguez su sceneggiatura di James Cameron e Laeta Kalogridis, come adattamento del celeberrimo manga omonimo di Yukito Kishiro

Tra l’altro, con eccezione delle opere più superficiali, sia per i fumetti che per le produzioni cine-televisive non parliamo mai di semplici scenografie (con landscape ad effetto, costruiti solo per stupire e riempire gli occhi dello spettatore o del lettore), ma di vere ipotesi di sviluppo urbanistico parossistico, intese dai vari staff artistici come possibili proiezioni dei disagi già presenti oggi e quindi conseguenze di una gestione della città non basata sulla sostenibilità e sulla convivenza, ma solo sulla volontà arrogante di rimarcare le distanze sociale e di potere: in questo senso i paesaggi urbani disegnati o fotografati nelle opere di genere cyberpunk sono un perfetto complemento per descrivere una società distopica e disumanizzante, perché, per citare l’esperto di pianificazione urbana Gabriele Giudici (dal suo intervento sulla testata Pandora) «Poche cose ci raccontano l’evoluzione di una società come le città. Da esse traspare tanto la stratificazione sociale quanto l’immagine che abitanti e governanti hanno da sempre voluto dare di loro stessi»

La vista sui grattacieli di Bay City, megalopoli costruita sulla vecchia San Francisco, nella prima splendida stagione (specie in confronto alla seconda assolutamente inguardabile) di Altered Carbon Tv Series, USA, 2018-2020, creata da Laeta Kalogridis dal primo romanzo della trilogia dedicata al personaggio del detective Takeshi Kovacs, dello scrittore britannico di sci-fi Richard K. Morgan

In un tale contesto urbano, simile ad una giungla di cavi e cemento, dominato dall’oppressione, dalla tecnocrazia e dalla legge del più forte, la popolazione sarà inevitabilmente composta da una maggioranza di grigie figure borderline, schiavi di uno stato senza identità politica o religiosa ed ogni giorno vittime dei soprusi di pochi esseri umani potenziati da innesti bionici e cibernetici (che modificano il loro corpo trasformandosi in ibridi uomo-macchina nei quali l’umanità viene progressivamente sepolta sotto la velocità e la potenza di protesi da combattimento) ed un governo che si limita ad amministrare le transazioni economiche delle lobby, assicurando l’assistenza sanitaria in base al reddito individuale e non al bisogno, mentre nell’ombra si muovono hacker dipinti come i nuovi creatori, strabilianti navigatori della rete internet, al soldo delle corporazioni o di una fantomatica resistenza, capaci di muoversi nei codici e nelle righe di programmazione delle banche dati e delle reti di comunicazione collegando direttamente il proprio cervello ad un computer, con interfacce spinali simili alle prese di ricarica delle Tesla oppure da ricchi acquirenti di piaceri proibiti vissuti attraverso l’assunzione, nelle loro stesse sinapsi, dei ricordi di qualcun altro, vivendoli poi come propri grazie a dispositivi futuristici che ne hanno registrato le emozioni e le percezioni sensoriali.

Gli interpreti Logan Marshall-Green e Kai Bradley, nei panni rispettivamente del protagonista (Grey Trace) e di un hacker (Jamie) che cerca di aiutare il primo, nel sottovalutato ma apprezzabilissimo film Upgrade, AUS, 2018, girato con un budget bassissimo ma tantissime idee

Tuttavia, malgrado queste sembianze (molto spettacolari in senso stretto), il vero cuore concettuale del cyberpunk, quello ossia attorno cui ruota ogni storia ed anche tutto questo armamentario di treni ultra-veloci, monorotaie sopraelevate, gadget incredibili ed esibite violazioni e mutazioni del corpo umano, resta sempre la descrizione puntuale di una società del futuro distopica, cupa e drammatica, dove non esisterà più giustizia sociale, dove il denaro ed il potere saranno l’unica merce di scambio per qualsiasi rapporto umano, dove tutti i governi democratici o dittatoriali e persino quelli teocratici (come gli odierni regimi politici basati sull’applicazione ortodossa della shariʿah islamica) avranno da tempo abdicato nei confronti delle corporazioni di interesse, intese come evoluzione peggiorative delle attuali multinazionali e dei fondi di investimento miliardari.

Neo-schiavitù legalizzata per lo sfruttamento dei lavoratori, accesso negato alle cure mediche salvavita per i redditi più bassi e la ricerca disperata di un approdo in una terra loro negata dal governo corporativo, tutto questo attraverso gli occhi del personaggio interpretato da Matt Demon per lo splendido e poco consolatorio Elysium, USA, 2013, scritto e diretto dal ribelle Neill “District 9” Blomkamp

Ogni film o serie televisiva o romanzo o fumetto, che voglia definirsi anche solo lontanamente appartenente a questo specifico genere letterario, deve avere quindi come costante narrativa la descrizione (o l’assunzione come data per scontata) di un mondo senza speranza: tutto questo, però, come sa bene chiunque mastichi un po’ di letteratura, ha origini palesemente molto più antiche di quanto non venga spesso detto e di certo non nasce nel 1984 (come altresì potete leggere in ogni analisi frettolosa) con la pubblicazione del leggendario Neuromancer – Neuramante, del romanziere William Gibson, il quale, grazie anche alle opere successive (Count Zero – Giù nel ciberspazio del 1986 e Mona Lisa Overdrive – Monna Lisa Cyberpunk del 1988) viene unanimemente indicato come padre putativo del cyberpunk; oltretutto va detto che non fu Gibson a creare tale etichetta per connotare le sue opere, ma il curatore di narrativa sci-fi Gardner Dozois, che prese in prestito tale parola da un racconto di quegli anni e poi la usò per definire per l’appunto un gruppo di autori e di opere, caratterizzati dalla descrizione di un futuro di oppressione e depressione, dove la scienza è al servizio di un potere che usa la tecnologia come strumento di controllo sugli uomini, sia attraverso il marketing (creando bisogni prima inesistenti e trasformandoli poi in esigenze vitali), ma anche spiando letteralmente abitudini, azioni e pensieri di ogni cittadino (vi ricorda qualcosa?).

John Hurt in Nineteen Eighty-Four – Orwell 1984, GBR, 1984, Regia di Michael Radford, adattamento dell’omonimo romanzo di George Orwell

Come sopra da me preannunciato, la filosofia che alimenta questo genere narrativo è molto più vecchia di Gibson e nasce in realtà con i lavori di autori e filosofi dei primi decenni del secolo scorso, quali Aldous Huxley (creatore di opere imprescindibili per comprendere l’oggi, come Brave New World – Il mondo nuovo del 1932, in cui per la prima volta si parla di eugenetica e controllo mentale operato dai persuasori occulti per dominare la società) o George Orwell (a cui si devono racconti capitali che spero non abbiano bisogno di presentazione, quali Animal Farm – La fattoria degli animali, del 1944 o Nineteen Eighty-Four – 1984, di quattro anni più tardi): le idee seminali di tali romanzieri vennero poi ampliate nei libri di autori più specificatamente fantascientifici, sui quali svetta senza discussioni un artista letteralmente saccheggiato da Hollywood nel corso degli anni quale fu Philip Dick, presente come soggettista in una lista davvero infinita di adattamenti effettivamente molto liberi (modificando ampiamente la filosofia ed i plot originali, per dare alle storie forzate conclusioni a lieto fine, molto più spendibili nel cinema nordamericano): per inquadrare tale autore, basterebbe citare tra le tante sue opere la celeberrima Do Androids Dream of Electric Sheep? – Il cacciatore di androidi, che fu di ispirazione per lo stra-cult Blade Runner, scritto da David Webb Peoples (la sua stesura sostituì in fase di produzione la precedente sceneggiatura immaginata da Hampton Fancher) e diretto in modo memorabile da Ridley Scott nel1982.

Harrison Ford nella metropoli buia, umida e multietnica di Blade Runner, USA, HKG, 1982, Regia di Ridley Scott, adattamento del romanzo di Philip Dick Do Androids Dream of Electric Sheep?

Uscendo rapidamente dall’ambito squisitamente letterario (dove, vi assicuro, potremmo invece restare per ore o giorni, disquisendo di tantissimi romanzi importanti, tutti molto significativi per tale argomento) e gettandoci subito a capofitto nel mondo dell’intrattenimento culturale popolare cine-televisivo, chiarisco subito che, per quanto io ami alla follia lo script e la perfetta messa in scena di quel capolavoro assoluto sopra citato di Blade Runner, considero tuttavia i veri manifesti visivi del genere cyberpunk i tre titoli seguenti:

  • il fumetto Ghost in the Shell (Kōkaku kidōtai Ghost in the Shell), scritto e disegnato dal 1989 al 1991 dal mangaka Masamune Shirow.
  • il primo lungometraggio di animazione giapponese Ghost in the Shell (Kōkaku kidōtai Ghost in the Shell), sceneggiato e diretto nel 1995 da Mamoru Oshii tratto da manga omonimo sopra citato.
  • il lungometraggio live action statunitense Strange Days, scritto da Joy Cocks e James Cameron e diretto nel 1995 dalla imprescindibile Kathryn Bigelow (regista da me amatissima e non casualmente inserita sin dall’inizio nella mia personale Top 25 Best Directors della Storia del Cinema, pubblicata nel Pantheon del mio blog).
La seminale storia scritta e disegnata da Masamune Shirow nel primo lungometraggio d’animazione Ghost in the Shell (Kōkaku kidōtai), JAP, 1995, Regia di Mamoru Oshii

Tanti altri titoli cinematografici e fumettistici si potrebbero certamente citare per parlare di cyberpunk (un intero capitolo andrebbe ad esempio dedicato al comic britannico Judge Dredd, creato dallo scrittore John Wagner e dal disegnatore Carlos Ezquerra nel lontano 1977 per la rivista britannica 2000 AD, che tanto seguito ebbe nella contro-cultura underground inglese), ma le tre opere elencate nel precedente paragrafo, oltre ad una loro intrinseca valenza artistica di altissimo livello, hanno anche avuto il merito di essere state tutte delle apripista e dei modelli per le produzioni a venire: ad esempio, il film della Bigelow (in Italia, ahimè, bistrattato da un grande autore di cinema come Nanni Moretti, che l’ha sbeffeggiato in una delle tante righe di dialogo molto egocentriche del suo Aprile del 1998, mostrando solo di non essere riuscito a restare al passo con i tempi che cambiano, come ha anche successivamente dimostrato quando a Cannes, nell’estate del 2021, ammise pubblicamente di non aver compreso come tutti gli altri giurati suoi colleghi quell’anno avessero potuto premiare con il massimo riconoscimento un’opera per lui incomprensibile come Titane, scritta e diretta dalla geniale Julia Ducournau), ha creato un vero e proprio topos stilistico (non narrativo, perché derivativo dai racconti di Dick), copiatissimo nel cinema di fantascienza dei decenni successivi, per il modo con cui è stata messa in scena l’idea di un mercato nero di registrazioni mnemoniche e sensoriali, ottenute attraverso un dispositivo SQUID (nascosto sotto una parrucca o un copricapo), capace di registrare le esperienze degli utenti direttamente dalla corteccia cerebrale, per poi rivenderle al pari di una nuova potentissima droga con cui evadere dalla realtà.

Il dispositivo di registrazione SQUID, dal film Strange Days, USA, 1995, Regia di Kathryn Bigelow

La Prima Parte di questo nostro lungo viaggio dentro la genesi, il significato e le espressioni del genere cyberpunk finisce qui: tra due settimane, su queste stesse pagine web, andrà online la Seconda ed ultima Parte, dove avrò il piacere di condividere con voi i modi e le forme con le quali questo straordinario e futuristico genere narrativo sia stato declinato ed usato, gettando uno sguardo quindi anche in altri linguaggi e media oltre il cinema ed i libri, come i videogames, i giochi di ruolo e certe modernissime serie televisive animate, assolutamente derivative, ma incredibilmente creative, toccando tutti dei livelli di espressività artistica davvero fuori del comune.

Arrivederci dunque a Sabato 28 Ottobre e… Stay Tuned!


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38 pensieri su “Lunga vita al Cyberpunk, Pt. 1 di 2

  1. Pingback: Lunga vita al Cyberpunk, Pt. 1 di 2 [Re-Blog] – Come cerchi nell'acqua

  2. Assolutamente fantastico post!! Adoro il genere cyberpunk, è uno dei miei generi preferiti, poi Ghost in the Shell lo adoro, ne vado matta! Grazie di cuore per la condivisione, non vedo l’ora di leggere il seguito! 😉🥰

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  3. Come sempre un post molto bello, pieno di notizie e informazioni a me del tutto sconosciute, a leggerti c’è sempre da imparare qualcosa amico mio. Aspetto con molta curiosità la finale di questo post, poi ti dirò il mio pensiero, come accade quasi sempre da profana.
    Buona serata amico mio! 🙂

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    • Come sai, ho avuto forzatamente del tempo per documentarmi e scrivere, cercando poi di esemplificare, con i film e le serie tv a me care, ogni concetto ed anche i romanzi…
      Non penso che sia uno dei miei post più leggeri da leggere ma tu sei sempre stata molto ben disposta nei miei confronti e di questo non smetterò i di esserti grato!!!
      Grazie di tutto!

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  4. Che post meraviglioso, i temi trattati peraltro tutt’altro che leggeri ma molto attuali, confermano il fatto che sai legare tutto in un uno ampio e approfondito. Arte per pochi, a mio modo di vedere. Come dice la sist da te si impara sempre qualcosa di nuovo!!!

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  5. Nel tuo post scrivi che nelle società immaginate dagli autori cyberpunk “il denaro ed il potere saranno l’unica merce di scambio per qualsiasi rapporto umano”. Ebbene, questo vale anche per la società reale. E non da oggi, ma addirittura dall’800. Già allora infatti Verga si era accorto con sgomento che la società stava assumendo una nuova mentalità: l’obiettivo primario dell’uomo non era più comportarsi in modo moralmente corretto, ma accumulare roba. Di conseguenza un uomo non veniva più apprezzato in base a ciò che era, ma in base a ciò che aveva: se prima ci si guadagnava la popolarità trattando bene gli altri, adesso per essere popolari bisognava essere ricchi, e della moralità sti cazzi. Lo si vede benissimo ad esempio nella novella “Cavalleria rusticana”, in cui Lola scarica il suo fidanzato sinceramente innamorato di lei non appena comincia a venire corteggiata da compare Alfio, che aveva “4 muli di Sortino in stalla”: in un contesto storico come la Sicilia di fine 800 era come avere 4 Ferrari nel garage, e lei lo sposa per quello, fregandosene altamente di qualsiasi considerazione morale o sentimentale.
    Anche oggi esistono molte donne che fanno la stessa scelta, a meno di non voler credere che uomini come Briatore e Berlusconi abbiano conquistato delle ragazzine molto più giovani di loro per le proprie straordinarie virtù estetiche e morali.
    Tornando al cyberpunk, hai ragione quando scrivi che nelle opere di questo tipo l’ambientazione è la vera protagonista. Tutte le opere di fantascienza ti fanno immergere in un mondo diverso dal tuo, ma nel sottogenere del cyberpunk questo discorso vale all’ennesima potenza: in quel caso infatti il focus è sulla descrizione di quel mondo, non sulle avventure del personaggio principale. Tali avventure spesso sono soltanto un espediente che serve all’autore per farci capire meglio i meccanismi del mondo da lui creato. E infatti se pensi a Blade Runner probabilmente farai fatica a ricordarti la trama per filo e per segno, ma di certo ti ricorderai delle sue iconiche scenografie.
    Dal punto di vista visivo ho trovato magnifico anche Ghost in the Shell. Alludo al film con la Johansson, che a mio giudizio è stato bistrattato ingiustamente. Nacque sotto una cattiva stella, perché già prima della sua uscita ci furono delle polemiche per la scelta di mettere un’attrice americana ad interpretare un personaggio asiatico; poi dopo la sua uscita ci furono delle ulteriori polemiche perché la fonte di partenza era stata banalizzata, e quindi il flop divenne inevitabile. Onestamente trovai esagerate entrambe le critiche: ingaggiare un’attrice di grido come la Johansson era assolutamente indispensabile per creare hype attorno al film, e che i film americani “tratti da” banalizzino la fonte di partenza è un dato di fatto che si è sempre saputo. Se i fan del manga si aspettavano che gli americani facessero un’eccezione per Ghost in the Shell ad aver sbagliato sono loro che avevano un’aspettativa illogica, non gli americani che fanno cinema a quel modo dai tempi in cui i film erano in bianco e nero.
    Riguardo al Giudice Dredd, ho amato molto di più il film con Stallone rispetto a quello con Karl Urban. Quest’ultimo è stata palesemente fatta con 2 lire, e quindi per risparmiare soldi sulle riprese in esterni (una delle voci di spesa più grosse per un produttore) si è deciso di girarlo tutto in un condominio: ma così è venuto a mancare il fascino della città futuristica, che come dicevo prima dev’essere proprio l’elemento principale di un’opera cyberpunk. Il film con Stallone invece rispetta in pieno i canoni del genere, e quindi è mille volte migliore.
    P.S.: Un altro film che Karl Urban ha girato prima di fare il botto con The Boys è Bent – Polizia criminale. Non c’entra nulla con il cyberpunk, ma è uno dei migliori polizieschi che io abbia mai visto, quindi te lo raccomando ad occhi chiusi.

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    • Grazie davvero per il tuo lungo e ricchissimo commento: certo mi fa piacere che tu abbia apprezzato le mie considerazioni e soprattutto che tu sia concorde con me riguardo al fatto di come le ambientazioni urbane delle opere che si definiscono cyberpunk siano così importanti, ma quello che delle tue parole ho apprezzato maggiormente è stata senza la tua articolata citazione delle opere di Giovanni Verga, romanziere di enorme importanza per la nostra letteratura italiana anche spesso mal sopportato dai tanti studenti che nelle scuole medie superiori sono costretti a studiarlo perché se lo ritrovano nel programma, tanto che tale costrizione spesso li spinge a non vedere la bellezza che quelle opere potrebbero esprimere fossero frutto di una scelta…
      Quello di romanzi insegnati quasi a forza è un problema di vecchia data e certo non di facile soluzione e tu queste cose le sai bene visto che sei un insegnante, ma questa sera, dentro al tuo commento, l’unica cosa che veramente conta come tu diverga abbia riportato lo spirito e quella critica al senso del possesso ed all’avere prevalente sull’essere!
      Grazie di tutto e buona serata amico mio

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  6. Il mondo distopico è un mondo immaginario ma non troppo perché in modo quasi profetico anticipa quello che sarà la realtà dopo qualche anno. Il tuo post meno lungo del solito ma ugualmente ricco di notizie e considerazioni ripercorre autori, testi e film che anticipano l’umanità di un futuro non troppo lontano.
    A leggerti per la seconda parte.

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    • La potenza e la importanza del genere cyberpunk in letteratura, al cinema, nel fumetto e nei videogiochi, è infatti proprio in quella sua capacità di essere, come dici tu, profetico: nelle sue opere più belle e credibili, infatti, tutto viene costruito esattamente come una proiezione peggiorativa dei disagi che già oggi ci sono e che spesso molti fingono di non vedere…
      È bello averti come lettore bear, dai sempre tanta soddisfazione a chi scrive e si impegna!!
      Grazie di cuore e buona giornata !

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  7. Articolo a dir poco squisito! Attendo la seconda parte per un commento completo ma per ora posso dirti che sono rimasto incollato tutto il tempo.
    Il Cyberpunk è un genere che ha un fascino tutto suo e che, soprattutto da quando è sbarcato in sul media visivo (televisivo o cinematografico) ha attirato lo spettatore fin da subito (ad esclusione di qualche dinosauro come Nanni Moretti che tu stesso citi nel posto…me li immagino come quei vecchietti che sbraitano contro la radio definendo “rumore” un pezzo rock). Ed è curioso come un genere che di base è molto pessimista e degradante (i bassi fondi dei mondi cyberpunk sono quasi sempre più “interessanti” dei piani alti) sia di così attrattiva verso lo spettatore medio.
    Attendo con ansia la seconda parte di questo speciale che già si preannuncia essere uno dei migliori che hai fatto (e non è facile, la media è molto alta).
    PS: manco a chiedertelo immagino avrai già visto l’ultima fatica dello studio Trigger in collaborazione con Netflix, Cyberpunk: Edgerunner. Io sono a ben un episodio dalla fine e questo tuo excursus sul genere è stato un bel antipasto, manco a farlo apposta 😀

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    • Grandissimo Pizzadog!
      Che gioia ogni tuo commento!!!
      Ti dico subito (spoiler) che a seconda parte sarà sul finale un esaltazione dell’anime prodotto dalla Triggerata che io ho letteralmente adorato ma non anticipo altro…
      Non so se inserire nel post anche notizie sulla prima da me attesissima prima puntata di Inverso, la serie di Nolan tratta dal romanzo di Gibson “The Peripheral” del 2014, perché non piace recensire serie che non siano concluse…
      A questo proposito: è da quando su Disney+ è uscito l’ultimo episodio di She Hulk che io cerco ogni giorno su Instagram una tua opinione su quell’episodio (ma quanto è stato geniale e per addicted non solo fan e bla bla… K.e.v.i.n. come intelligenza artificiale e tutto l’MCU come frutto di un algoritmo e poi arriva She Hulk che lo critica per i plot ed i villain…) ma non l’ho trovato… Me lo sono perso?

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  8. Splendido articolo, su una branchia della fantascienza che amo di più, e le tue citazioni sono oltre l’ottimo, con cui mi trovo d’accordissimo. Io frequento un gruppo letterario da anni, ma ci sono voluti anni per fargli capire che la science-fiction intelligente e al contempo alta letteratura. Ti consiglio in saggio di Ursula le Guin: “Il linguaggio della notte”, in cui rielabora queste idee contro la letteratura di genere (o come viene definita) proprio per entrare nei concetti di una narrativa a tutti gli effetti. La stessa cosa potremmo allargarla anche al cinema con gli stessi effetti.
    Grazie ancora dei tuoi scritti (!!!!!)

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    • Ricordo bene, dalle nostre lunghe chiacchierate qui su WordPress (quando ero ancora un frequentatore assiduo e non una presenza quasi fantasmatica come ora), la tua predilezione per questo genere di fantascienza, non a caso definito adulto perché spettacolare ed assieme attento ed interessato filosoficamente ad una proiezione verosimile dei problemi attuali e non ti nascondo che il tuo amplissimo apprezzamento al mio post ed alla scelta delle opere citate mi inorgoglisce non poco!!
      Grazie moltissimo, Barman e spero di non deluderti con la seconda puntata, dove tornerò un passo indietro per meglio focalizzare e poi di corsa fino ai nuovi media…
      Mi fa davvero molto più piacere di quello che ti possa pensare il tuo commento, grazie, grazie, grazie!

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  9. Leggendo mi sono resa conto di essere, per certi versi, cyberpunk inside: ho ricollegato vari aspetti del mio pessimismo cosmico. Nonostante ciò, anche in questo caso la mia ignoranza è più spaventosa dell’assenza di futuro.
    Conosco almeno Strange Days e 1984 che rileggerò, spero presto, in lingua originale, dato che da quest’estate il libro gira per casa (è stato uno dei compiti di mio figlio).
    Blade Runner è anche poetico, o sono io che come per le classiche macchie di inchiostro ho una visione del tutto personale?
    Per fortuna una certezza c’è: il seguito del tuo post.
    Intanto GRAZIE!!

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    • Quando non ti accapigli con un insensato bisogno di sintesi (delle volte sembra che usare due parole in più ci porti a perdere chissà quali treni della vita, quando invece…) e ti abbandoni ad una frase più rilassata, riconosco subito l’eleganza del tuo pensiero, che per altro è il tuo pensiero non frettoloso, quello che può forse essere caotico ma certo non è disordinato (il primo è creativo mentre il secondo è solo la frustrazione degli ossessivi), che poi è quello con cui scrivi nel tuo blog e quello da cui è scaturito il tuo libro.
      Poetico Blade Runner? Ovviamente si ed anche moltissimo e questo perché il film di Scott è in primis un noir (malinconico, triste, senza speranza di redenzione, dove un androide non sa di esserlo e si innamora di un’altra androide ed è pagato per uccidere altri androidi ovvero dei “lavori in pelle”).
      È poetico perché lo è anche il vero cyberpunk, perché quando urla disperazione lo fa come lo farebbe il Ginsberg poeta della beat generation, così quando fa sesso lo fa come lo farebbe un drogato che non spera nemmeno di vedere l’alba.
      Ed in tutto questo tu ci vedi giusto, anzi giustissimo, come ti capita quasi sempre anche se non sempre lo dici.
      Grazie del tuo commento che alza l’asticella con poche parole.

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