Elephant: la prevedibile virtù del Piano-Sequenza

Elephant-01

in questo post non faremo la recensione di un film, ma lo smonteremo, letteralmente ed useremo le sue componenti per parlare dei due sintagmi narrativi essenziali  nella narrazione cinematografica: la Scena e la Sequenza. Come qualsiasi buon manuale di cinematografia può insegnarci, possiamo dire, sintetizzando al massimo, che la Scena è l’insieme delle inquadrature usate per raccontare un segmento narrativo nella stessa unità di spazio e di tempo, mentre la Sequenza è l’insieme di tutte le scene (quindi delle inquadrature), anche molto articolate, con cui l’evento narrato viene descritto, senza una necessaria continuità spazio-temporale ed anche con tagli, ellissi, salti utili a raccontare compiutamente il pezzo di narrazione; a volte il regista ed il montatore decidono di unire anche più sequenze assieme, creando una sinfonia di narrazione che procede su vari piani contemporaneamente.

The-Silence-of-the-Lambs

Esempio perfetto, in questo senso, nel capolavoro di Jonathan Demme The Silence of the Lambs, con la doppia sequenza in cui si racconta sia dell’ingresso della squadra tattica della FBI nella casa di un sospettato, sia contemporaneamente a chilometri di distanza dell’ingresso dell’agente Clarice Starling nella casa del vero serial killer: montate assieme in una presentazione unica, le due sequenze sembrano raccontare fatti che avvengono contemporaneamente, ma non è necessariamente vero o meglio non ha importanza, poiché ciò che conta davvero è l’ansia e la suspense, ottenuta con scene di avvicinamento alla due case sia della Starling, sia degli agenti della FBI, con scene e riprese all’interno dei due ambienti, con inquadrature dettagliate di porte che si aprono, maniglie, occhi furtivi, ombre che si nascondono, squadre in movimento, stivali di gomma, armi, piani americani, controcampi e tutto l’armamentario degli “shot” delle cineprese montate su carrello e delle steadycam, insomma, tantissime scene per un’unica, enorme, complessa sequenza.

Cosa c’entra Elephant con tutto questo?
C’entra, c’entra, adesso ci arriviamo…
Abbiamo parlato di Scena e di Sequenza, ma quello che c’interessa adesso per parlare del film di Gus Van Sant è il famoso Piano-Sequenza: una sequenza, per l’appunto, costituita da un’unica inquadratura (statica o dinamica), assolutamente priva di stacchi al suo interno, ma anche capace di creare un’autonoma unità scenico-narrativa, in pratica una scena lunga senza interruzioni (long take) ma capace di essere da sola tutta la sequenza narrativa. Di seguito potete ammirare come esempio la mirabile sequenza iniziale, una lunga inquadratura in semi-soggettiva dell’auto guidata dal padre ubriaco di John McFarland, uno dei protagonisti del nostro film: il punto di vista è elevato, all’altezza della chioma degli alberi, con la cinepresa posta su un furgone attrezzato che segue l’auto inquadrata.

La storia del cinema è zeppa di piani-sequenza memorabili ed amiamo ricordarli, perché nel cuore dell’appassionato essi sono l’essenza stessa del fare cinema, la straordinaria possibilità ossia di raccontare un intero segmento della storia senza ricorrere al montaggio, ma solo con la ripresa della cinecamera (sia essa ferma, su un cavalletto o in continuo movimento, con camera a mano o steadycam), perché il racconto è organizzato e montato durante la ripresa stessa.

Possiamo cominciare con le clip ad osservare esattamente quanto detto sopra.
Dopo aver, infatti, introdotto il disagio familiare di John, con la sequenza del padre ubriaco alla guida, il regista Gus Van Sant ci presenta ora la scuola, con i suoi studenti ed i suoi spazi e lo fa usando dei piani-sequenza come quello di questa seconda clip, sempre tratta dalla nostra pellicola, come tutte le altre che seguiranno in questo post: la camera è fissa all’inizio della scena, con gli attori che sembrano venirle incontro, affacciarsi a noi come in una finestra, quindi si muove, per seguire uno dei protagonisti, seguendolo a distanza, in semi-soggettiva.

La tecnica del piano-sequenza è considerata da sempre una dimostrazione di grande bravura e di capacità di coordinamento da parte del regista, giacché richiede sforzi notevoli non solo alla troupe (cameraman, carrellisti, microfonisti, tecnici degli effetti speciali, etc.) ma anche agli interpreti, costretti a studiare dialoghi e coreografie al millimetro, dovendo poi, in caso di errori, ripetere dall’inizio sequenze talvolta anche molto impegnative.
Purtroppo spesso si confonde il piano sequenza vero e proprio con il long take, che invece è “solo” un’inquadratura lunga (a volte anche molto lunga), che però non completa l’intero segmento narrativo, non completa ossia la sequenza da solo, ma deve essere integrato da altre inquadrature per completare l’episodio raccontato.

Con la terza clip, dedicata al personaggio di Elias, il fotografo del gruppo di studenti, continua la presentazione della scuola, sempre con un meraviglioso piano-sequenza, in cui alla steadycam ed ai suoi movimenti rotatori attorno al personaggio si aggiungono carrellate laterali, profondità di campo e tutta una serie di montaggi visivi senza stacchi in corso d’opera. Siamo di fronte ad una rarissima perla di meraviglia cinematografica.

Veniamo finalmente a parlare davvero di questo film, di cui questo post dovrebbe essere recensione (però che fosse solo una scusa per parlare di altro l’ho detto all’inizio, vero?). Diciamo subito che in quest’occasione non c’interessa parlare del soggetto del film, ossia del proverbiale elefante nella stanza (“elephant in the room”), come recita l’espressione inglese per definire una verità non occultabile, che semplicemente non può essere ignorata o non vista e nello specifico parliamo del problema della libera circolazione delle armi negli USA e di tragedie ad essa collegate, come quella della Columbine High School avvenuta nel 1999 a cui il film si ispira in modo dichiarato), dove morirono 12 studenti ed 1 insegnante e furono ferite 24 persone, il tutto ad opera di due studenti che aprirono il fuoco indisturbati nell’edificio scolastico, per poi uccidersi da soli prima dell’intervento della S.W.A.T.

Quello che ci preme evidenziare è invece, come si sarà oramai ben comreso, lo straordinario linguaggio cinematografico usato dal regista Van Sant, che con questo film regala una lezione di cinema incredibile, ancora oggi oggetto di studio tra gli appassionati e tra coloro che comunque vogliano capire come funzione il media cinematografico e la sua sintassi narrativa.

Prenderemo il film, quindi e lo faremo letteralmente a pezzi: non parliamo solo di spoiler o di anticipazioni sulla trama, ma di una vivisezione dei suoi momenti narrativi essenziali.
Ecco, quindi, che nella quarta clip proposta, abbiamo il segmento narrativo delle tre studentesse Brittany Nicole and Jordan, riprese in una sequenza che da sola riassume in 5 minuti e 21 secondi, tutto il loro rapporto con gli altri (maschi e femmine, amiche e spasimanti), con lo studio ed infine con il cibo, perché la bulimia comportamentale le porta sempre a mangiare e poi a rigettare tutto in bagno, come un rito giornaliero.

In Elephant non c’è una sola inquadratura, una scena o una sequenza che non sia stata accuratamente studiata a tavolino con la troupe e con gli interpreti e per altro non poteva essere diversamente, visto che di fatto la pellicola è un compendio di continui lunghissimi piani-sequenza e long take, montati assieme in un caleidoscopio di narrazioni temporalmente intrecciate, così che vediamo raccontato lo stesso momento da più punti di vista in successione nemmeno immediata (come nel film di Kubrick del 1956 The Killing o in Pulp fiction del 1994 di Quentin Tarantino).

Nella nostra quinta clip, osserviamo l’utilizzo delicatissimo del rallenty aggiunto al piano-sequenza: il regista gioca con questo effetto, creando una dilatazione temporale appena percettibile per sottolineare in modo empatico sia il sentimento di ammirazione delle tre studentesse per la prestanza fisica del personaggio di Nathan, sia il suo accorgersi e gongolare appena accennato dell’apprezzamento ricevuto. L’effetto che se ne ricava è quello di una sorta di screenshot emotivo, una piccolissima pausa di riflessione prima della tragedia che cancellerà tutti questi momenti di frivolezza spensierata.

Prima di arrivare al massacro vero e proprio, il regista ci descrive minuziosamente la preparazione dei due killer, la loro volontà omicida nell’indolenza, nella noia, nel fastidio per la realtà squallida che li circonda: li vediamo ciondolare a casa loro, persi svogliatamente nei loro hobby (la musica per Alex ed i videogames per Eric) e poi l’acquisto delle armi via web. Quando decidono di partire per il massacro, equipaggiati di tutto punto, avranno un momento finale di umanità, quando incontreranno il loro compagno John, che di fatto salveranno dall’ecatombe, avvertendolo di girare al largo dalla scuola quel giorno: il perché di questa preferenza è nascosto nelle pieghe sottotraccia di tutta la pellicola ed in alcuni significanti più lirici che logici.

Quando si arriva al momento delle “shooting scenes”, dove vengono ripresi Eric e Alex che cominciano la mattanza, Van Sant abbandona il formalismo rigoroso del piano-sequenza puro: ora, nel momento della sparatoria, le sequenze diventano più articolate, senza mai rinunciare davvero alle riprese con la steadycam ed ai long take, ma montando ed alternando ad essi piani americani e primi piani, per raccontare la vicenda con maggiore distacco, evitando appositamente l’eccessivo coinvolgimento dello spettatore in un atto truculento, che invece l’uso della sola  soggettiva o di una semi-soggettiva continua (come quella adoperata in quasi tutte le riprese fino a quel momento) avrebbe di certo creato. Eric ed Alex entrano praticamente indisturbati, arrivando sino in biblioteca e qui, quello che sembrava un piano-sequenza viene interrotto bruscamente, per lasciare spazio ad un decoupage più classico, con i primissimi piani dei primi uccisi e poi il montaggio delle scene ed i morti sullo sfondo.

Era infatti per il regista e narratore venuto meno il motivo della scelta stilistica operata all’inizio ed in tutte le scene che seguiranno nel film, da questo punto in poi, viene evitata in ogni modo anche la profondità di campo, così, quando i protagonisti sparano, spesso le vittime cadono riprese fuori fuoco o addirittura vengono colpite fuori dall’inquadratura stessa. Il distacco operato per tutto il film, proprio con il rifiuto della soggettiva, diventa ancora più forte, fino alla lunga sequenza dedicata a Billy, il ragazzo afro-americano che si aggira con fare quasi indifferente per i corridoi di una scuola in preda al panico, mantenendo un incredibile sangue freddo fino a giungere vicinissimo ad uno dei due assalitori, Eric, che sta per freddare anche il preside dell’istituto.

Con la nona ed ultima clip proposta, siamo arrivati alla scena finale del film, dove quel distacco sostenuto nella prima parte e persino rafforzato nella seconda, viene completamente meno e tutto l’ultimo piano-sequenza è un lungo guaito di dolore, triste, amaro e disilluso: Alex ha appena ucciso il suo compagno, perché sin dall’inizio il piano era quello di togliersi la vita vicendevolmente, ma prima di uccidersi a sua volta (cosa che non vedremo ma che lo spettatore sa, ricalcando dalla cronaca), deve finire di “fare pulizia” e così cerca e scova i due amanti, nascosti nella cella frigo e li sorprende come topi in gabbia, sorride persino mentre punta l’arma contro di loro ed è allora che il regista sembra voler scappare, come noi, da tanto orrore e mentre Alex comincia  a canticchiare la filastrocca “Eeny, meeny, miny, moe”, la cinepresa si allontana, sempre di più, per non vedere e per non farci vedere più nulla.

Sin dalle sue prime proiezioni, il film è stato letteralmente osannato da chiunque ami il cinema nelle sue espressioni formali più alte ed i piani-sequenza, di cui il film è ricchissimo, sono praticamente tutti considerati da antologia, anche se certo non vistosi e scenografici come quelli di altre pellicole di diverso genere, ma qui è il soggetto ad aver spinto il regista a lavorare sotto tono, quasi con rispetto per le vittime, per l’accaduto a Colombine e per i testimoni, ancora in vita ed ancora traumatizzati.

Un film di certo non spettacolare in senso stretto, ma decisamente sublime come qualità artistica. Non a caso, Patrice Chéreau, presidente della giuria del Festival di Cannes del 2003, arrivò persino a modificare d’imperio le regole che impedivano di assegnare la “Palme d’Or” come miglior film in concorso ed il “Prix de la mise en scène” (anche detto premio per il miglior regista) allo stesso film, perché fu esattamente quello che dovettero fare quell’anno con Elephant.

Un’ultima curiosità: il film fu girato in pellicola 35 mm, con un rapporto d’immagine di 1,37:1, quindi il classico 4:3: dettaglio interessante, considerando che in Home Video è stato distribuito in 16:9 per essere più gradito al pubblico casalingo, formato ottenuto tagliando via una fetta consistente dell’immagine in basso ed una più sottile in alto e nessuno sembrava essersene accorto, tranne ovviamente chi lo ha visto al cinema!


In questo post abbiamo parlato di:

Elephant“, USA, 2003
Regia: Gus Van Sant
Soggetto e Sceneggiatura: Gus Van Sant


Come riferimento per le definizioni delle tecniche di ripresa, ho usato il libro di André Bazin “Orson Welles”, nell’edizione più recente pubblicata in Italia, quella del 2005 dell’editore Temi, a cura della studiosa di cinematografia Elena Dagrada (che tra l’altro ha scritto anche la relativa voce “Piano-Sequenza” sull’Enciclopedia Treccani online)


La filastrocca “eeny meeny miny moe”, canticchiata dal personaggio di Alex, ha davvero una storia interessante, perché negli USA è tornata in voga la vecchia versione razzista, che vedeva il termine “nigger” presente laddove era stato sostituito dal più politically correct “tiger”: consultate, se volete, l’interessante pagina di WikiPedia al riguardo.


31 pensieri su “Elephant: la prevedibile virtù del Piano-Sequenza

  1. Scuola di cinema Kasabake. Questo articolo, come tutti gli altri del resto, è un saggio, un capitolo di un ipotetico libro sulla Settima Arte, un trattato enciclopedico che potresti scrivere senza alcun problema, arricchendo gli appassionati con nozioni, analisi, considerazioni interessanti ed esaustive, scritte impiegando un linguaggio adeguato, che non risulta essere mai noioso o poco scorrevole. Il tema, in questo caso, in questo trattato cinematografico, è il piano-sequenza, l’essenza del cinema in quanto arte visiva, uno spettacolo per gli occhi di ogni spettatore. Grazie per il tuo lavoro Kasa!

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  2. Grazie Dave, davvero, perché invece ho mandato on-line questo mio post con un certo timore… Temevo sul serio questa volta di venire etichettato come “saputello presuntuoso”, antipatico e supponente.
    Ho infatti il vizio di voler insegnare sempre qualcosa, ma non lo faccio mai veramente per necessità di affermare il mio ego, quanto per il piacere sincero di condividere idee ed emozioni!
    Adoro infatti, ancor più del blog, lo spazio dei commenti, dove con te, con Lapinsù, con Michael, con Lupo, con Zack (giusto per citare i più assidui), discuto, rido, scherzo, dibatto, sugli argomenti più disparati.
    Mi conforta sapere che il pezzo ti sia piaciuto, dunque, perché vorrei mantenere il tenore del mio piccolo blog su questo tono, parlando sempre di bel cinema e di bella fiction, a volte destinati ad un pubblico popolare, a volte invece più ristretto e questo perché, come discutevo con Lapinsù, il cinema bello è sempre bello, aldilà dei generi e degli stili, senza preclusioni, da “La corazzata Potëmkin” (che molti dimenticano essere stato scritto e diretto per un pubblico molto popolare, con linguaggio assolutamente per tutti e divenuto icona del cinema snob solo perché oggi molto distante dal gusto e dalla grammatica espressiva nostra, noi gente del duemila) a “Bad Boys I e II“.
    Come ho scritto nel post, sto infatti preparando una categoria del blog dove parlerò di volta in volta di una scena o di una sequenza, che per la loro straordinaria bellezza e/o importanza, hanno costruito il mio immaginario filmico personale: per lo stesso assioma prima enunciato, saranno segmenti narrativi sia tratti da film popolari sia più elitari, perché come dice il nostro amico Lapi “la CULTURA non implica il saper apprezzare solo le forme artistiche auliche e intellettuali, al contrario implica il saper riconoscere il BELLO e la GRAZIA in qualunque pertugio sappiano nascondersi“, con tutta la serietà ed assieme il doppiosenso che la frase presuppone.
    Ancora una volta il tuo sostegno, la tua parola, il tuo libero pensiero mi aiutano e mi sostengono.
    Sono tuo debitore,

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  3. Il BELLO e la GRAZIA in qualunque…pertugio…. tralasciando il doppio senso, Lapinsu ha scritto una sacrosanta verità. Appare sempre chiaro che il tuo voler mostrare ed insegnare qualcosa in ogni tuo post, non deriva dalla voglia di mostrare il proprio ego e le proprie conoscenze, tanto per farsi notare. Al contrario riesci sempre a coinvolgere, ad arricchire i tuoi lettori mantenendo un tono pacato, umile, ma soprattutto APPASSIONATO. È la passione per il complesso mondo dello spettacolo che ti guida, non l’arroganza (tranquillo, questo è evidente in ogni tuo articolo). Aspetto il tuo “Treasure Chest”, pronto ad imparare qualcos’altro!

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  4. Il pezzo è troppo tecnico per un ignorante come me, quindi non mi sogno neanche di entrare nel merito del discorso.

    Faccio solo due osservazioni:
    – la tua abitudine (credo di origine accademica) di inserire in fondo una sorta di bibliografia è così squisitamente utile e intelligente che se fossi meno pigro dovrei inserirla anche nel mio blog
    – l’idea di raccogliere le scene più belle – magari spiegandole – è veramente interessante, soprattutto per i profani come me :-). Tra l’altro tempo fa pubblicai un pezzo con le scene che più amo: son curioso di vedere se ce ne sarà qualcuna anche nel tuo calderone!!!!

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    • Lapinsù!
      Ti saranno fischiate le orecchie in queste ore ed in questi giorni, perché, come avrai forse notato in giro, sei il blogger che cito più spesso nei miei commenti (vedi sopra ad esempio…)!
      Ad ogni modo, andando per punti…

      1. Non ti azzardare più, quando parli con me, a definirti “ignorante” perché so che non è vero: hai impostato il tuo blog appositamente con una ricerca (raffinata) di un codice linguistico adatto sia a parlare di cinema come di musica, come di calcio e questo e questo ti rende fruibile ad una platea vasta (se capisci cosa intendo e sono certo che lo capisci…), ma io ti conosco (linguaggio un po’ mafioso, me ne rendo conto…) e tra le righe dei tuoi commenti si percepisce la passione, la cultura ed il mimetismo understatement… quindi, stai in campana, ti curo ragazzo!

      2. Lieto (lietissimo!) che ti piaccia il mio inserire piccole note inj fondo, anche perché nel web sembra che si faccia a gara o al copia&incolla o a chi le spara più grosse… quindi meglio premunirsi!

      3. L’idea del mio “Treasure Chest”, come scrissi in uno dei miei commenti, viene proprio dalla tua pagina ”Top 20 Scene Film”, che lessi, che mi ispirò e che è proprio alla base del mio progetto: come a suo tempo feci per il Best Of (directors, actors e actresses), però, invece di una classifica, farò una categoria in cui inserire dei post, in cui parlare di volta o di una singola scena o di una sequenza ed implicitamente del film da cui è stata tratta.
      Sarà una cosa molto personale (come lo è il mio “pantheon”) e come lo era la Top 20 e saranno molto legate alla mia goduria nel vedere sequenze tecnicamente perfette ed assieme appassionanti (un binomio che ho capito, mutatis mutandis, essere per entrambi il segnale che quello che vediamo è un capolavoro): tanto per capirci, quando guardavo e riguardavo la sequenza con cui Michael Bay descrive la folle discesa dei due SUV a Cuba, nell’inseguimento diretto alla base USA di Guantanamo, con le auto che attraversano letteralmente la baraccopoli in un’orgia di devastazione, io godevo per la bellezza della scena ma mi rendevo anche conto che stavo guardando una sequenza su cui sceneggiatore e regista non si erano poi sforzati un delirio per farla, mentre quando guardi gli inseguimenti di Fury Road capisci la differenza e stiamo parlando in entrambi i casi di film diretti ad un grande pubblico.
      Ecco, godimento, emozione ed ammirazione del bello, come nella sequenza numero 1 della tua Top ten (da “2001 Odissea nello spazio” o nella numero 5 (dal capolavoro di Hitchcock) o nella 12 (da “Pulp Fiction”) o ancora nella 13 (con Eastwood che registra la straziante eutanasia ed apre un varco sui massimi sistemi) ed infine nella 16 con una delle sequenze più complicate, più belle e più emozionanti mai girate nella storia del cinema e che io se facessi una classifica inserirei tra le prime 10 in assoluto, quella da “The Untouchables” e che probabilmente inserirò anch’io come post (vincendo per un soffio sulla sequenza dell’uccisione di Jimmy Malone/Sean Connery nello stesso film)

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  5. Appena letto il titolo, non ho neanche pensato che volessi fare il “saputello presuntuoso” come dicevi prima a Dave. Oramai mi sono fatto un’idea di come scrivi e di come ti approcci al blog, quindi quel rischio per me semplicemente non esisteva.
    Tuttavia, ammetto di aver storto leggermente il naso perché, detto in poche parole, “Piano sequenza is the new Found Footage”. Negli ultimi anni è insomma esplosa questa moda del piano sequenza, o meglio dell’esaltazione del piano sequenza come se fosse una cosa nuova e rivoluzionaria quando in realtà è una tecnica vecchia quanto il cinema, usata da tutti i più grandi registi di sempre, ovviamente in dosi e modalità differenti da caso a caso. Spielberg, ad esempio, da sempre fa dei piani sequenza o anche dei long take di circa 1 o 2 minuti, che non sono lunghissimi e magari appaiono anche semplici a prima vista, ma restano pur sempre complicatissimi da girare e non hanno nulla da invidiare a nessuno.
    Detto questo, il momento di perplessità ti assicuro che è durato solo qualche millesimo di secondo. Giusto il tempo di ricordarmi con chi avevo a che fare.
    Ti chiedo quindi scusa, maestro Kasabake, per aver avuto un istante di esitazione, ma immagino tu possa capire la frustrazione del leggere continuamente gente che parla di piano sequenza come fosse un nuovo tipo di gelato.
    Questo articolo non solo conferma l’ottimo livello qualitativo degli altri tuoi articoli (allo stesso tempo appassionanti ed enciclopedici, due aggettivi che raramente stanno bene insieme), ma in più è uno dei pochi articoli che parlano del piano sequenza e che porca miseria serve a qualcosa!!! Innanzitutto, ho apprezzato già la scelta del film che hai deciso di vivisezionare, Elephant, un titolo non recentissimo e molto poco gettonato; una grande opera che è effettivamente più una lezione di cinema che un film, con tutto ciò che ne consegue, nel bene e nel male. E quindi sei riuscito sia a fare un’analisi corretta e dettagliata della pellicola che a dire qualcosa di utile e giusto sulla tecnica del piano sequenza. E non posso che farti i miei più sentiti complimenti.
    Davvero, complimenti!

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    • Aldilà dei complimenti, che ovviamente come tali fanno sempre piacere, il tuo commento, come sempre, contiene spunti di riflessione interessantissimi…
      Anzi, diciamo che oramai me lo aspetto da te, che affronti le cose con uno spirito critico davvero poco comune e che trapela per primo nei tuoi articoli sul tuo blog…
      Mi spiego meglio: tu Zack non ti limiti mai a dire se una cosa ti è piaciuta o meno, ma ti preoccupi anche della falsità, delle esagerazioni o della ipocrisia che aleggia intorno all’argomento quando altri lo hanno trattato, sia esso un blockbuster o un cult o qualcosa di cui comunque si sta parlando ed in questo mi riconosco, molto di più di quanto possa sembrare.
      Un mondo intero ci rende diversi eppure per questo aspetto siamo molto simili: è una specie di bisogno di verità, di girarsi a dire a chi ci sta vicino “no, guarda, non è così, ti stai sbagliando…”
      Ed è bello, tutto questo.
      Il Piano-Sequenza… una moda decantarlo, ma anche uno dei momenti più alti del cinema: può essere realizzato benissimo, ma un po’ barocco e fine a se stesso (come a mio avviso lo era quello della festa nel film di Sorrentino “Il divo”, con la cinepresa che attraversa la fila di persone in attesa per parlare con il politico, entra nella sala dove le cubiste stanno animando il ballo, sale di prospettiva per poi riabbassarsi ed entrare nel salottino dove siede l’uomo che tiene udienza a tutte quelle persone ed infine ruota per fermarsi davanti al nostro Servillo), come a dire a tutti quanto si è bravi, ma può anche essere la miglior comunicazione possibile, come quello con cui Scorsese in modo equlibratissimo, narra la società newyorkese di fine 800, con il fluire della steadycam attraverso la teoria di salotti e salottini (tutti ricreati da quel genio di Dante Ferretti) della casa dei Beufort, tallonando in semi-soggettiva il protagonista Newland Archer in “The Age of Innocence”, mentre la voce fuori campo descrive quell’opulenza con le parole della scrittrice Edith Wharton.
      Ci sarà sempre un filisteo che rovinerà le cose belle, che le svilirà, ma l’arte sopravvivrà a se stessa ed agli stolti: mi stavo riguardando i piani-sequenza di “Magnolia” di Anderson, di “The Mirror” di Tarkovsky , ammirandoli e così come per una valanga di tanti altri (sarò banale ma io ho adorato quello del giapponese Cary Fukunaga per il quarto episodio della prima stagione di “True Detective”… cavoli, lo ha girato solo 6 volte alla fine funziona così bene che se non ci fai caso non te ne accorgi nemmeno… la sequenza è adrenailica, angosciante, infinita come il momento che sta vivendo il personaggio… non è fine a se stessa, non è esercizio di stile mero e semplice, è narrazione!
      Ecco perché, anche se non saranno molti i piani-sequenza di cui parlerò nella mia rubrica del Treasure Chest, anticipo a te, così diverso da me in tante cose eppure così simile, che il primo post con cui partirò sarà proprio dedicato al piano-sequenza di apertura di quel capolavoro immortale di Orson Welles che fu “Touch of Evil” e che da solo servì ad Andrè Bazin per coniare lo stesso termine di cui oggi tanti abusano.
      Leggere i tuoi commenti crea dipendenza come leggere i tuoi post, sappilo.
      Se non ci fossi su WP, bisognerebbe inventarti.

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      • Kasa sono lusingato, non so come ringraziarti.
        Posso dirti però che non sei banale perché ti piace il piano sequenza finale della quarta puntata di True Detective, anzi saresti un’idiota se non ti piacesse!!! Quello è senza dubbio uno dei picchi più alti raggiunti dalla televisione americana negli ultimi anni e tu non ti sei limitato a citarlo ma hai anche spiegato perfettamente PERCHé quella sia una scena della madonna. Ed è questo che piace fare a me ed è questo che mi piace leggere su un blog di cinema: provare a spiegare perché un film, una scena o qualsiasi cosa sia bella o brutta, attraverso argomentazioni che non siano tautologiche, ma che approfondiscano un minimo la discussione e che provochino un minimo di crescita personale sia in chi scrive che in chi legge.
        Detto questo, dire semplicemente bello o brutto, mi piace o non mi piace, è comunque un gioco divertente da fare, lo faccio spesso anche io e non posso pretendere che anche il più piccolo commento debba per forza essere illuminante sull’argomento, perché sarei uno stronzo. Posso dire, però, che i tuoi post sono per me molto interessanti già per il semplice fatto che dicono effettivamente qualcosa.
        E adesso non vedo l’ora che arrivi la prima puntata della Treasure Chest, anche se ammetto di non aver ancora visto Touch of Evil, ma pare che improvvisamente il film sia salito in cima alla lista dei film che devo recuperare. Quindi tranquillo 😀

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        • Tu Zack non dovrai mai ringraziarmi perché sono sincerissimo ed ammirato per quello che fai da solo ed orgoglioso di quello che dici su di me.
          Concordo su tutto quanto hai detto ed ora ovvio perché su questi “massimi sistemi” siamo sulla stessa lunghezza d’onda.
          Ora, pero’, avrei bisogno di un aiuto e di suggerimento: per ragioni squisitamente grafiche e non concettuali, mi risulta poco pratico chiamare la nuova categoria del mio menù come avrei voluto ed ossia “Treasure Chest” perché è un nome troppo lungo (per le mie esigenze solo grafiche, ripeto) e dovrei stare, se riesco, entro gli 8 caratteri , spazi compresi.
          Quindi sto cercando una parola unica (come le altre voci del menù “Home”, “Kasabake”, “Cinema”, “Fiction Tv” (queste sono due, ma vabbè…), “Fumetto”, “letteratura”, “Società”, “Pantheon”, che non sia più lunga di 8 caratteri (come da sola è “Treasure”).
          Oltretutto dovrebbe essere una parola in qualche modo evocativa (a me piaceva il concetto dello “scrigno”, del baule del tesoro), ma anche generica, che non escluda in partenza alcuna categoria (potrei parlare di tutto, da un piano-sequenza, ad un long.take, ad una scena, ad una sequenza o ad un dialogo… insomma, massima libertà)
          Cosa potrei usare, secondo te?
          Ti va di darmi qualche consiglio?
          Ovviamente sei libero anche di non rispondere, ci mancherebbe, così come io sarò libero di non accettare: massima autonomia creativa tua e massima autonomia decisionale mia, giacchè siamo adulti e non ci offenderemmo l’uno delle decisioni dell’altro!

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          • Uh mi piacerebbe poterti aiutare ma sono più negato di quanto pensi a trovare un nome per qualcosa! Restare poi entro gli 8 caratteri di certo non aiuta! Ahahah! Non me ne volere, al momento mi viene in testa solo “Vertigo”, ovvio rimando a Hitchcok, ma non saprei…
            Continuerò a pensare a qualcosa, ma probabilmente hai molta più fantasia di me!

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            • Senza impegno, zack, ci mancherebbe altro!
              Non deve costituire una preoccupazione, anzi non vorrei nemmeno che ci pensassi davvero… perché la vita come la creatività ci riserva sempre delle sorprese e magari, proprio quando stavi pensando a tutt’altro, davanti alla vtrina di un negozio o mentre guardi lo scaricod el lavandino che si stab inghiottendo la schiuma da barba sciacquata via dal lavandino, ecco, magari ti viene in mente un maledetto (se non fosse volgare, “fucking” non era brutto… cose fottutamente belle…) nome adatto per la mia categoria ed allora me lo fai sapere… se magari io non l’ho già trovato, chissà…
              “Vertigo” risponderebbe alle necessità ma è troppo identificabile con lo specifico movimento di macchina (hai presente carrellata + zoommata assieme? Come in quella scena stupenda sulla terrazza panoramica con Vincent Cassel ne “La Haine – L’odio” di Kassovitz?).
              Pensa una categoria che si chiamasse “Effetto Notte”… Ma poi ci sono già un delirio di siti chiamati così… è un casino… Voglio stare in otto caratteri…

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            • Aspetta, aspetta, ci sei ancora?
              L’idea che hai avuto, “Vertigo”, mi ha fatto venire in mente di stare nel campo della terminolgia tecnica oppure inglese in generale… ho buttato giù delle idee.. dimmi che ne pensi:

              Digest (nel senso di selezione)
              Choice (come scelta)
              Shots (nel senso proprio di riprese cinematografiche)

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              • Eccomi, scusa sono andato un attimo a vedere finalmente il nuovo Nanni Moretti in un cinemino vicino casa. 😀
                Comunque fra questi tre forse sceglierei Shots che sarebbe in un certo senso la scelta più sicura e di più facile attrattiva. A dire la verità ci avevo pensato anche io, non te l’ho proposto subito perché ho pensato appunto che il termine si riferisse più alle singole riprese che a una scena intera, ma a ripensarci ora questo non è un problema vero, perché alla fien ciò che rende bella una scena, sono le belle riprese che la compongono. Capitan Ovvio proprio.
                Choice invece mi sembra un po’ troppo generico, mentre Digest è forse quello più suggestivo, ma allo stesso tempo potrebbe non rendere bene l’idea o risultare incomprensibile ai più. Valuta tu, se sei d’accordo, quanto sia importante questo aspetto.
                Anzi in generale, non stare troppo a sentire me, se vuoi altri consigli sono sempre a disposizione, ma dopodiché fai tu le tue considerazioni e non ti fare problemi a ignorare quello che dico, perché come hai detto tu, siamo adulti e nessuno si offende!

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                • Sempre con il presupposto di massima libertà creativa e decisionale, diciamo che concordo con tutte le tue osservazioni e diciamo che per ora scartiamo tutto le altte ipotesi e teniamo “Shots“…
                  Continuando il nostro gioco, che me pensi di “Hot Shots“, per dare un pizzico di ironia e senza tradire il senso?
                  P.S. Com’è l’ultimo Moretti?

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                  • C’è un film del ’91 con Charlie Sheen che si chiama “Hot Shots!” ed è una parodia di vari film di successo dell’epoca, in particolare di Top Gun. Ma penso che come nome per la tua rubrica possa andare bene lo stesso, mi piace.
                    P.S. L’ultimo Nanni è bello e mi ha fatto venire un coccolone in gola, ma non è perfetto e preferisco ancora di gran lunga le meravigliose avventure di Michele Apicella.

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                    • Scherzi?
                      Stavo esattamente pensando alla commedia demenziale di Jim Abrhams (quando continuò la tradizione “ di famiglia” senza i fratellini Zucker) e mi sono venute una serie di idee in successione emotiva, legate dai vari gradi di separazione e dalle associazioni:

                      Hot Shots” (escludendo Hot Chicks che sarebbe privo di senso)
                      Top Gun” (l’originale di cui “Hot Shots” era parodia con “Rambo”, ma che è comunque nella realtà una selezione dei migliori piloti
                      Dragnet” (il caposaldo del procedurale e che comuqnue significa “retata”)

                      Volevo poi giocare con il concetto di Criminal Scene (CSI) / Scene / Scenes ma è tutto riduttivo e non mi viene fuori niente di valido.

                      Come vedi sto solo giocando e scusami se ti coinvolgo, am vorrei che fosse davvero solo un gioco anche per te, tra i tuoi impegni personali, familiari, lavorativi, didattici, sentimentali, blà, blà…

                      Ah, con “Hot Shots” sono salito a 9 caratteri compresi gli spazi, così, giusto per rompere gli zebedei… (quando mio figlio da piccolo faceva catechismo e d io ogni tanto l’accompagnavo in Chiesa, luogo che diserto, lo ammetto, da eoni, più per agnosticismo che per scelta, ero costretto ad ascolatare il prete fare il sermone ed ogni volta che arrivava alla parabola di Gesù e dei due zebedei io morivo dentro e mi mordevo il labbro inferiore per non ridere…).

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                    • Ahahahah!! Kasa mi fa davvero piacere che tu mi abbia coinvolto in questo gioco e cercherò di risponderti il più in fretta possibile tra i miei impegni di oggi proprio perché mi diverto!
                      Dragnet non è male, però adesso mi sono fissato con Hot Shots e anche Top Gun potrebbe essere una scelta molto simpatica! Mi spiace solo di non riuscire a tirare fuori neanche mezzo nome! Però quei due mi piacciono molto.

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                    • Okay, allora, procediamo con il gioco ed escludiamo Dragnet…
                      … Per ora restano..

                      Hot Shots
                      Top Gun

                      Anche secondo me uno dei due potrebbe già assicurarsi il premio, ma vediamo cosa salta fuori, magari mentre accendiamo la Tv, andiamo in bagno, sfogliamo un fumetto, baciamo qualcuno, leggiamo un libro (Libreria /Scaffale / Espositore / Vetrina … mah!) beviamo una birra, un caffè…

                      Un caffè…
                      Giocare sul concetto di Cafeteria?
                      Caffè / Cafeteria / Starbuck (caxxo! E’ un marchio, non si può) / Subway (la catena di paninoteche inglesI ma anche la metro)

                      Mah!

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                    • Kasashots!! Scritto attaccato, staccato, con trattino o senza, come ti pare. Così tipo le scene che proporrai saranno come dei cicchetti alcolici potentissimi di cui ci esporrai gli ingredienti che le compongono e il sapore che hanno! Che ne pensi?

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                    • Ok, è deciso, il dado è tratto, il pulsante del giudice del nostro mini talent-show premuto, la decisione presa.
                      Il vincitore, sopra tutti e tutto, è…

                      Kasa Shots

                      Onore al merito per te, Zack, per le motivazioni, l’abbinamento delle due parole, l’empatia e per tutti i collegamenti dal bar alla disco, dal locale hipster al circolo culturale, dal cinema anglosassone a quello europeo.
                      Gli “Shots” sono diventati “Kasa Shots” ed hanno sbancato su tutti.

                      A breve on-line…

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  6. Ma che bello, Lupo! Quanto onore!! Pensa che stavo io per chiamarti “sensei Lupo”…
    Come ho scritto nei commenti sopra, sia a Dave, sia a Zack, sia a Lapinsù, ero un po’ timoroso quando l’ho mandato on-line, perché davvero temevo di essere pedante e pensa che mi sono trattenuto un casino!
    Sentire queste belle parole da te mi inorgoglisce!!
    Io continuerò ad essere un pochettino fuori moda, anche con i post farò nel prossimo futuro, ma almeno sarò sincero con me stesso e con gli altri che mi seguono!
    Ti voglio bene, Lupo!

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    • Gentilissimo Francesco, ti ringrazio moltissimo per il complimento e per aver deciso di far visita al mio blog!
      Ovviamente non mi permetterei mai di sindacare sul tuo giudizio di gradimento o di merito sul film “Elephant“, anche perché effettivamente Gus Van Sant è un regista che ha sempre alternato film molto duri e sperimentali (tra cui, per ,l’appunto, questo qui dibattuto, tutto girato con attori non professionisti) ed altri di più ampio respiro e con una sintassi filmica più gradevole, come “Finding Forrester (Scoprendo Forrester)” con Sean Connery o il classico “Good Will Hunting (Will Hunting – Genio ribelle)” con Matt Damon o ancora sempre con lo stesso il bellissimo ed impegnato civilmente “Promised Land“.
      Ciò che a me piaceva di più, aldilà del giudizio finale sul film (in fin dei conti molto personale) era riflettere sul concetto di piano-sequenza, spesso usato in modo un po’ troppo fine a se stesso da alcuni registi fighetti ed in questo caso, invece, perfettamente calato nelle necessità della narrazione.
      Mi sono emozionato, comunque, quando dicevi “perle della rete”, grazie ancora!

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