The Gathering Vol. 8: Aldilà ed Aldiqua

cover-postNon ci sono state esequie o estremi onori resi a Blackgrrrl, anzi, ad onor del vero nessuno sa nemmeno cosa le sia capitato davvero, fuorché forse quel grosso guerriero Samurai che, alla fine degli eventi narrati nel Capitolo 10, ha piantato nel corpo esanime della nostra eroina la sua possente katana.

Tuttavia, una volta tornato in SAG, lo stesso Gabriele Mainetti ha narrato ciò che ha potuto vedere ed oltre al racconto dell’ultimo drammatico colloquio con la nostra dominatrice delle fiamme, le sue parole erano tutte per quella specie di porta dell’Inferno apertasi nei sotterranei della stazione ferroviaria di Manchester.

Facciamo adesso, però, un doveroso passo indietro, perché è da tempo che tra i “nostri” si parlava di questa eventualità: sono anni che agenti SAG affrontano l’argomento nei film e nelle fiction come attori, registi o sceneggiatori, mimetizzando le notizie dentro produzioni mainstream.

È il caso, ad esempio di Ron Howard, che ha usato i libri di successo di Dan Brown per dirigere tre film da essi tratti, nei quali ha cercato di attirare l’attenzione del mondo su alcune terribili ed inquietanti verità, abilmente nascoste in quei costosi giocattoloni filmici di puro divertissement: nelle pieghe della narrazione sono stati abilmente insinuati elementi e cifre enigmatiche che ora, alla luce dei recenti avvenimenti del Gathering, possono aiutare a comprendere il grande progetto malvagio di Ezekiel.

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Nella sequenza finale (la più bella indubbiamente di tutta la pellicola) del primo film, “The Da Vinci Code” (It. “Il Codice da Vinci”), dopo aver osservato una striscia annacquata del proprio sangue scorrere sul fondo del lavandino dove si stava radendo, il protagonista (interpretato da un Tom Hanks decisamente meno affaticato del normale, dal punto di vista recitativo) esce in fretta, cominciando a ripercorrere, dal suo albergo fino al Louvre, la vera Rose Ligne (ovvero La Linea della Rosa, come era chiamato un tempo il Meridiano che ancora adesso attraversa Parigi e che rivaleggiò con quello di Greenwich fino al 1911 per il primato), sotto le meravigliose note incalzanti del brano “Chevaliers De Sangreal” di Hans Zimmer ed alla fine del percorso risolve in un sol colpo il mistero della sepoltura di Maria Maddalena e del Sacro Graal, rivelandoci anche il possibile segreto della Piramide Rovesciata del Museo.

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Nel secondo film (in realtà tratto dal romanzo antecedente della serie del prof. Langdon), “Angels & Demons” (It. “Angeli e Demoni”), tutta la vicenda, come nel libro omonimo, ruota attorno alla figura del Camerlengo, ma ancora una volta, durante un’altra mirabile scena di corsa a piedi, piena di passaggi segreti e cunicoli, il regista ci mostra la sua visione della Tomba di Pietro, nascosta all’interno della Necropoli posta nelle catacombe sotto la basilica del Vaticano, con una sorta di ascesa in mezzo a teschi ed ossa che ricorda il miglior Indiana Jones.

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Infine il terzo film, “Inferno”, di uscita imminente sugli schermi, il cui plot, decisamente il più scialbo dei tre fino ad ora trasposti (e che verosimilmente darà vita ad un film più piatto degli atri), prima di partire verso direzioni lontanissime, legate ai problemi della sovrappopolazione mondiale ed a possibili soluzioni estreme immaginate dal potere e dalla genetica, si muove come una caccia all’uomo, che però affonda i piedi nel terreno umido e fertile della prima cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri.

Sono tutte storie dentro altre storie o se vogliamo messaggi in codice dentro testi dal diverso senso, sonorità appena percettibili perché intonate alla musicalità principale, ma che raccontano una diversa canzone.

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Alziamo ora, però, l’asticella della qualità artistica e lo facciamo citando a volo d’angelo il primo vero cantore post-moderno del dolore e della supplicazione sulla terra, degli squarci infernali sul nostro piano di realtà e soprattutto sulla atroce possibile convivenza tra le due realtà, ovvero lo scrittore e regista Clive Barker, al quale si deve l’ideazione di un intero universo narrativo (sia filmico che letterario), del quale per brevità citiamo solo il fantasmagorico e creativo primissimo film della serie, ovvero quel pazzesco ed innovativo “Hellraiser”, diretto e sceneggiato dallo stesso Barker nel lontano 1987 da un suo racconto.

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Punto cruciale della narrazione di quel film e di nostro specifico interesse per il Gathering è senza dubbio la Lemarchand’s box (nota da noi anche come Scatola delle Lamentazioni), sorta di puzzle tridimensionale a forma di cubo, risolvendo il quale si accede ad una realtà trans-dimensionale, un diverso piano dell’esistenza, che di fatto Barker descrive come la versione dell’Inferno narrata da tutte le religioni abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Rastafari, Samaritanesimo ed altre minori) ovvero una distesa senza fine di dolore e sofferenza; in questa realtà domina un’entità chiamata Leviathan ed è abitata da alcuni demoni, diventati figure iconiche nell’immaginario horror e fantastico occidentale, ossia i Cenobiti, capitanati dal terribile Pinhead.

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Da Richard Matheson a Stephen King, il cinema e la letteratura americane ed europee sono stracolme di riferimenti all’Inferno sulla Terra, alle porte che si aprono tra questi due mondi, in una sorta di cosmologia parallela a quella, concettualmente opposta, creata invece dallo scrittore statunitense Howard Phillips Lovecraft, il quale, con l’intuizione geniale del Necronomicon, il pseudobiblion (un libro mai esistito ma che viene citato come se fosse reale) scritto da Abdul Alhazred (scherzo enigmistico dalla definizione “all has read”), costruì un intero universo narrativo ed immaginifico (abbondantemente saccheggiato nel corso dei decenni da scrittori e disegnatori di tutto il mondo), basato su leggendarie creature aliene, insediatesi sul nostro pianeta agli albori della vita, dando così origine alle nostre divinità ed ai nostri demoni.

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Il filone delle entità aliene parte appunto da Lovecraft e continua a produrre ininterrottamente centinaia di storie: basti solo citare da un lato il totemico romanzo “Solaris” del 1961, del polacco Stanisław Lem, che vanta almeno due riduzioni cinematografiche, anche assai diverse e dall’altro la versione border-line di x-files, operata nel 2009 dal geniale Richard Kelly, manipolando un racconto di Matheson e creando il sottovalutato e cupo film drammatico e fantascientifico “The Box“, con Cameron Diaz ed Arthur Lewis.
Tuttavia è questo un filone che oggi non ci riguarda, anche se di esso cogliamo volentieri l’aspetto del complotto, delle segrete e potenti gerarchie che governano il mondo, siano esse i cosiddetti “Greys” (presunti extraterrestri dalle grandi teste, chiamati così dal colore della loro pelle e che alcune teorie li vedono figure di spicco nel complesso industriale e militare del Nuovo Ordine Mondiale) oppure dei veri e propri emissari dell’inferno.

E’ necessario a questo punto fermarsi nella nostra lunga corsa, prendere fiato e rendere omaggio ad un genio narrativo assoluto, un uomo di cinema francese, che con tre soli film ha lasciato un solco indelebile in tutta la letteratura filmica di genere horror, action e complottistico: Pascal Laugier.

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La sua brevissima quanto intensa filmografia è una struttura triangolare, iniziata quasi sottotono, con un eccellente film di genere, l’horror “Saint Ange” del 2004, in cui una semplice ghost story viene arricchita dalla incredibile creatività del nostro cineasta ed in cui soprattutto viene accennata, come una premonizione del colpo di genio dell’opera successiva, quella sordida manifestazione di spietata ferocia dell’essere umano, che diventa atroce sublimazione dell’abuso, quando è condotta non da un singolo ma da un gruppo organizzato, qualcosa di più di una semplice setta, piuttosto una congrega o un potentato, insensibile al dolore altrui e che anzi ne abusa pur di ottenere il vantaggio della conoscenza e della perpetuazione del potere.

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Il teatro dell’azione è un orfanotrofio sulle Alpi francesi, fotografato nella sua decadenza alla fine degli anni ’50 e se la fatiscenza e l’orrore tra le mura dell’istituto sono certamente di maniera (notevolissimi in ogni caso, per un film di debutto), certo non è lo è la capacità del regista-scrittore di portare con sé lo spettatore nel viaggio infernale della protagonista alla ricerca di tutte le nefandezze e le negligenze di quell’istituzione.

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Ciò che però, in quel primo film, è solo una serie di squarci sulla verità, dove proprio l’ambiguità alimenta la tensione, nel secondo lungometraggio, l’epocale “Martyrs” (il vertice del nostro triangolo), si dilata fino all’inverosimile: il nostro artista abbandona qualsiasi remora e con una spietatezza, pari solo a quella dei suoi stessi personaggi, toglie letteralmente la pelle alla menzogna, lasciando la storia priva di qualsiasi difesa, come un corpo con le terminazioni nervose scoperte.

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Non è solo cinismo o nichilistica considerazione sul depravante squallore degli uomini (dove il potere è sempre visto indossare i panni delle persone anziane, come mummie che cercano disperatamente di restare in vita o di mantenere il loro potere temporale persino nell’aldilà), ma rivoluzionaria volontà di abbattere ogni barriera.

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Così Laugier mette in scena il più atroce circo di sadismo e crudeltà visiva possibile e come un novello Buñuel (che nel suo “Un chien andalou” mostrava in primissimo piano il dettaglio di un rasoio che tagliava in due l’occhio di una donna seduta), anch’egli sfida lo spettatore a restare incollato allo schermo mentre le giovani donne rapite, protagoniste della storia, vengono torturate e mutilate con lenta e meticolosa cura, immergendole in un’esistenza perpetua di dolore continuato, al fine di condurre il loro cervello sull’orlo della pazzia o dell’estasi mistica.

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E’ un terribile errore, assolutamente imperdonabile, quello di confinare questa perla cinematografica nell’ambito sterile del semplice torture porn, perché si, di quest’ultimo usa lo stile e la libertà icastica, ma il pensiero che sottende alla pellicola di Laugier e talmente imponente da divenire persino più agghiacciante delle stesse sevizie; io ho adorato questo film, pur tuttavia sarei un pazzo a non mettere sull’avviso chiunque non sia più che avvezzo alla visione di pellicole horror, perché se non si mantiene il giusto distacco e se non si è in grado di limitare il nostro livello di coinvolgimento, la visione di quest’opera potrebbe risultare davvero disturbante.

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Dopo quattro anni esatti, medesimo intervallo di tempo che passò anche tra il primo ed il secondo film, Laugier scrive e dirige il suo terzo ed ultimo (per ora) lungometraggio e lo fa ancora una volta stupendo e spiazzando tutti, estimatori e detrattori, appassionati di horror e censori che lo avevano messo all’indice, con un’altra produzione franco-canadese ed un altro film che sbaraglia i generi, grazie ad un plot affascinante ed originalissimo, con in più il preciso obiettivo nella sceneggiatura di stupire e trarre in inganno lo spettatore praticamente ad ogni passaggio, fino alla chiarissima ed inequivocabile rivelazione finale: “The Tall man” (It. “I bambini di Cold Rock”).

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A differenza dell’opera somma del maestro, infatti, questa terza fatica cinematografica non lascia nessun filo narrativo aperto, se non l’ovvia prosecuzione degli eventi, su cui comunque non ci sono dubbi o possibilità interpretative che possano portare a deduzioni diverse da quelle chiaramente enunciate nei dialoghi conclusivi: questa la caratteristica e la novità del terzo angolo acuto del poligono narrativo di Laugier, odiato da chi aveva amato Martyrs e la sua agghiacciante ferocia visiva, odiato anche da chi si aspettava un film di genere horror o comunque thriller tradizionale ed infine odiato dai fan della bellissima Jessica Biel, che Laugier si preoccupa di far recitare completamente struccata e riempiendola di lividi, tagli e tumefazioni tali da deformarle il volto altrimenti perfetto

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Ancora una volta scritta e diretta in modo assolutamente autorale dal nostro direttore di scena francese, questa pellicola finge di proporsi come opera tradizionale, quasi dedicata ad un pubblico adolescenziale ed invece per l’ennesima volta finisce per essere disturbante quanto può esserlo il gusto del salato in bocca a chi si aspettava dal suo boccone un tripudio di zuccheri: “The Tall Man” è palesemente un’operazione meta-filmica, non una riflessione (dio ce ne scampi!) ma un divertissement intelligente e colto sul genere action e thriller, con la costruzione di un plot che saccheggia i maestri e gli artigiani della suspense tradizionale, con la creazione di segmenti narrativi nei quali lo spettatore pensa di indovinare in modo quasi automatico cosa sta per accadere, finendo fuori strada, senza mai tuttavia essere stato davvero ingannato, come si può scoprire alla fine della storia, ripercorrendo mentalmente a ritroso il corso degli eventi, illuminando le zone d’ombra con la fiaccola dell’agnizione finale.

I tre angoli della struttura filmica di laugier hanno un cuore pulsante comune, alla base di ogni singolo soggetto, che come avrete intuito è una falla nel sistema, inteso come insieme di regole sociali ed è questo che rende Laugier, da un lato e Barker, dall’altro, i perfetti testimoni della mostruosità che il nostro Ezekiel sta architettando da decenni, forte del suo potere, non solo economico.

Mancano davvero pochissime puntate al Season Finale della Prima Stagione del nostro Kasabake The Gathering, ovvero all’episodio con cui ci saluteremo per un necessario intervallo di tempo, durante il quale matureranno alcuni eventi ed assieme anche i vostri chronicle (in scrittura o in consegna), arrivando così al punto critico necessario.
E’ giunto dunque il momento di tirare alcuni fili narrativi, preparando così il terreno per la prossima stagione.

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Nei capitoli narrati fino ad ora, abbiamo visto come l’Adunanza, a cui sono stati chiamati i nostri Earth’s Mightiest Bloggers, non era poi così segreta come si poteva pensare: Ezekiel si stava evidentemente preparando da tempo a ricevere resistenza e forse aveva infiltrato alcuni uomini persino dentro la SAG (come ha confessato lo stesso Mainetti nei dialoghi riportati nel capitolo 10), una parte dei cui membri ha comunque messo la propria vita a rischio per condurre a destinazione i nostri eroi; quanto il nostro villain principale sappia davvero dell’Adunanza e dello staff del Gathering non è ancora noto, ma di certo i nostri blogger eroi sono stati messi davvero in pericolo (come, ad esempio, si può leggere nel chronicle di PizzaDog) ed il curatore del sito TruthOrToast è persino stato ucciso (anche se su tutta la vicenda aleggia un certo mistero ed un’aria di ambiguità su cui sta indagando Zack).

Nel frattempo è emerso il fortissimo legame tra Ezekiel e Wall Street, come forse si era già accorto chi di voi era andato a spulciare le foto dello strano blog prima citato e come avrebbe anche visto subito chi si fosse, per caso, imbattuto nella pagina FaceBook personale dello stesso Ezekiel, a lui intestata ed apparentemente insignificante, ma sapete bene che le apparenze ingannano (ovviamente, chi volesse trovarla avrà però bisogno di conoscerne anche il cognome, perché di Ezekiel il web è pieno, ma posso aiutarvi a restringere il campo, raccontandovi che egli è nato a Praga, da madre boema e padre statunitense)!


capitoli

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There is a house in New Orleans
They call the Rising Sun.
It’s been the ruin of many a poor girl,
And me, O God, I’m one

E io, o Dio, sono una così…

Trilce Marsh Vazquez ora è là, in quella casa, forse non proprio in quella della famosa ballata folk, ma certamente in un luogo dove il tormento degli anni trascorsi renderebbe pesante anche il tempo e lei lo sente perfino nell’aria che respira dal naso.
Chiude gli occhi e dietro di essi, come un sipario che viene lentamente tirato, cala un’oscurità molto più profonda della semplice assenza di luce.
Poi, come accade ogni volta, in mezzo a quel lago nero come il petrolio dentro la sua mente, appare una luce fioca ed al suo centro si fa strada una visione, affiorante in un’epifania di bianchi argentati, come una vecchia fotografia che nasce dalle acque del bagno di sviluppo, ma questa è un’immagine in movimento, piena di suoni e luci e soprattutto dolore: una giovane ragazza africana fugge disperata lungo un corridoio dal pavimento di legno, illuminato da quelle stesse finestre che si affacciano, oggi come allora, su Royal Street.

Trilce è una poetessa e condivide le sue liriche sul web, attraverso quella piccola porta sul mondo che è il suo sito, dove ogni giorno la sua anima si affaccia e sparge al vento parole piene di significato, ma è anche una potente voodoo queen, una trasmittente collegata all’infinita varietà delle emozioni mortali e viventi ed adesso, dopo aver venduto il suo appartamento italiano, si è trasferita a New Orleans, nel quartiere che ha visto all’opera una maestra come Marie Laveau, seguendo una traccia spiritica ed emotiva partita da lontano.
Girando per le antiche strade del Quartiere Francese, Trilce era finita al 1140 di Royal Street, di fronte al maledetto grande palazzo a tre piani, che chiunque conosca un minimo la storia di questa misteriosa cittadina sa bene cosa rappresenti.
Potente come la voce di un genitore che chiama il figlio vicino a sé, la traccia spiritica l’aveva poi spinta dentro quella dimora e su per le antiche scale scricchiolanti, fino al piano signorile, dove la visione della ragazza di etnia africana l’aveva colta all’improvviso, come una scarica elettrica debole ma lunghissima.

Anche se ferma, Vazquez può sentire nel suo stesso petto battere vertiginosamente il cuore di quella giovane ragazza dai grandi occhi pieni di lacrime che sta correndo a perdifiato: respira con il suo affanno e soffre del suo terrore, come fossero i propri, mentre in parallelo avverte anche l’arrogante rabbia demoniaca della sua inseguitrice, la bianca e malvagia Marie Delphine LaLaurie, prima padrona di quella casa e signora dell’alta borghesia di New Orleans, le cui feste opulente erano state nel XIX secolo sempre di gran moda a New Orleans, in un tripudio di ricchezza, traboccanti di servitù a buon mercato, grazie alle decine di schiavi che non solo aveva posseduto come beni personali, nel pieno rispetto delle legge, ma che segretamente si era divertita a torturare fino alla morte.

Trilce è ora dentro la testa della ragazza e può vivere in simbiosi con lei la contemporaneità cronologicamente impossibile di quello spaventoso momento in cui, arrivata al termine della sua corsa, con il corridoio che sbuca su un terrazzo senza uscita, vede di fronte a sé lo strapiombo che pone fine alla sua fuga o che forse, in un ultimo atto estremo di libertà, le indica la strada per volare via attraverso la morte.
Fu proprio così, infatti, che la giovane serva, quel giorno lontano nel tempo, come riportarono le cronache locali, saltò, fracassandosi al suolo, ma la sua carne e le sue ossa, composte in modo sgraziato ed innaturale sul selciato, segnarono anche la fine della carriera mondana della LaLaurie: i passanti chiamarono le autorità ed i vicini, disgustati dal comportamento di quella donna, così poco consono al suo status, testimoniarono dei suoi deprecabili comportamenti e dei maltrattamenti alla servitù.

Nel 1834, poco tempo dopo il primo arresto di Delphine LaLaurie, un terribile incendio scoppiò nelle cucine di quella grande casa e quando i vigili del fuoco giunsero sul posto per domare le fiamme, grazie alla testimonianza di un’anziana donna trovata legata ad un termosifone, essi scoprirono una macabra stanza delle torture, nascosta nella soffitta dell’attico, dove furono anche rinvenuti decine e decine di cadaveri di uomini e donne nudi, orrendamente mutilati e diventati oramai mummie essiccate, testimoni fossili delle atrocità per anni perpetrate in quella casa.
Anche nell’America schiavista del XIX secolo, era proibita la tortura su quegli uomini e donne di colore, considerati inferiori per la legge, ma comunque protetti da un qualche codice comportamentale: fu così che l’indignazione popolare, per il comportamento orribile della ricca nobildonna, spinse il tribunale a darle la caccia, per poterla condannare in modo esemplare, ma la LaLaurie era nel frattempo riuscita a fuggire a Parigi, protetta dalle spaventose ricchezze del suo terzo marito, mentre la folla, in sua assenza, devastava quella casa in segno di rabbia e protesta.

Come in una visione accelerata del percorso di un treno, visto dalla cabina del macchinista, Trilce ora corre via con la sua anima, fuggendo da quel corridoio che si affaccia in Royal Street, dove il suo corpo è immobile, in piedi, dietro ad una tenda illuminata dal sole, sfrecciando in una scia multicolore di strade, campagne e città, fino ai pavimenti in marmo e gli stucchi alle pareti della maison di Rue de Rivoli, a Parigi, di fronte al Jardin de l’Oratoire, a pochi passi dal Louvre, dove il marito di Marie Delphine LaLaurie, il potente banchiere ed influente uomo politico Jean Blanque, aveva cresciuto indisturbato i quattro figli avuti dalla moglie: Marie Louise Pauline, Louise Marie Laure, Marie Louise Jeanne e Jeanne Pierre Paulin Blanque.

Ognuno di questi bambini, da grande, avrebbe ereditato una parte delle immense fortune di famiglia e tutti loro avrebbero vissuto noncuranti del fatto di essere, di fatto, la prole di una delle prime e più sanguinarie serial killer americane.
In particolare, Jeanne Pierre avrebbe anche continuato la tradizione di famiglia, divenendo banchiere ed una volta ritornato negli Stati Uniti avrebbe partecipato alla fondazione dei più importanti trust finanziari occidentali.
Storie entrate nella leggenda raccontano anche di un suo discendente, affetto da una strana malattia, nato a Praga e là rimasto per tutta l’infanzia e la prima giovinezza, fino al giorno della morte della madre.
Secondo resoconti frammentari e non supportati da alcuna vera testimonianza, quando il ragazzo, non ancora maggiorenne, lasciò la capitale della Repubblica Ceca per andare a vivere a New York, cambiò nome e si costruì una nuova identità, cosa che ovviamente sarebbe stata per lui davvero facile, data la grande influenza che sembra riuscisse ad esercitare su ogni forma di autorità: pare infatti che nel frattempo, malgrado la giovanissima età, egli avesse non solo consolidato il potere economico dei suoi antenati, ma anche aumentato le sue capacità di gestione finanziaria ed imprenditoriale in modo quasi miracolistico, assumendo dapprima il ruolo che era stato del suo antenato Jeanne Pierre e successivamente superandolo in tutto.

Trilce è di nuovo a New Orleans, in corpo e spirito.
Manca qualcosa…”, pensa dentro di sé, “ma è davvero difficile questa volta!
Chiude nuovamente gli occhi e torna al lago di petrolio della sua mente.
Di fronte a sé galleggiano, come ninfee immerse nella nebbia, le immagini ectoplasmatiche della giovane ragazza morta nello schianto, della perfida madame LaLaurie e di suo marito Jean Blanque.
Come una tuffatrice ripresa con l’effetto rallenty della moviola, la nostra regina voodoo si alza dalla sponda di quello specchio d’acqua e vola lentamente verso la figura del banchiere: l’immagine fantasmatica di Jean Blanque si gira verso di lei, senza ovviamente poterla davvero vedere, ma quasi accogliendola con il corpo, come si fa con l’abbraccio di una persona cara.
Vazquez entra in lui, fin dentro il suo cuore di ricco banchiere e ci trova le anime dei suoi quattro figli, come sfere madreperlacee luminose: in una di esse avverte potente quella sinestesia di sensazioni, che ogni volta le ricorda l’acredine e la consistenza polverosa dello zolfo ed allora comincia a seguirne la traccia, attraverso le eliche del DNA e del destino, fino a giungere ad una specie di foto in movimento virata seppia, come una storpia gif animata fintamente invecchiata.
In essa un piccolo infante muove i suoi primi passi, sull’erba di un giardino, sorretto dalle mani di una tata, di cui non si vede mai il volto.
Sul bavaglino del bimbo è ricamato un nome: Ezekiel.
Poi accade ciò che la nostra voodoo queen ha sempre temuto potesse prima o poi accadere: il bimbo dell’immagine si gira e la guarda in modo indecifrabile.
Kasabake, cosa hai fatto?”, dice Trilce a voce alta, al corridoio vuoto, spalancando gli occhi di colpo.
Hai condannato tutti questi ragazzi…


In questo post, abbiamo parlato dei seguenti film e fiction:

Hellaiser“, UK, 1987
Regia e Sceneggiatura di Clive Barker
dal suo racconto “The Hellbound Heart”

Saint Ange“, FRA e ROU, 2004
Scritto e Diretto da Pascal Laugier
Interpretato da Virginie Ledoyen, Catriona MacColl e Lou Doillon

The Da Vinci Code“, USA, 2006
Sceneggiatura di Akiva Goldsman, dal romanzo omonimo di D. Brown
Regia di Ron Howard, con Tom Hanks, Audrey Tautou, Ian McKellen

Martyrs“, FRA e CAN, 2008
Scritto e diretto da Pascal Laugier
Interpretato da Morjana Alaoui e Mylène Jampanoï

Angels & Demons“, USA, 2009
Sceneggiatura di Akiva Goldsman e David Koepp, dal romanzo omonimo di D. Brown
Regia di Ron Howard, con Tom Hanks, Ewan McGregor, Ayelet Zurer e Stellan Skarsgård

The Box“, USA, 2009
Prodotto, Diretto e Sceneggiato da Richard Kelly
come adattamento del racconto “Button, Button” di R. Matheson

The Tall Man“, FRA e CAN, 2012 (It. “I bambini di Cold Rock”)
Scritto e diretto da Pascal Laugier
Interpretato da Jessica Biel, Jodelle Ferland e Stephen McHattie

Inferno“, USA, 2016 (upcoming)
Sceneggiatura di David Koepp, dal romanzo omonimo di Dan Brown
Regia di Ron Howard, con Tom Hanks, Felicity Jones e Irrfan Khan


Non potevo non citare in questo post il bellissimo videoclip, realizzato da Pascal Laugier nel 2015 per la cantautrice francese Mylène Farmer, di cui chiaramente vi lascio alla visione:


43 pensieri su “The Gathering Vol. 8: Aldilà ed Aldiqua

  1. Kasabake, sai, io ogni notte quando dovrei finalmente rilassarmi e non pensare a nulla, la mia mente continua a covare versi ed altre storie.
    Mi sono messa in testa qualcosa di simile ad un progetto, lo chiamo così perché richiederà molto tempo, è un ibrido di cose che sembrano non avere senso in un unico contesto, comunque è così complesso che ho bisogno di una mappa per non perdermi me stessa.
    In verità sono qui più che altro, per ringraziarti per il bel gesto di farmi far parte di questo meraviglioso caos che hai creato, hai descritto alla perfezione il mio status mentale, sono sempre coinvolta con l’altrove, impantanata, tanto, che vivo in una sorta di surrealtà.
    Buonanotte.
    …to be continued.

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    • Adoro il fatto che tu abbia definito quello che sto facendo con il mio gioco un caos!
      Un rapporto conflittuale infatti con l’ordine e di caos, che non considero affatto negativo quest’ultimo: entrambi sono due facce della stessa medaglia che è la realtà.
      Come ti scrissi a suo tempo, per me era un bisogno quasi istintivo quello di averti dentro questo mio scambio continuo tra realtà e finzione perciò sono doppiamente lieto che tu l’abbia gradito.
      Ovviamente sarà un piacere in futuro quando mai avverrà essere testimone dello sviluppo del tuo progetto

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        • Oh! Ho appena inviato un commento ad un altro tuo commento e non mi ero accorto del tuo nuovo messaggio…
          Dunque non temi le visioni horror… perché Martyrs lo è davvero, ma è anche così portentoso…
          Ho sempre paura a consigliarlo, perché temo le reazioni altrui, che comprenderei, per altro, ma temo anche il silenzio di chi sa il portento che ha visto e non lo divulga!

          Sul tuo progetto, ovviamente sono orgoglioso che tu mi consideri degno della condivisione: è una stima in me che considero un frutto prezioso dato in dono da te a me e che tratterò con il massimo rispetto.
          Buona notte a te.

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  2. Il tema dell’inferno sulla terra è molto presente anche nei racconti horror di Robert E. Howard, il creatore di Conan. Molti di essi contengono il cliché dell’uomo che sprofonda nelle viscere della terra, e incontra delle creature mostruose che inizialmente erano umane o semiumane, ma che con il tempo sono state emarginate ed espulse dalla comunità umana perché troppo mostruose. E ovviamente, stando nelle grotte sono diventate ancora più ferine di prima.
    P.S.: Mi scuso per il ritardo nell’invio del mio pezzo per il Gathering. Ci ho messo molto più tempo del previsto a trovare il modo per entrare nel Louvre chiuso, ma adesso che ho avuto un’idea dovrebbe essere tutto in discesa. 🙂

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    • Wow, che aggettivone che mi hai sparato in poche righe di complimento sfrenato!
      Mi crogiolo nel tuo superlativo assoluto ed in particolare mi rassereno sul fatto che tu abbia apprezzato un post, in cui il preambolo era dedicato per lo più ad una parte di cinema che so non essere nelle tue corde.
      Probabilmente te ne sarai accorto, perché sei un abile lettore oltre che scrittore, ma il capitolo dell’infante era uno di quelli a cui tenevo di più e che non vedevo l’ora di pubblicare…

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      • L’aggettivo sarà anche “-one” ma non è affatto usato a sproposito. Il pezzo finale unisce levità (per lo stile, vagamente più asciutto del tuo solito standard 😉 ) e fascino (per il tema della narrazione.

        Il preambolo sul cinema horror ovviamente non è nelle mie corde, come tu sai. E nel monito che hai usato per avvisare spettatori troppo suscettibili per una visione troppo cruda e violenta, hai colto perfettamente il segno del motivo per cui io non riesco a godere dei film horror (tranne pochissime eccezioni): qualunque pellicola io veda sgorga in me un forte sentimento empatico e l’immedesimazione nei personaggi è immediata. Se a livello emotivo vivo questa simbiosi catartica, a livello intellettivo cerco invece di enucleare le emozioni e i messaggi che hanno spinto regista e sceneggiatore a raccontare quella determinata storia in quella determinata maniera. Va da sè che, essendo totalmente incapace di instaurare anche il minimo distacco emotivo con quanto vedo sullo schermo, i film horror sono per me impossibili da vedere.
        Paradossalmente questo mi porta a vivere in maniera straniante anche la visione di film non ascrivibili alla categoria horror, ma che comunque hanno una profonda natura angosciante che mi lascia dei turbamenti incredibili. Penso a un film come ROOM, assoluto capolavoro secondo me, la cui visione per me è stata però una via crucis orribile, che ho saputo esorcizzare solo scrivendone una recensione che pubblicherò prossimamente (molto prossimamente).
        Purtuttavia, anche quando parli di horror, è sempre un piacere leggerti giacchè la mia curiosità è al solito tanta e i tuoi scritti mi permettono di sbirciare nascostamente in un budello che rifuggo ma che comunque un po’ mi intriga.

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        • Sono in arretrato con una risposta ad un tuo commento, sempre per l’annosa sindrome di “Adamo ed Eva” e tu sai cosa significa, perché ne parlammo un tempo… ma rimedierò a brevissimo…

          Qui mi sarebbe piaciuto partire con un pistolotto sulla straordinaria somiglianza di approccio ai film che abbiamo, ovvero filtrata sempre dall’emotività, che poi a sua volta è frenata dalla cultura (intesa proprio come disamina ermenàutica della struttura di ciò che si sta vedendo) e poi di nuovo messa in bocca all’emozione… ma non ho il tempo sigh!

          Quindi posso solo dirti grazie ed anche rimarcare quanto sia interessante ciò che hai detto sull’approccio filmico!!

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      • Mi dispiace doverlo dire ma purtroppo non possiamo. Mi piacerebbe perché abbiamo poco tempo e in quest’ultimo periodo e diciamo che stiamo passando un periodo abbastanza complesso (stiamo affrontando delle situazioni molto difficili ma non preoccuparti che tra noi due va tutto bene) Ti chiedo scusa.

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        • Anche se ti potrà forse suonare strano, visto che non ci conosciamo di persona, sappi che io provo affetto sia per che per Shiki!
          Buffo, non trovi? Eppure è così…

          Per questo avevo immaginato di affidarvi la stesura di un racconto chiave della storia, in cui tu avresti scritto cosa accadeva quando entravi nel mondo dei sogni di Ezekiel (quindi un testo a prevalenza onirica, tipo la visionarietà che Tarsem Singh mise a suo tempo nel suo bellissimo The Cell), mentre Shiki avrebbe dovuto scrivere un testo parallelo, in cui raccontava come si stava difendendo da una serie di creature mostruose che volevano entrare in casa mentre tu eri in trance onirica e lei usava tutte le tecniche di un survival-horror (quindi oggetti reali di vita reale) .. ossia lo stesso segmento narrativo ma raccontato da due punti di vista diversi…

          Siccome mi dispiacerebbe affidare ad altri questa “missione”, che ne pensate se l’assumo io ad interim?
          Insomma, se faccio le vostre veci, con il massimo rispetto, ovviamente?
          Datemi solo queste due risposte:

          1. No, preferite che i vostri nomi scompaiono dal Gathering per mille motivi che per rispetto alla vostra privacy non avete piacere di discutere in pubblico.

          1.1 – In questo caso, ditemi come preferite scomparire… con il “botto”, in modo clamoroso oppure in sordina?

          2. Si, accettate che io usi i vostri nomi per lo sviluppo della storia che vi ho sopra accennato

          2.2 – In questo caso, mi servirebbe sapere se portate occhiali da vista, se praticate qualche sport, se siete bravi nei GDR, se possedete una buona connessione e se infine siete partioolarmente golosi di qualcosa…

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          • A noi va bene che tu utilizzi i nostri nomi per la storia. Sono molto curioso di sapere quello che dirai. Comunque ecco le risposte alla lista:
            Entrambi portiamo gli occhiali
            Entrambi pratichiamo karate (io ho la cintura blu mentre Shiki deve prendere la nera quest’anno)
            Shiki da piccola giocava spesso ai GDR mentre io non ne ho avuto la possibilità
            Connessione? Un po’ a tratti…
            Io sono goloso del cioccolato fondente mentre Shiki adora la pizza.

            Ti ringrazio mille per tutto l’affetto che provi per noi. Ti siamo veramente grati e ammiriamo molto il lavoro che fai sul tuo blog in cui traspare un enorme amore per il cinema (e non annoi per niente). Grazie ancora, siamo curiosi di leggerti.

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            • Perfetto, ragazzi, allora siamo d’accordo… come vi dicevo, i vostri personaggi entreranno in qualche modo in contatto con il nostro villain e la cosa dovrebbe restare confinata a due capitoli, almeno per questa Stagione Uno del Gathering, poi si vedrà!

              Intanto, vi faccio tantissimi auguri per tutto, con tutto il cuore!! Bye, bye..

              P.S. Le considerazioni positive sui rispettivi blog sono assolutamente reciproche, ma lo sapete bene… Non ancora avuto modo di commentare adeguatamente il tuo post sul cinema espressionista tedesco (periodo che amo particolarmente e che non perdo mai occasione per citare, sia per testo che per immagini…), mentre quasi di getto scrissi a Shiki per il piacevolissimo suo post sui due bellissimi lavori dello studio di Ico…

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  3. Ah, un’ggiunta.
    Nella rassegna sul cinema horror hai menzionato film che raccontano dell’Inferno trasportato sulla Terra.
    Ti confesso che ho sempre preferito il contrario… ossia la Terra che si sposta negli Inferi.
    Ho sempre considerato uno dei migliori passi dell’Odissea quello in cui Ulisse si reca negli inferi ed incontra Achille, il più forte guerriero di tutti i tempi, il quale gli confessa che “è meglio essere ultimo sulla Terra, piuttosto che primo nell’Ade”. Ecco, una tale umanità in bocca a chi poco umano in realtà era stato in vita e che ora è condannato a vagare negli Inferi, mi ha sempre dato che la speranza che anche dopo la morte, in qualche modo, sia possibile mantenere un barlume della propria materiale e intellettuale umanità.

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    • Lo vedi che non riesco a non risponderti, boia ladra, lo sapevo…
      MI titilli niente meno che con Ulisse e Omero e l’Odissea, ovvero un archetipo tra gli archetipi…
      Come dice il proverbio? Meglio un morto in casa che un marchigiano in chat? Com’era?

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      • Degli anni del ginnasio ricordo solo i verbi dl greco. Giuro. Specie durante il quinto, c’era da studiare solo verbi greci: eimì, femì, aoristo… una litania di dolore… Poi c’era pure la grammatica del latino che rimaneva meno indigesta solo perchè paragonata ai verbi greci… Le uniche oasi di serenità erano rappresentate dalle lezioni sull’Iliade e sull’Odissea.
        Serbo questi due poemi nel cuore e nell’intelletto: potrei parlarne per ore, non già perchè li ricordi così bene e li abbia studiati in maniera esegetica, bensì perchè li ho amati come un bambino che legga per la prima volta Pinocchio o Ventimila leghe sotto i mari.

        Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti lutti addusse agli achei…

        Alle mie orecchie questi versi suonano melodiosi come una hit di Battisti o dei Queen.

        Omero batte tutti, nei secoli dei secoli. Amen.

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        • Il tuo commento fa da contraltare a tutto il discorso che in questi giorni si sta facendo sull’assegnazione del premio Nobel a Bob Dylan e ne stavo parlando in queste ore proprio con il blogger del sito Sourtoe Cocktail Club

          Capita spesso che le persone di cultura e di animo sensibile riescano a suonare all’unisono, pur mantenendo le loro diversità e peculiarità caratteriali: età, ambiente, studi, amicizie, lavoro… tantissimo divide gli individui, ma molto può unirli in modo distopico in una terra in cui le proprie emozioni suonino in sincrono.
          Questo accade specie quando alcuni dei nostri ragionamenti sui massimi sistemi (siano essi artistici o politici o filosofici) portano a conclusioni che si ritrovano in altri, ottenendo conferma non solo delle proprie elucubrazioni, ma anche di come si possa pervenire alla medesima verità da strade diverse: stessa soluzione con procedimenti diversi.
          Nello specifico, entrambi sappiamo che Omero è l’esempio assoluto e perfetto di una cultura ALTA eppure POPOLARE, perché egli scriveva per tutti, anzi scriveva CANTI, quindi storie che andavano cantate nel senso letterale della parola e questo, in modo incredibile e storicamente assurdo, lo pone più vicino a Bob Dylan che non a Proust…

          Non sto facendo delle classifiche o delle gerarchie, ma voglio solo enunciare come l’arte classica di Omero era arte popolare, era cantata e metteva sullo stesso piano (pur con poteri diversi) umani e divinità: non c’era soggezione da parte del pastore errante, che ascoltava queste storie vicino ad un focolare improvvisato, né nei confronti dell’autore, né nei confronti dei notabili che possedevano le chiavi delle biblioteche (come invece avverrà durante i secoli bui del medioevo e come si sta cercando di fare nuovamente oggi, svilendo la scuola pubblica a vantaggio di quella privata, in tutto il mondo occidentale); allo stesso modo non c’era quel senso schiacciante di ineluttabile inferiorità che l’uomo ha avuto dopo l’epoca classica nei confronti degli dei consacrati dai monoteismi (in epoca classica, le divinità erano solo più potenti, ma avevano i nostri stessi vizi).

          Oso ancora di più e ti anticipo ciò che dirò nella mia futura serie di articoli sul cinema di genere supereroistico (costola dei cinecomics): le moderne storie di supereroi sono l’attualizzazione di quelle omeriche, in modo anche sfacciato e come tali sono false, metaforiche, impossibili, affascinanti, piene di pathos ed infine divertenti.

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          • Questo tuo commento mi ha mandato in brodo di giuggiole: la tua capacità di enucleare concetti elementari epperò spesso bistrattati dai più come la eguale nobiltà di “arte popolare” e “arte alta o intellettuale” è sempre piacevolissima e lodevolissima.
            Il Nobel a Dylan cade per altro proprio a fagiuolo (metafora usata non a caso, dato che ieri sono stato a una bellissima festa che si tiene in un paesino vicino il tuo amato Filottrano, vale a dire Appignano: Leguminaria è una rassegna sempre interessante dove si incontrano veraci produttori agricoli e si ha l’oppportunità di mangiare piatti a base di legumi veramente sopraffini) anche se ho letto con un po’ di distacco tutte le lodi per tale premio (e le inevitabili critiche). Sarà che il NObel, almeno ai miei occhi ha perso il fascino di un tempo e suona ormai come una marketta assegnata ora qua ora là, in base a come tira il vento.
            Ma sto divangando, torniamo in tema, e che tema.
            OMERO. Che poi questa figura è talmente leggendaria che alcuni (tra cui io) ritengono non sia mai nemmeno effettivamente esistito in quanto aedo cieco, bensì sia solamente la summa di tutta una cultura popolare che ha trovato la sua manifestazione poetica e letteraria incarnandosi in un uomo – forse esistito forse no, ma che importa? – sotto cui far ricadere un patrimonio di inestimabile valore.

            Ma l’aspetto che più ha colpito del tuo ragionamento è che, nemmeno troppo velatamente, hai tessuto un parallelo tra le Divinità Olimpiche della Grecia Antica con i novelli supereroi di fumetti e, soprattutto, cinecomics.
            La cosa assurda, e ti prego di credere alla totale sincerità di queste mie parole, che ho maturato una convinzione identica alla tua quando finii di vedere il primo Avengers. Sentendomi assolutamente incapace di motivarla in maniera razionale e precisa, ho sempre tenuto questa tesi per me condividendola al più solo con mia moglie, chè tanto di cinecomic non gliene frega una beneamata fava quindi non correvo il rischio di farmi dare dello stupido o del fesso.
            Ma ora che anche tu, mio Guru e Maestro dell’ermeneutica cinematografica, butti là qualche idea a tal proposito,non posso più essere reticente e tacere, per cui confesso! E dopo la liberatoria esternazione, non mi resta che aspettare avido e goloso la prossima uscita dei tuoi post al riguardo.

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            • Siamo due ermenàuti e non potevamo maturare altro che considerazioni simili nell’osservare questi dei e semi-dei descritti dai moderni film supereroistici (prima erano solo buffoni) ed assistere al loro agire senza i legacci della fisica che hanno gli umani, che gli sceneggiatori migliori cercano sempre di dotare per lo meno dell’astuzia e della capacità strategica di Ulisse… cosmo, viaggi nell’oltretomba, ragionamenti sul libero arbitrio…tutto dell’epica classica viene saccheggiato, collegando il flusso narrativo principale degli storytellers occidentali a quel concetto di eroe-perseo-cavaliere che affronta le tribù nemiche e sfida persino l’Armageddon… Come in una spirale a molla la storia si ripete modernizzandosi ad ogni curva, quindi salendo grazie alla strada già percorsa…

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  4. Sei veramente un’enciclopedia filmica vivente, in cui, leggerti, diventa via via un piacere assolutamente da non perdere. Hai una capacità di descrizione tale che il racconto diventa racconto a sua volta, e che l’affabulazione critica diventa un veicolo, il quale, innesca la terribile voglia di vedere o rivedere tutte le pellicole citate, con l’aggiunta del valore letterario che racchiudono. In questo caso, per esempio, riesci ad attirare il lettore addirittura nell’inferno, come se la morbosa voglia di vedere come sia stato raffigurato, fosse l’eccessiva bellezza …
    Notevole !

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    • Avevo già brindato alla tua salute grazie alla bevuta che mi avevi gentilmente offerto prima e d ora mi ritrovo questa seconda carezza di grandissimo afflato artistico… anzi, direi ad alta gradazione alcolica!
      Un commento, il tuo, che mi pace immaginare non come un cocktail dai delicati equilibri, ma come una cazzutissima vodka pura (dio ci scampi da qualsiasi atroce forma di aromatizzazione della stessa!!), da bere rigorosamente in un sol sorso, fredda ma non gelata e con un bel tulipano in cristallo e magari con accompagnamento di qualche zakuvskis…
      Grazie davvero, barman, grazie delle belle parole (che poi, brutte non ne ho ancora lette da te, perciò è tautologico quello che dico… sarà l’alcol?)

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  5. Mio caro Kasabake
    Inutile dire che la piega che la nostra -tua avventura e’ x me un viaggio onirico da cui nn esco piu’.
    Grazie e scusa se portando da me il nuovo capitolo l’ho un po’ scombinato.

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  6. Altro che “scusa”, sono io che debbo ringraziarti: sto guardando proprio ora il circo mediatico che hai messo n piedi, con tanto di foto ed immagini, per celebrare il mio giochino!
    Sei sempre così appassionata… è davvero bello potersi fregiare del titolo di “amico” quando ci si rivolge a te!!

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  7. sono andato giusto ieri a vedere “inferno”, in effetti non ha la verve dei primi due, anche Tom Hanks mi è apparso sotto tono, mi auguro che chiusa la trilogia si passi ad altro. Diciamo che non è un brutto film, non dovesse reggere il confronto con le “puntate” precedenti avrebbe anche un suo perché.

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    • Sono quasi in imbarazzo nel vedere che frequenti con costanza il mio blog, dove, invero, mi sto cimentando nella difficile arte del non cercare consenso… postando con insistita pervicacia testi ed immagini non modaioli, ma tu sei da sempre persona schiva e refrattario all’ovvietà del consenso (non a caso ti paragonai in altro momento a Guareschi) e quindi, perché stupirmi?
      Piuttosto è il tempo libero (quello di qualità, forse) che difetta a tutti noi e quindi una tua visita è per me motivo di ulteriore orgoglio.
      Sullo specifico tema del commento, direi che concordiamo ampiamente ed è probabilmente quella del film un’occasione davvero persa, perché, aldilà dell’anima blockbuster che il romanzo originale aveva, c’era comunque in essa un quesito morale sul problema della sovrappopolazione mondiale decisamente non scontato, che chiaramente il film non ha declinato in alcun modo, ma tant’è… viviamo in tempi dominati dal primato del “meno peggio” (il famoso “turarsi il naso” di montanelliana memoria, quando dava consigli di voto), il che è molto lontano dalle “magnifiche sorti e progressive” della leopardiana Ginestra

      Grazie ancora del tuo commento.

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      • esimio amico virtuale,
        ciò che regge in piedi un blog è proprio l’essere se stessi senza prostituirsi alle logiche del consenso, consenso che, per alchimie nemmeno tanto strane, arriva puntuale. L’accondiscendenza e la melassa non pagano, non sul medio e lungo termine, le menti pensanti vivono con convinzione le proprie idee e non le modificano mai per ingraziarsi la platea.

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