Ray Bradbury: The October Game

Ray-BradburyPer questa notte di Halloween mi è sembrato opportuno postare questo omaggio a Ray Bradbury, senza dubbio alcuno uno dei più importanti, prolifici e geniali autori di sci-fi, fantasy ed horror che sia mai vissuto.

Nato nel 1920 e morto pochi anni or sono alla veneranda età di 92 anni, Bradbury ha influenzato profondamente non solo la letteratura di genere, ma anche gli altri media.

Fahrenheit_451_(1966)_Francois_TruffautAnche solo l’aver scritto il romanzo “Fahrenheit 451” del 1953 (da cui il maestro della nouvelle vague François Truffaut trasse nel 1966 l’omonimo film culto) basterebbe per inserirlo nella storia del cinema, ma questo esempio è solo la punta dell’enorme iceberg costituito dall’imponenza del contributo che Bradbury, con i suoi libri e le sue sceneggiature, ha dato al mondo del cinema e della televisione.

Nel 1975 Ray Bradbury fa uscire “Long After Midnight” (edita nel 1979 in Italia da Mondadori con il titolo ”Molto dopo Mezzanotte ed altri Ventun racconti”, un’antologia di 22 racconti spazianti dai generi più disparati (realistico, horror, fantascientifico, fantasy): tra questi, forse il più famoso di tutti è “The October Game (Gioco d’ottobre)”, che mi sono permesso, per questa notte speciale, di riportarvi integralmente.

E’ una lettura semplice, veloce ed assieme spiazzante, che vi consiglio caldamente di fare in compagnia, con magari uno di voi che legge a voce alta agli amici che lo ascoltano.
Vi posso assicurare che non impiegherete molto tempo e di certo non sarà stato tempo perso!

Buon Halloween e buona lettura!

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Ripose la pistola nel cassetto della scrivania e chiuse il cassetto.
No, non così. Così Louise non avrebbe sofferto. Sarebbe morta senza soffrire e sarebbe tutto finito. Era invece importante che questa cosa, soprattutto, durasse. Occorreva fantasia per farla durare. Come prolungare la sofferenza? E, prima di tutto, come crearla?
L’uomo ritto di fronte allo specchio della camera da letto si agganciò con cura i gemelli ai polsini della camicia. Si distrasse per ascoltare il rumore dei bambini che correvano veloci in strada, fuori della calda casa a due piani: bimbi come tanti topolini grigi, come tante foglie d’autunno.
Dal rumore che facevano i bambini si sapeva che giorno era dell’anno. Dalle loro grida si sapeva che sera era. Si sapeva che l’anno era avanzato. Ottobre. L’ultimo giorno di ottobre, con le maschere dipinte come teschi, le zucche intagliate, l’odore di cera di candele.
No. Da qualche tempo le cose non andavano bene. Ottobre non le migliorava affatto. Semmai aveva peggiorato la situazione. Si sistemò la  cravatta nera a farfalla. Se fosse primavera, pensò facendo un cenno lieve, privo di emozione, alla sua immagine nello specchio, forse una possibilità ci sarebbe stata. Ma quella sera tutto il mondo stava cadendo in rovina. Non c’era il verde della primavera, non c’era freschezza, non c’erano promesse.
Udì un lieve passo di corsa in anticamera. “È Marion” si disse. “La mia piccola Marion. Con quei suoi otto anni quieti. Mai una parola. Solo quei suoi occhi grigi luminosi, quella bocca sempre atteggiata a sorpresa.” Sua figlia era entrata e uscita di casa tutta sera, provando diverse maschere, chiedendogli quale fosse la più terrificante, la più orribile. Insieme avevano infine scelto la maschera da scheletro. Era “proprio orribile”! Avrebbe “fatto accapponare la pelle” alla gente!
Di nuovo colse la lunga occhiata di pensosa decisione che si era dato allo specchio. Ottobre non gli era mai piaciuto. Da quel giorno in cui, per la prima volta, aveva raccolto le foglie d’autunno davanti alla casa di sua nonna, tanti anni prima, e aveva udito il vento e visto gli alberi vuoti. Aveva pianto, senza ragione. E una parte di quella tristezza lo riassaliva ogni anno. Svaniva sempre con l’arrivo della primavera.
Quella sera, però, era diverso. C’era una sensazione d’autunno venuto per durare un milione di anni.
Non ci sarebbe stata la primavera.
Aveva pianto silenziosamente tutta sera. Sul suo volto non appariva nemmeno una traccia. Il pianto era nascosto dentro e non cessava.
Un profumo penetrante, sciropposo di dolciumi, riempiva la casa piena di vita. Louise aveva tolto dal forno le mele ricoperte di zucchero caramellato; c’erano zuppiere colme di frutta frullata di fresco, ghirlande di mele appese a ogni porta, zucche intagliate che sbirciavano con i loro occhi triangolari da ogni davanzale di finestra. In mezzo al salotto c’era una vaschetta d’acqua in attesa, con un sacco di mele vicino, dell’inizio del gioco, afferrare la mela con i denti. Mancava solo l’elemento catalizzatore, l’invasione dei bambini, perché le mele cominciassero a ballonzolare nell’acqua, le ghirlande di mele a ondeggiare sotto le cornici delle porte, i dolciumi a scomparire, le stanze a echeggiare di grida di spavento o di piacere, era poi la stessa cosa.
Ora nella casa c’era un silenzio d’attesa. E anche qualcosa di più.
Quel giorno, Louise era riuscita a essere in ogni stanza tranne quella in cui si trovava lui. Era il suo modo sottile di fargli sapere, oh, Mich, guarda come sono occupata! Così occupata che quando entri nella stanza in cui mi trovo c’è sempre qualcosa che devo fare in un’altra stanza! Guarda come corro avanti e indietro!
Per un po’ era stato al gioco con lei, un gioco infantile, cattivo. Se lei era in cucina, entrava anche lui in cucina dicendo “ho bisogno di un bicchier d’acqua”. Dopo un istante, passato lui a bere, lei china come una strega sulla boccia di cristallo sulla padella dello zucchero caramellato che ribolliva come un paiolo preistorico sul fornello, Louise diceva: “Oh, devo accendere le zucche”, e correva in salotto a far sorridere di luce le zucche. Lui la seguiva sogghignando. “Devo prendere la pipa.” “Oh, il sidro!” gridava lei allora, correndo in sala da pranzo. “Lo guardo io il sidro” aveva detto lui. Ma quando aveva cercato di seguirla, Louise si era infilata in bagno chiudendo la porta a chiave.
Era rimasto fuori della porta del bagno, sorridendo in modo strano e sciocco, la pipa spenta in bocca. Poi, stanco del gioco, ma cocciuto, aveva aspettato immobile per cinque minuti. Dal bagno non usciva alcun rumore. E per evitare che Louise si rallegrasse sapendo che era lì fuori ad aspettarla, improvvisamente, irritato, girò sui tacchi e salì al piano superiore fischiettando allegramente.
In cima alle scale si era fermato. Infine aveva udito il rumore della porta del bagno che si apriva, lei era uscita e l’animazione a pianterreno era ricominciata, come nella giungla, dove la vita deve ricominciare una volta che il terrore è passato e l’antilope ritorna ad abbeverarsi alla fonte.
Ora, dopo aver sistemato il nodo della cravatta ed essersi infilato la giacca scura, sentì un fruscio di passi da topo in anticamera. Marion apparve sull’uscio, travestita da scheletro.
«Come ti sembro, papà?»
«Bellissima!»
Da sotto la maschera uscivano i capelli biondi. Dai fori del teschio sorridevano due piccoli occhi celesti. Lui sospirò. Marion e Louise, le due silenziose contestatrici della sua virilità, il suo oscuro potere. Quale processo di alchimia era avvenuto in Louise per cancellare il bruno di un uomo bruno, per sbiancare gli occhi castani e i capelli neri, per lavare e sbiancare il feto durante il periodo prenatale fino alla nascita della piccola Marion, bionda, con gli occhi azzurri, le gote rosa? A volte lo assaliva il sospetto che Louise avesse concepito la bambina come un’idea, completamente asessuata, un’immacolata concezione frutto di una mente e di cellule sprezzanti. In segno di rigetto di lui aveva prodotto una bambina a propria immagine e somiglianza e, come se questo non bastasse, aveva manipolato  il medico spingendolo a dire “mi dispiace, signor Wilder, sua moglie non potrà più avere figli. Questa bambina è l’ultima”.
«E io volevo un maschio» aveva detto Mich, otto anni prima.
Quasi si chinò per prendere fra le braccia Marion, con la sua maschera da scheletro. Provò un inspiegabile senso di pietà per lei, perché non aveva mai avuto l’amore del padre, solo l’amore invadente e possessivo di una madre incapace di amare. Soprattutto provò pietà per se stesso, perché non era riuscito a trarre il meglio da una nascita infausta, perché non era riuscito a godere sua figlia per quello che era, indipendentemente dal fatto che non fosse scura, non fosse un maschio, non fosse simile a lui. Aveva sbagliato. In condizioni normali avrebbe potuto amare la bambina. Ma Louise non l’aveva voluta, quella figlia. L’idea del parto l’atterriva. Era stato lui a costringerla a concepire e da quella notte, per tutti i nove mesi fino all’agonia del parto, Louise era vissuta in un’altra parte della casa. Pensava che quel parto imposto l’avrebbe uccisa. Era stato facile per Louise odiare il marito che voleva così disperatamente un figlio da esser pronto a consegnare la moglie all’obitorio.
Invece… Louise era sopravvissuta. E in modo trionfale! I suoi occhi, il giorno che era andato a trovarla in ospedale, erano gelidi. Sono viva, dicevano. E ho una figlia bionda! Guarda! E quando lui aveva teso una mano per toccare, la madre si era ritratta per complottare con la sua nuova bambina rosa, al riparo da quell’assassino bruno e prevaricatore. Era una scena splendidamente ironica. Il suo egoismo se la meritava.
Ma ora era di nuovo ottobre. C’erano stati altri mesi d’ottobre e il pensiero del lungo inverno lo aveva sempre riempito d’orrore, anno dopo anno, di fronte alla prospettiva di interminabili mesi da trascorrere assediato in casa da una folle nevicata, in trappola per mesi con una donna e una bambina che non lo amavano, né l’una né l’altra. In quegli otto anni c’erano stati periodi di tregua. In primavera e in estate si poteva uscire, passeggiare, fare colazione fuori. Erano soluzioni disperate al problema disperato di un uomo odiato.
In inverno, invece, le passeggiate, i picnic, le fughe svanivano insieme con le foglie. La vita, come un albero spoglio, era vuota, i frutti ormai raccolti, la linfa prosciugata. Sì, si potevano invitare gli amici a casa, ma era difficile trovare amici d’inverno, con le tempeste di neve e il resto. Una volta era stato saggio al punto di mettere soldi da parte per una vacanza invernale in Florida. Erano andati a sud. Era uscito all’aperto.
Ma ora, alle soglie dell’ottavo inverno, sapeva che le cose erano finalmente giunte al termine. Non poteva sopportarne un altro. C’era un acido, chiuso dentro di lui, che lentamente, nel corso degli anni, aveva corroso muscoli e ossa. Ora, proprio quella sera, l’acido stava per raggiungere la camera di scoppio che c’era in lui, e tutto sarebbe finito!
Ci fu un folle scampanellìo alla porta a pianterreno. Nell’atrio, Louise andò ad aprire. Marion, senza dire una parola, corse giù a dare il benvenuto ai primi arrivati. Ci furono grida e scoppi di risa.
Lui si avviò verso le scale.
Louise era sotto di lui, a raccogliere mantelli. Era alta, sottile e bionda al punto da sembrare bianca, e rideva circondata dai bambini.
Ebbe un attimo d’esitazione. Perché tutto questo? Gli anni? La noia di vivere? Che cosa non aveva funzionato? Di certo non era solo la nascita della bambina. Però quella nascita era stato il simbolo di tutte le loro tensioni, pensò. Le sue gelosie, i suoi insuccessi nel lavoro e tutte le altre cose squallide. Perché non faceva le valigie e se ne andava? No. Non senza aver fatto a Louise tanto male quanto lei ne aveva fatto a lui. Semplice. Il divorzio non le avrebbe fatto male. Sarebbe stato solo la fine di un’epoca di indecisione. Se il divorzio le dava piacere, sarebbe rimasto suo marito per tutta la vita. No, doveva farle del male. Trovare un modo, magari, portarle via Marion, legalmente. Sì. Doveva fare così. Portarle via Marion. Sarebbe stata la miglior vendetta.
«Salve!» discese le scale, raggiante. Louise non si voltò a guardarlo.
«Salve, signor Wilder!»
I bambini salutarono e gridarono mentre scendeva.
Entro le dieci erano cessati gli scampanellii alla porta, le mele appese sopra le porte erano tutte segnate dai morsi dei bambini, i volti rosei erano stati asciugati dopo il gioco di addentare le mele nell’acqua, i tovaglioli erano tutti macchiati di zucchero caramellato e sciroppo di frutta, e lui, il marito, con simpatica efficienza aveva assunto il controllo della festa sottraendola alla guida di Louise. Andava avanti e indietro da una stanza all’altra chiacchierando con i venti bambini e con i venti genitori che li avevano accompagnati e ora erano soddisfatti del sidro speciale irrobustito da una buona dose di alcol che aveva preparato per loro. Aveva diretto tutti i giochi dei bambini in mezzo a continui scoppi di risa. Poi, nel bagliore tenue emesso dalle zucche con gli occhi triangolari, con tutte le luci della casa spente, gridò: «Silenzio! Seguitemi!» avanzando in punta di piedi verso la porta della cantina.
I genitori, ai margini del caos, facevano commenti fra di loro, approvavano l’entusiasmo dell’abile padrone di casa, invidiavano la moglie fortunata. Come se la intendeva con i bambini, osservavano.
I bambini fecero ressa dietro il padrone di casa, strillando.
«In cantina!» gridò lui. «Nella tomba della strega!»
Altri strilli. Lui finse di rabbrividire di paura. «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!»
I genitori risero.
Uno dopo l’altro i bambini scivolarono lungo un piano inclinato  che Mich aveva costruito con tavole di legno dall’atrio alla cantina buia. Mich gridava e sibilava frasi magiche scendendo dietro di loro. Un lamento meraviglioso riempì la casa semi-illuminata dalle zucche. Parlavano tutti contemporaneamente. Tutti meno Marion, per l’intera durata della festa aveva fatto pochissimo rumore; tutta l’eccitazione e la gioia se l’era tenuta dentro. Una piccola fata, pensò il padre. Aveva assistito alla sua festa con la bocca chiusa e gli occhi scintillanti, come se fosse uno spettacolo.
Ora toccava ai genitori. Con allegra riluttanza scivolarono lungo il breve piano inclinato mentre la piccola Marion aspettava, sempre decisa a vedere tutto, a essere l’ultima. Louise scese senza bisogno d’aiuto. Mich si avvicinò per darle una mano, ma lei era già in fondo al piano inclinato prima che lui avesse il tempo di chinarsi.
I piani alti della casa, illuminati dalle candele, piombarono nel silenzio.
Marion era ai piedi del piano inclinato. «Eccoci qui tutti» disse Mich e la prese in braccio.
In cantina si sedettero in un ampio cerchio. Il locale era riscaldato dal calore della fornace. Le sedie erano allineate lungo le pareti, venti bambini eccitati e dodici genitori, alternati gli uni agli altri, con Louise in fondo alla fila e Mich al primo posto, vicino alle scale. Cercò di scrutare i volti ma non vide nulla. Si erano tutti conquistati una sedia nell’oscurità. Da quel momento il programma doveva svolgersi al buio, con lui nella parte dell’Interlocutore. Si sentiva lo scalpiccio dei bambini, l’odore del cemento umido e il sibilo del vento sotto le stelle di ottobre.
«Pronti!» gridò il marito nella cantina buia. «Silenzio!» Si sistemarono tutti.
Il locale era nero nero. Nessuna luce, nessun riflesso, nessun luccichio d’occhi.
Un rumore sordo, un fruscio metallico.
«La strega è morta» annunciò il marito.
«Ehhhhh!» dissero i bambini.
«La strega è morta, è stata uccisa, ed ecco il coltello con cui è stata uccisa.»
Porse il coltello al bambino che gli sedeva a fianco. Fu passato di mano in mano, lungo tutto il cerchio, in un coro di strani gridolini, risa soffocate e commenti da parte degli adulti.
«La strega è morta, ed ecco la sua testa» sussurrò il marito e porse a chi gli stava più vicino un oggetto rotondo.
«Oh, io so come si fa questo gioco» esclamò un bambino nel buio, tutto felice. «Si prendono le interiora di un pollo dal frigorifero e le si passa in giro dicendo “ecco le interiora della strega!”. Poi si prepara una testa di creta e la si fa passare per la sua testa, e si prende un osso spolpato per braccio, una biglia e si dice “ecco il suo occhio!” e alcuni chicchi di granoturco e si dice “ecco i suoi denti!” e un sacchetto pieno di budino e si dice “ecco il suo stomaco!”. So come si gioca!»
«Taci, stai rovinando tutto» esclamò una bambina.
«La strega non ha fede, ed ecco il suo piede» disse Mich.
«Ehhhhh!»
Gli oggetti passarono di mano in mano, come patate bollenti, tutto intornno al cerchio? Alcuni bambini strillavano, non volevano toccarli. Altri scappavano via dalle sedie e si radunavano al centro della cantina fino a che quegli oggetti macabri erano passati.
«Avanti, sono solo interiora di pollo» disse un bambino con tono superiore. «Torna indietro, Helen!»
Passati di mano in mano, accompagnati da un grido dopo l’altro, i pezzi della strega giravano in cerchio, uno dopo l’altro.
«La strega muore ed ecco il suo cuore» disse il marito.
Sei o sette pezzi si muovevano contemporaneamente nell’oscurità piena di risate e di brividi di paura.
Si udì la voce di Louise. «Marion, non aver paura; è solo un gioco.» Marion non rispose.
«Sta bene» intervenne il marito. «Non ha paura.» Ripresero le urla, le risate, il passaggio degli oggetti.
Il vento autunnale sospirava intorno alla casa. E lui, il marito, stava in piedi alla testa della fila, intonando le parole magiche, passando gli oggetti.
«Marion?» domandò di nuovo Louise, all’estremità opposta della cantina.
Stavano parlando tutti.
«Marion?» chiamò Louise. Si azzittirono tutti.
«Marion, rispondimi, hai paura?» Marion non rispose.
Il marito era immobile, ai piedi degli scalini della cantina. Louise chiamò di nuovo. «Marion, sei qui?»
Nessuna risposta. La cantina era silenziosa.
«Dov’è Marion?» chiese Louise.
«Era qui» rispose un bambino.
«Forse è di sopra.»
«Marion!»
Nessuna risposta. Tacevano tutti.
Louise si mise a gridare. «Marion, Marion!»
«Accendete la luce» disse uno dei genitori.
Cessò il passaggio degli oggetti. Bambini e adulti rimasero seduti con i pezzi della strega in mano.
«No» esclamò Louise con un grido soffocato. La sua sedia scricchiolò nel buio, con un gemito violento. «No. Non accendete la luce, oh, Dio, Dio, Dio, non accendete, per favore, per favore non accendete la luce, no!» Louise stava urlando ora. A quel grido tutti rimasero impietriti.
Nessuno si mosse.
Rimasero a sedere nella cantina buia, sospesi nel loro ruolo improvvisamente congelato di quel gioco d’ottobre. Fuori il vento soffiava con forza, sferzando la casa, e l’odore delle zucche e delle mele riempiva il locale mescolato all’odore degli oggetti che ognuno teneva in mano. «Vado di sopra a cercarla!» gridò un bambino, e salì le scale di corsa sperando di trovarla in casa, poi fuori casa, e per quattro volte girò intorno all’edificio chiamando: «Marion, Marion, Marion!». Infine, ridiscese lentamente le scale fino alla cantina dove tutti aspettavano col fiato sospeso per annunciare nel buio: «Non riesco a trovarla».
Poi… un idiota accese la luce.


In questo post abbiamo parlato dello scrittore

Logo-WikiPediaRaymond Douglas “Ray” Bradbury
nato il 22 Agosto 1920 a Waukegan, nell’Illinois (area di Chicago)
morto il 5 Giugno 2012 a Los Angeles


32 pensieri su “Ray Bradbury: The October Game

  1. Come scrissi tempo fa in un commento, non ho una grande cultura del genere horror (sia in ambito letterario che cinematografico), ma lo apprezzo, come ho apprezzato il testo da te riportato di un autore, Bradbury, di cui non conoscevo nessuna opera, probabilmente sempre a causa della mia “ignoranza horror”. In ogni caso, questo è il post perfetto per un giorno come questo!

    Buon Halloween, Kasa!

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    • Ma buon Halloween a te, Dave! Sempre gentilissimo con me e soprattutto sempre di casa nei miei post, anche in questo, che era praticamente solo commemorativo!
      Sono felice che tu lo abbia comunque letto, perché è davvero un gran racconto, con quella tipica atmosfera in stile “Ai confini della realtà” (di cui ovviamente Bradbury è stato uno dei più accreditati autori a suo tempo!).

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      • Conoscevo Ray Bradbury ma solo per la sua fama e per qualche articolo a caso circa il suo ruolo fondamentale nell’evoluzione della fantascienza nel XX secolo. Non ho letto i suoi libri e non avevo letto questo The October Game, ma ho visto, ovviamente, il meraviglioso adattamento cinematografico di Fahrenheit 451 firmato Truffaut
        E comunque sì, in questo racconto qui, per quanto breve, c’è praticamente tutto l’horror che avremmo visto tra la fine degli anni ’70 e per tutti gli ’80. C’è tutto quell’insistere sui particolari disgustosi, sui colori accesi contrapposti al buio pesto, sui corpi e sui pezzi di corpo; c’è anche quella semplicità nel contrapporre le cose più belle e felici al terrore, al brutto, alla violenza e al desiderio di vendetta. Tutte cose che in anni più recenti sarebbero andate scemando, fino a cambiare completamente forma.

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        • Questo tuo commento è per me una doppia conferma: primo, che sei un amico, di quelli veri che gioiscono per un tuo successo e che ti supportano con generosità e ti sorridono sempre come se vederti sia davvero fonte di gioia; secondo, che sei una persona con uno spettro intellettuale molto ampio ed una cultura poliedrica e che dimostra l’assioma dell’epistemologo Piaget, secondo cui l’intelligenza è la capacità di analizzare le strutture.
          Amen.

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    • Cerach, non ci crederai, ma stavo pensando esattamente la stessa cosa quando ho riletto il racconto prima di ricopiarlo nel post e condividerlo: il parallelo che hai fatto è assolutamente perfetto ed è una notazione lucidissima, che in realtà, sotto traccia, dice molto più su tutto il genere!
      Grazie del contributo (lo so che, detta così, la frase fa cagare e sembra il ringraziamento standard che ci riserva con un sorriso un’assistente virtuale, ma in realtà quello mio è un grazie sentito!).

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    • Sei un tesoro DoppiaW, ma in questo caso era solo un modo per fare gli auguri ricopiando un racconto breve del grande Bradbury, che per me resta il più bello mai scritto con soggetto Halloween e che tanto ha influenzato gli altri scrittori nei decenni successivi…
      Spero che tu abbia apprezzato la storia!
      Sulla newsletter, sono solo orgoglioso della tua iscrizione: sai quanto ti apprezzi e quindi va da sé il piacere di essere contraccambiato…
      Un abbraccio.

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  2. Un maestro, un maestro, un maestro! E’ anche grazie a questo tuo post se ho scritto il mio, se ho “liberato” la fantasia. Non c’è niente da aggiungere. La fantascienza il fantastico che ti aspetti e che ti stupisce proprio.

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  3. Amo fare di tutto con mia figlia. Trovo gradevole perfino cambiarle il pannolino. Ma c’è una cosa che facciamo insieme che mi manda in estasi e potrei continuarla all’infinito: leggerle un libro.
    Nonostante in casa abbiamo decine di libri per bambini lei alterna sempre tra tre libri: Hansel e Gretel, Il libro della giungla, Guarda c’è un buco. Li prende dalla scatola, intima di sedermi sul divano, si arrampica sulle mie ginocchia, si siede stando bene attenta che la sua testa aderisca perfettamente al mio collo e al mio mento, apre il libro e poi mi dice: IO VOGLIO LEGGERE!
    E si parte.
    A volte posso proseguire anche un’ora itnera, senza stancarmi mai e senza badare alla gola via via sempre più secca.
    Chiara mi segue attenga, guarda le figure dei libri, indica col dito gli oggetti mentre li menziono, finisce le frasi (che ormai conosciamo entrambi a memoria) quando volutamente mi interrompo per stimolarla ad essere parte attiva del gioco, ride quando il suono di una parola le sembra buffo o quando un’immagine gli sembra divertente.

    Leggere è l’unica cosa che vuole fare solo con me ed è, senza alcun dubbio, il momento più bello della mia giornata.

    Sabato sera, dopo averle letto per la milionesima volta il LIbrottino della giungla, le ho detto: “Chiara, adesso leggiamo una cosa diversa!
    Lei inizialmente ha protestato ma quando ha visto che prendevo il tablet si è subito zittita: il fascino che smartphone, tablet et similia esercitano sui bambini è incredibile, quasi preoccupante.
    Poi ho iniziato a leggere il racconto di Bradbury postato da te e che, confesso, nemmeno io conoscevo.
    Lo so lo so lo so che non è proprio una lettura adatta ad una bambina di 2 anni… ma il bello di quell’età è che non importa tanto COSA racconti bensi il COME, quindi ho cercato di modulare la lettura il ritmo e l’interpretazione dei personaggi perchè la natura orrorifica e paurosa rimanesse velata e incomprensibile alle sue orecchie innocenti.
    Nonostante il racconto fosse lungo e privo di immagini lei è rimasta ferma e in silenzio sopra di me ad ascoltare la storia: ora hai una nuova piccola amica, Kasabake!!!!

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  4. Questa cosa che ho una lettrice così piccola e con ascendenze paterne così illustri mi lusinga e mi commuove anche un po’… ma tu hai avuto anche un bel po’ di coraggio a leggerle un racconto che se compreso è molto pauroso ed orrorifico!
    Non hai temuto una sequela di domande e spiegazioni imbarazzate conseguenti?
    Dimmi che sono curioso…

    Inoltre ti chiedo se anche a te (come già a me ed al blogger di “terminaleuomo” del commento sopra) lo stile di Bradbury non ti ricorda il primo King…

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  5. Pingback: “He had never liked October…”🎃 – words and music and stories

  6. Un link mi ha portato nel tuo passato. Ray Bradbury è stato un grande notissino con Farenheit 451. Letto molti anni fa ma che merita di essere riletto. Però è stato un autore di tante altri testi nei generi più disparati come nel brano da te riportato.

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    • È proprio vero, la grandezza di Bradbury è stata proprio quella di non essere mai davvero rinchiuso in una sola categoria o in un solo genere narrativo: chiaramente la sua predisposizione era fantasy (sia come sci-fi, sia come horror) ma con un taglio adulto ed uno sguardo profondo sulla società che lo circondava, tale da renderlo narratore completo a tutto tondo, un po’ come , cambiando la situazione, si potrebbe dire per Simenon tra i giallisti perché di fatto, malgrado la notorietà planetaria fornitagli dal personaggio di Maigret, i suoi romanzi migliori sono proprio quelli che si allontanano di più dal semplice meccanismo investigativo.

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