Paul Giamatti: The Lord of “Supporting Actors” diventa protagonista

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Bisogna prestare molta attenzione per accorgersi di Paul Giamatti nella parte di Simeon, il direttore della sala di controllo televisiva di The Truman Show, film di cui tra l’altro non smetterei mai di parlare, vertice insuperato dal suo stesso regista Peter Weir in tutta la sua pur pregevolissima filmografia (non me ne vogliano gli estimatori del suo comunque splendido Dead Poets Society) ed anche uno dei film più emblematici del dopoguerra, riguardo al quale mi limito solo ad accendere i riflettori sul potentissimo script del geniale Andrew Niccol, autore del soggetto e della sceneggiatura anche di perle cinematografiche come Gattaca, S1m0ne ed il più pop e troppo facile In Time (quest’ultomo da lui stesso diretto).

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Praticamente schiacciato, non solo dalla enorme personalità dal divo di quell’iconico film, Jim Carrey, ma anche delle sue “spalle” recitative nella storia, come Ed Harris (nei panni di Christof, il creatore e dominus assoluto dell’aberrante show televisivo), Laura Linney (nei panni di Hannah, l’infermiera finta moglie di Truman) o Louis Coltrane (nel ruolo di Marlon, l’interprete nella fiction dell’amico del cuore sin dai tempi della fanciulezza), il nostro Paul, in quell’oramai lontanissimo 1988, si mosse sullo sfondo, con una perizia ed sicurezza che vi gli valsero però l’applauso di ogni addetto ai lavori ed Hollywood da quel giorno non smise mai di dargli lavoro: Giamatti è un attore grandioso e fondamentale per il cinema americano, per me simbolo vivente del buon mestiere, del duro lavoro, della dedizione sofferta ad una parte o ad un tema, la personificazione insomma del concetto stesso di attore non-divo e molto spesso attore non-protagonista

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Proprio quella bravura e quella capacità mimetica di entrare nel personaggio, con cui ha interpretato in modo straordinario un’enormità di ruoli minori, lo ha anche spesso reso quasi invisibile agli occhi del grande pubblico, come un bravissimo cameriere di sala, del quale i ricchi commensali avvertono la presenza, sempre pronto a servirli, ma di cui non ricordano le fattezze: dopo circa 25 anni di attività, oggi ha al suo attivo almeno 6 parti drammatiche in produzioni teatrali, una ventina abbondante di diversi ruoli in alttrettante produzioni televisive e più di 60 interpretazioni in film al cinema e tutto questo al netto del lavoro continuo come doppiatore in produzioni animate e documentaristiche.

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La stragrande maggioranza dei ruoli affidatigli furono stati per anni quasi solo secondari, interpretazioni di supporto ai veri divi del film, ma non per questo ugualmente importanti, come ne è testimonianza quello pregevolissimo regalatogli nel 2005 dal regista Ron Howard, nel suo dolciastro e dimenticabile Cinderella Man, pellicola sul pugile irlandese Jim Braddock, interpretato dal gladiatore Russell Crowe, che non poteva non essere l’idolo degli spettatori, il campione con soli lati positivi, senza macchia  e senza paura, versione pugilistica di un moderno “Prince Charming” disneyano: in questo film Giamatti è Joe Gould, il manager del boxer ed a mio avviso con la sua recitazione supera in bravura il super-divo Crowe, fornendoci un ritratto senza sbavature, assolutamente impeccabile, nel quale si avverte in modo palpabile tutta la sua passione, mentre si protende con il collo e la fronte solcati dagli spasmi, anelando la vittoria del suo protetto, creandola quasi e ponendola come un successo personale o una medaglia da appuntare sul petto di quell’America operaia devastata dalla depressione economica americana, sfondo narrativo e soprattutto coreografico su cui si muove l’intero film, perché si sa che Howard ci prova ogni volta a dipingere grandi affreschi storici, ma mentre Spielberg usa un pennello di setole di tasso e vernice ad olio grassa e brillante, l’ex- Richie Cunningham usa il pantone.

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Nel 2009, a quattro anni di distanza da quella parte che gli valse una sentita nomination agli Oscar, Paul Giamatti fu nuovamente celebrato come grandissimo attore non-protagonista, con il suo Vladimir Čertkov, amico e manipolatore della figura popolare e carismatica dello scrittore Lev Tolstoj, in quella sorta di Doctor Zhivago in miniatura (non è un complimento, sia chiaro!) che fu lo stucchevole e fintamente sentito The Last Station del mestierante Michael Hoffman, film che, si sarà capito, non mi è piaciuto, perché troppo ruffiano per poter essere sorretto solo dal nostro attore e dal buono per ogni stagione McAvoy.

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Da vero stakanovista del grande e piccolo schermo, il nostro poliedrico attore non ha fatto passare nemmenno un anno senza aver partecipato ad almeno un paio di progetti tra cinema e tv ed in alcuni casi persino a più di quattro, come avvenne per l’appunto nel 2011, quando fu occupato con ben cinque partecipazioni ad altrettante importanti produzioni, tutte parimenti di grande rilievo, anche se solo una di queste fu da attore protagonista.

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Il primo dei quattro ruoli come supporting actor fu davvero una piccola parte, ma ugualmente il suo Tom Duffy, faccendiere arrivista e responsabile della campagna elettorale per cui fu chiamato sul set da George Clooney (già celeberrimo divo hollywoodiano, divenuto da anni anche raffinato regista) è davvero una piccolo prodigio di recitazione, una perla nascosta che contribuisce a colorare di luce grigia il già ottimo dramma politico The Ides of March, realizzato con un’ambientazione molto in stile House of cards (fiction che, non a caso, in quanto a mood e dialoghi deve molto al film di Clooney, come ben sa lo sceneggiatiore Beau Willimon, presente in entrambi i cast artistici).

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Come secondo di quell’anno, ricordiamo il suo piccolo ma essenziale personaggio di Kinglsey (dire chi sia davvero costui nella storia del film sarebbe un terribile spoiler per chi non ha visto questa modestissima commedia caciarona), in The Hangover Part II, sequel del primo film campione d’incassi, pellicola alla quale Giamatti riesce a dare un po’ di spessore e che altrimenti sarebbe rimasta solo un banale copia & incolla del precedente capitolo, con pochissime variazioni.

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Come terzo ruolo di supporto, dobbiamo ugualmente citare, anche se un po’ malvolentieri, quello del Re Giovanni Senzaterra in Ironclad, film malamente scritto e peggio diretto da Jonathan English, in cui il nostro Paul aveva cercato di calarsi, dando però vita ad un personaggio spento, sempre nevroticamente in movimento ma senza reale vigore, come se il nostro attore non avesse creduto davvero nella sua parte, per un copione già stupido ed ulteriormente abbassato da modaiole sequenze splatter.

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Ci tengo molto a citare, come ultimo ruolo di questo poker di interpretazioni come attore non protagonista del 2011, quella assai difficile del controverso Ben Bernanke presidente della Federal Reserve statunitense, per la quale fu chiamato dalla prestigiosa HBO nell’importante produzione Too Big to Fail di Curtis Hanson, dove Giamatti si calò nella parte di chi vuole salvare l’economia americana attraverso gli strumenti tradizionali dell’economia liberista “illuminata” in modo talmente convincente da suscitare gli applausi unanimi di pubblico e critica: è essenziale notare come l’idea e l’imoianto scenico di questo film per la tv sia stato creato partendo da un saggio giornalistico (anche se di taglio romanzesco) scritto dall’allora editorialista finanziario Andrew Ross Sorkin ed astro nascente del mondo dell’intrattenimento adulto e che anni dopo diverrà il co-creatore della serie televisiva Billions, in  cui il nostro divo otterrà uno dei più bei ruoli in assoluto come protagonista, della sua giù prestigiosa carriera.

Cosmopolis

L’anno successivo, nel 2012, quasi fosse chiamato ad esemplificare la capacità di un vero attore a mascherarsi anche nei suoi opposti, il nostro poliedrico attore si cimentò in un ruolo eticamente e filosoficamente agli antipodi di quello appena finito di mettere in scena per la prestigiosa tv via cavo: per il suo film Cosmopolis David Cronemberg lo scrittura per interpretare il personaggio dello psicopatico complottista anti-Wall Street Benno Levin, in una lunghissima e difficile sequenza, in cui cerca di dare senso e credibilità ai deliri del suo personaggio e facendo vacillare non poco le convinzioni degli spettatori.

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Tra le svariate partecipazioni a diversi serial televisivi, sarebbe davvero bizzarro da parte mia non citare qui per lo meno quella del Dicembre 2013, relativa al personaggio di Harold Levinson in Downton Abbey, fiction britannica di cui sono grandissimo estimatore, come testimonia anche il post che le dedicai a suo tempo: malgrado si tratti di una sola puntata (per la precisione lo special natalizio dal titolo The London Season, posto a conclusione della quarta stagione), l’interpretazione che Giamatti diede del personaggio del fratello più giovane di Cora Cora Crawley, contessa di Grantham, è semplicemente memorabile.

In quello stesso anno, oltre alla citata partecipazione televisiva alla prestigiosa fiction, il nostro si cimentò in almeno altri cinque importanti ruoli cinematografici, sempre minori, ma di cui è doveroso da parte mia darvi conto di almeno di quattro di essi, sia per l’importanza delle pellicole, sia soprattutto per quella dei personaggi.

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Il primo character è il cinico e spietato commerciante di schiavi Theophilus Freeman, nel potentemente tradizionale, documentaristicamente cattivo, sadico ed anche un po’ paraculo 12 Years a Slave di Steve McQueen.

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Il secondo, quello del coraggioso Frate Lorenzo in Romeo and Juliet del 2013, adattamento cinematografico assolutamente impeccabile, ma senza appeal, ad opera del bravissimo scenggiatore Julian Fellowes (il creatore della fiction da primato Downton Abbey) e diretto con tecnica superba, ma priva di passione, da Carlo “La corsa dell’innocente” Carlei.

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Come terzo personaggio, quello gradevolmente disneyano, dell’autista Ralph, che scarrozza in giro per L.A. la scrittrice Pamela Lyndon Travers e unico americano da cui ella sia davvero rimasta affascinata, Disney compreso, nell’ottimo Saving Mr. Banks di John Lee Hancock.

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Infine, a completare questo quartetto di pellicole interpretate del 2013, troviamo forse il ruolo più potente ed espressivo, una prova drammatica di grande talento (decisamente sprecato) con la figura del malinconico sarto di origine ebraiche Abraham Zapruder che il 22 Novembre del 1963, a Dallas, riprese con la sua cinepresa l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, in Parkland, sceneggiato e diretto da Peter Landesman: un film davvero inutile, senza alcuna pretesa d’inchiesta, ma fermo solo a registrare in modo leccato notizie risapute e stantie, senza la sfacciataggine usata da Pablo Larraín nel 2016 per ritrarre con disincanto il revanscismo snobistico e depressivo della figura della vedova Kennedy nel suo Jackie con una sublme Natalie Portman e nemmeno un revival dell’impegno civile del miglior Oliver Stone, che nel 1991 con il suo JFK aveva già detto tutto.

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Potrei continuare per molto tempo e tanto spazio web ancora, elencando le innumerevoli parti, anche minime, interpretate da Paul Giamatti come supporting actor, ma preferisco concludere questa lunga carrellata con quello che fra tutti i ruoli di spalla più mi è rimasto nel cuore, sia per gli straordinari meriti recitativi ma ancor di più per l’eccezionaltà del progetto filmico: Bob Zmuda, l’uomo che fu realmente una spalla comica per tutta la vita, che condivise la goliardia delle prime controverse rivoluzionarie uscite sul palcoscenico del divo comico Andy Kaufman, al quale nel 1999 Miloš Forman dedicò il suo Man on the Moon, scritto dalla premiata coppia Scott Alexander e Larry Karaszewski.

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Questo film è una vera consacrazione del geniale Kaufman, un artista incommensurabile, forse il più grande stand-up comedian mai esistito, la cui irriverenza e creatività ha travalicato i confini stessi del palcoscenico e della fruibilità del pubblico e tutto di quest’opera filmica, davvero tutto, ha l’odore ed il sapore del gesto d’amore incondizionato: quella di Forman è infatti un’ode verso una volontà bruciante e feroce, ma anche un tentativo di spiegare filmicamente al grande pubblico il segreto di un uomo che aveva il dono di vedere i mostri in mezzo alla nostra società, riuscendo al contempo a costruirsi una carriera televisiva di successo travolgente.

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Con un parallelismo inquietante, anche in quest’opera cinematografica il divo mattatore è l’attore Jim Carrey, mentre il nostro Paul interpreta l’amico che fino all’ultimo vide sempre l’amico ed il compagno di lavoro, dietro l’imponente creatura teatrale, durante la crescente popolarità, con il suo bagaglio di gioia e di dolore, fino al dramma della malattia di quell’uomo sulla luna (il Man on The Moon a cui i R.E.M pensarono quando scrissero la canzone omonima, proprio dedicata alla figura di Kaufman), ossia di quell’unicità quasi aliena di uno showman che non cedette mai ad alcun compromesso, nemmeno in punto di morte.

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Il fato non avrebbe potuto scegliere per il nostro Giamatti un ruolo migliore di questo, un uomo buono ed un visionario, un compagno di viaggio ed un cantore ebbro dell’assurdità della vita e questo, parola per parola, sospiro per sospiro, lo si può percepire nella visione di questo spettacolo cinematografico, la cui cura del dettaglio rasenta la maniacalità, tanto è stato l’amore di tutta la troupe, attori minori compresi, nel catturare quelle emozioni che passarono negli occhi di chi a suo tempo assistette in diretta televisiva o in studio all’ascesa (impossibile e proibita sulla carta) di un genio dell’ironia e del codice doppio quale fu Andy Kaufman.

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In questa mia lunga digressione, ho fino ad ora parlato appositamente solo di film in cui il nostro Paul Giamatti ha recitato come attore non-protagonista, veste in cui si è distinto in modo clamoroso, condivendendo il podio di più grande tra i tanti supporting actor statunitensi con altri splendidi artisti, sempre generosi e quasi invisibili seppur bravissimi (una parte dei quali ha già avuto spazio su questo blog, in post a loro dedicati ed altri ancora di cui parlerò certamente in futuro), ma a differenza di questa eccezionale moltitudine (alla quale ho voluto persino dedicare due personalissime classifiche, a breve online), che malgrado gli sforzi encomiabili ha sempre stentato ad ottenere il posto in prima fila sul palcoscenico delle grandi produzioni cinematografiche e televisive, quando a Giamatti diedero dei ruoli come leading role (solo una piccola manciata, in tanti anni di carriera), la sua stella ha ogni volta brillato di una luce talmente potente da non lasciarsi mai più dimenticare, finché oggi, dopo svariati importanti tentativi, il suo nome non è più assolutamente annoverabile come semplice supporting actor ma come divo cinematografico a tutto tondo, per il quale una parte come non-protagonista sarà da ora in poi solo una scelta professionale e non più una limitazione artistica, come è per le più grandi attrici e gli attori più richiesti nei casting.

American Splendor

Guardando rapidamente ai passi fondamentali di questa evoluzione, non potevo non partire dallo strano American Splendor del 2003, che da ex-libraio di fumetti, ho guardato a suo tempo con uno speciale stato d’animo, essendo nella sua stessa genesi dedicato a ricordare e mostrare la bizzarra figura di uno degli scrittori di  fumetti più importanti ed influenti della scena underground statunitense, Harvey Pecar, creatore della strip fumettistica da cui lo stesso film prende il nome e nella quale il suo autore racconta della sua esistenza di uomo cinico, lamentone e disilluso intellettualmente.

American-Splendor

Nelle intenzioni iniziali degli autori, questa pellicola avrebbe dovuto essere una sorta di docu-film sul fumettista, un personaggio davvero singolare, che non ha mai smesso di fare l’archivista a Cleveland, malgrado il successo dei suoi fumetti e le innumerevoli collaborazioni con disegnatori d’eccellenza che prestavano le loro matite ai suoi scritti, ma durante la scrittura della sceneggiatura e le riprese stesse è diventato una biografia filmata di respiro molto più ampio, specie con l’aiuto di Giamatti e della sua magistrale interpretazione, dove mette in scena tutta l’amarezza possibile ed il disagio che un attore sia in grado di esprimere con la pienezza dei suoi timbri recitativi e che resterà quasi irripetuta nella carriera del nostro.

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Nella pellicola di taglio decisamente indie Win Win, Paul Giamatti è un vero mattatore nel ritrarre il moralmente ambiguo character dell’avvocato borghese ed irlandese Mike Flaherty, che si ritrova a d usare il wrestling come mezzo di revanscismo sociale ed ecomonico: è questo un film certamente non perfetto, ma anche assolutamente straordinario, come quasi tutto quello che fa Tom McCarthy, ancora una volta regista e scrittore di un’opera che mette in scena i suoi abituali ed incredibili eroi di mezz’età, molto normali e poco appariscenti, ma sempre colti nel momento del loro massimo smarrimento.

E’ ad Alexander Payne, raffinato sceneggiatore e regista attentissimo a dare il giusto spazio espressivo a tutti i suoi attori, che si deve tuttavia il primo grande ruolo da protagonista del nostro Paul in una vera pellicola di successo, come avvenne appunto nel 2004, con  Sideways.

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Ricordiamo che Payne è un importante cineasta, capace di creare ogni volta delle alchimie gradevolissime e speciali, costantemente in bilico sull’impalpabile bordo del minimalismo caratteriale e nel netto rifiuto della facile e tronfia epica della classica  commedia drammatica hollywoodiana, ma sempre con quel pizzico di immancabile empatia verso lo spettatore comune che lo rendono ogni volta un ottimo comunicatore, anche se per lo più sottostimato e difficile da delineare criticamente, dato il suo essere di fatto a metà tra le valenze artistiche più sincere, di un cinema necessariamente elitario e la più facile emotività di un’intrattenimento più mainstream e diretto al grande pubblico, come testimonia il suo comunque prestigioso portfolio di pellicole di indubbio valore, da About Schmidt (film che fu ingiustamente presentato e distribuito come un ricalco della commedia di successo As Good as It Gets di James L. Brooks del 1997, ma dalla quale invece si distacca per una messa in scena molto più intimista ed una recitazione di Nicholson tutta giocata sul levare), passando per l’impeccabile The Descendants del 2011 (con il quale ha portato a casa un oscar, grazie anche alla collaborazione nello script del geniale Jim Rash, nonché ad un cast straordinario, con un ottimo George Clooney ed una Shailene Woodley ancora emergente ma qui in stato di grazia), fino allo stupendo Nebraska del 2013 (a mio modesto giudizio il suo capolavoro indiscusso) e molto prima dell’interessante ma non riuscito Downsizing del 2017.

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Anche se con una sintassi ovviamente datata per i gusti odierni, Sideways è comunque una pellicola eccellente, costantemente altalenante tra umorismo e malinconia, dove l’interpretazione dolce e amara di Giamatti suscita decisa simpatia per il suo personaggio di Miles Raymond, professore d’inglese ed appassionato di vini, a cui tutto il pubblico non può non dare il suo appoggio (con quel senso di vicinanza che Payne stimola sempre nello spettatore) per la sua visione di vita e la sua filosofia, finendo per tifare sfacciatamente anche per il suo successo sentimentale con l’amata Maya (interpretata da Virginia Madsen): forse la scena più intensa del film è un topos tipico delle commedie sentimentali vagamente di quegli anni, con dialoghi dal taglio molto teatrale (come tali un po’ sopra le righe e meno realistici di quelli odierni, che però sono di contro troppo spesso più telefonati e da sit-com), con il professore e Maya che recitano odi sperticate di passione per il vino, confessando ad esso amore eterno, mentre con gli sguardi si dicono che l’oggetto del loro corteggiamento è ben altro.

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Concendendomi una motivata licenza cronologica, voglio parlarvi ora della brillantisssma interpretazione di Giamatti come mattatore incontrastato nel pur modaiolo e glamour cast della fiction televisiva Billions, dove il nostro interpreta con efficacia indiscutibile e straripante talento il personaggio di Charles Rhoades, Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto Sud dello stato di New York, character figlio di moltissimi padri cinematigrafici e televisivi, dalla simile struttura caratteriale ma che qui si presenta grazie al nostro divo come la versione definitiva ed aggiornata: ultimo gradino evolutivo di un modo di sceneggiare certi eroi ed anti-eroi a cui siamo stati istruiti dai drammi psicologici di film crime o comedy di taglio finanziario degli ultimi due decenni, in cui però la tipica ambivalenza morale e le tante sfaccettature di relativismo etico, che tali raffigurazioni hanno sempre, vengono qui portate sulla scena da una credibilità interpretativa che ti fa innamorare del personaggio ed anche perdonare l’ovvia dinamica ripetitiva degli accadimenti, con quella struttura a duello tra i due protagonisti, che presenta colpi e ribattute sul finire di ogni puntata.

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Sin da quando ho iniziato a scrivere questo post, sapevo benissimo che la più degna conclusione, di questa lunga digressione sul nostro attore, sarebbe stata, per la sua altissima qualità intrinseca e per l’essere stato ad oggi il suo migliore ruolo da vero protagonista assoluto ed incontrastato del nostro Paul, la sua magniloquente interpretazione magniloquente avuta in Barney’s Version (che gli valse anche nel 2011 la vittoria di un Golden Globe come miglior attore), film diretto dal regista di ascendenza televisiva Richard J. Lewis e scritto dallo sceneggiatore canadese Michael Konyves, adattando con pesanti trasformazioni l’omonimo romanzo del suo più celebre conterraneo Mordecai Richler.

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Pur avendo letto ed apprezzato moltissimo il romanzo da cui quest’opera filmica è tratta, posso assicurarvi che parliamo davvero di due opere assai diverse, soprattutto per l’approccio alla storia biografica di base: la morte di un uomo avvenuta in circostanze misteriose in qualche modo inizia e conclude la vicenda del plot, ma mentre nel romanzo l’andamento narrativo è quello dell’autobiografia (solo immaginaria, perché il romanziere finge solo di essere stato protagonista di tali vicende), nel film tutta  la storia viene narrata in terza persona e senza la consapevolezza del suo finale: come nel canovaccio di appunti di un terapeuta, che con pazienza e volontà di conoscenza raccoglie la testimonianza di un suo paziente afflitto da depressione distruttiva,  gli accadimenti sono presentati non in modo lineare, ma destrutturati in capitoli, attraversati da flashback e salti temporali.

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Lo script che viene affidato alle cure del nostro Paul è davvero audace, sia perché percorre un amplissimo arco temporale, con tutte le trasformazioni fisiche e comportamentali del protagonista a cui l’attore deve adeguarsi, sia perché agli ovvi riflessi nella modulazione recitativa dati dal tempo fisico trascorso, viene aggiunto (come da copione) l’elemento della malattia neurologica degenerativa.

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All’inizio del romanzo e della storia narrata anche nel film, Barney Panofsky viene accusato di aver assassinato un suo amico e per tutta la vita quest’ombra di sospetto aleggerà su di lui, così egli, dichiarandosi sempre innocente, cercherà di raccontare agli altri la sua verità, la sua versione dei fatti appunto, ma facendo questo racconterà a tutti molto altro, parlando della sua giovinezza, dei suoi amori, delle sue debolezze, delle sue sofferenze.

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E’ qui che il film, praticamente da subito, diventa un’altra opera, scuotendosi per l’appunto dai limiti della biografia storica e divenendo un viaggio nella mente e nei ricordi di quest’uomo dal mestiere interessante (è un produttore televisivo di successo, ma pieno di problemi), ma con un taglio più giornalistico, perché nello specifico filmico il narratore non conosce la verità ma la ricerca insieme allo spettatore, scoprendo con noi un pezzo alla volta i contorni degli accadimenti, incontrando personaggi nuovi e portando alla luce segreti inconfessabili.

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L’operazione risulta simile a quella operata a suo tempo da Paul Schrader, quando destrutturò l’autobiografia scritta dal pugile Jake LaMotta, trasformandola nella sceneggiatura di Raging Bull, il film di Martin Scorsese: anche in quel caso, la vicenda narrata in prima persona viene trasformata, mettendo in dubbio tutte le verità che un’autobiografia necessariamente contiene, perché scritta da chi ha vissuto la storia, ma trasformando la narrazione nell’osservazione quasi documentaristica della lenta autodistruzione di un uomo.

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Paul Giamatti in questo splendido film riesce sempre a restare il vero mattatore della scena, anche quando si trova faccia a faccia con un mostro sacro del cinema americano, Dustin Hoffman (su cui vale la pena di fermarsi un istante per rendere omaggio ad un interprete leggendario, che ha saputo resistere alla tentazione di diventare una sorta di vecchio patriarca, borioso e gigione, come purtroppo altri suoi coetanei, pur grandissimi, hanno fatto).

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Senza raccontravi la complicata sinossi del film (perché davvero è incredibile come qualcuno possa pensare di consigliare un film ad un altro togliendogli nello stesso tempo il piacere della scoperta), voglio invece aggiungere un ulteriore elemento di apprezzamento per la bellissima sceneggiatura di questa pellicola, parlandovi di come la malattia di Alzheimer (presentatci subito nelle primissime scene), invece di aggiungere una nota patetica di struggimento appiccicoso, diviene elemento di suspence, rendendo la verità ogni giorno più labile e sfuggente, sbiadendo e rischiando di scomparire assieme ai ricordi del protagonista ed anche la rivelazione ed il segreto finale  vengono narrati in modo quasi impalpabile, come se allo spettatore foose chiesto di chinarsi ed accostare l’orecchio per cogliere un sussurro appena percettibile ed è meravigliosa la sensazione di essere in qualche modo diventati parte del meccanismo narrativo.

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Se già non lo fate per tutto il resto della sua imponente e ricchissima carriera, di certo amerete Giamatti dopo questo film.

Buon visione a tutti e grazie della pazienza.


In questo post abbiamo parlato di:

The Truman Show“, USA, 1998
Regia: Peter Weir
Soggetto e Sceneggiatura: Andrew Niccol

Man on the Moon“, USA, 1999
Regia: Miloš Forman
Soggetto e Sceneggiatura: Scott Alexander e Larry Karaszewski

American Splendor“, USA, 2003
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Shari Springer Berman e Robert Pulcini
liberamente ispirati alle strip fumettistice autobiografiche
American Splendor e Our Cancer Year
di Harvey Pekar e Joyce Brabner

Cinderella Man“, USA, 2005
Regia: Ron Howard
Soggetto e Sceneggiatura: Cliff Hollingsworth e Akiva Goldsman

The Last Station“, DEU, GBR, RUS, 2009
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Michael Hoffman
dall’omonimo romanzo di Jay Parini

The Ides of March“, USA, 2011
Regia: George Clooney
Soggetto e Sceneggiatura: George Clooney, Beau Willimon e Grant Heslov

The Hangover Part II“, USA, 2011
Regia: Todd Phillips
Soggetto e Sceneggiatura: Scot Armstrong, Craig Mazin e Todd Phillips
dai personaggi creati da Jon Lucas e Scott Moore

Ironclad“, GBR, DEU, USA, 2011
Regia: Jonathan English
Soggetto e Sceneggiatura: Jonathan English, Erick Kastel e Stephen McDool

Too Big to Fail“, USA, 2011
Regia: Curtis Hanson
Soggetto e Sceneggiatura: Peter Gould
dal saggio romanzesco omonimo di Andrew Ross Sorkin

Cosmopolis“, USA, 2012
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: David Cronenberg
dall’omonimo romanzo di Don DeLillo

12 Years a Slave“, USA, GBR, 2013
Regia: Steve McQueen
Soggetto e Sceneggiatura: John Ridley
dall’omonimo romanzo di Solomon Northup

Romeo & Juliet“, USA, GBR, ITA, 2013
Regia: Carlo Carlei
Soggetto e Sceneggiatura: Julian Fellowes
dall’omonima tragedia teatrale di William Shakespeare

Saving Mr. Banks“, AUS, GBR, USA, 2013
Regia: John Lee Hancock
Soggetto e Sceneggiatura: Kelly Marcel e Sue Smith

Parkland“, USA, 2013
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Peter Landesman
dal saggio Four Days in November: The Assassination of President J. F. K.
scritto da Vincent Bugliosi

Sideways“, USA, 2004
Regia: Alexander Payne
Soggetto e Sceneggiatura: Alexander Payne e Jim Taylor
dal romanzo omonimo di Rex Pickett

Barney’s Version“, USA, 2010
Regia: Richard J. Lewis
Soggetto e Sceneggiatura: Michael Konyves
dal romanzo omonimo di Mordecai Richler

Win Win“, USA, 2011
Regia, Soggetto e Sceneggiatura:Tom McCarthy

Billions (TV series)“, USA, 2016 – in corso
Creata da Brian Koppelman, David Levien e Andrew Ross Sorkin
Regia: Neil Burger, Noah Emmerich, Neil LaBute ed altri
Sceneggiature episodi: Brian Koppelman, David Levien ed altri


A questo link, potete trovare la sotto-pagina del blog dedicata a Paul Giamatti

Paul-Giamatti-inside


 

22 pensieri su “Paul Giamatti: The Lord of “Supporting Actors” diventa protagonista

  1. Grande articolo, come sempre esaustivo, interessante e completo. Un tema, quello dei Supporting actors, molto rilevante nel mondo del cinema che vede di sicuro Giamatti tra i suoi massimi esponenti, ma che, secondo me, trova il suo “lord” in Micheal Caine. Maggiordomo nella trilogia del Batman di Nolan, assistente degli illusionisti in The prestige… ma anche quel personaggio pieno di sfaccettature, in grado di comunicare con un semplice sguardo nel folle “Sleuth”… e potrei continuare per ore!
    Ma torno al grande Giamatti: un attore straordinario, presente in diversi film di altissimo livello come The truman show da te citato (qui ha una parte estremamente secondaria, ma il film è magico… ricordi il “cinema test” di wwayne e lapinsu? Scrissi come film preferito “l’attimo fuggente”, ma avevo davvero troppe pellicole in mente tra le quali avrei potuto scegliere come “Qualcuno volò sul nido del cuculo’, “Inception”, ma anche “The truman show”. Continuo a non essere sicuro della mia scelta nel quiz….). Delle ultime due pellicole da te nominate ho visto solo “Man of the moon”. Un film pazzesco, che mi ha conquistato, scena dopo scena, soprattutto grazie al suo protagonista, interpretato da un sontuoso Jim Carrey, ma anche grazie ai personaggi secondari che gli ruotano intorno, esaltandolo, supportandolo. E Giamatti, ovviamente, ha un ruolo fondamentale in tutto questo.
    Grande Kasa!

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  2. Ciao Dave, sempre sul pezzo e sempre con grande acume!
    Vedi, quando ho un po’ scherzosamente definito Giamatti “The Lord of Supporting Actors” ho voluto rendere omaggio ad una carriera in cui su circa 60 film l’enorme maggioranza sono proprio ruoli secondari o minori da copione, mentre nel caso di Caine, attore meraviglioso, il suo prestigioso curriculum lo vede solo invecchiando aumentare il numero dei ruoli di supporto: fin tanto che la giovane età glielo permetteva, infatti, il suo nome era tra i primi due nel cartellone pubblicitario, ossia quasi sempre protagonista, quindi con lui sarebbe una gara scorretta!
    Anche De Niro, attore immenso, ultimamente fa molte parti secondarie (tu ne hai citata una splendida in “Limtless“), ma a differenza di Giamatti, D’Onofrio, Helizondo e tanti altri, De Niro resta sempre un attore famoso per i suoi leading role.
    Quando facesti il famoso quiz, ho amato che tu avessi inserito in classifica il capolavoro di Forman con Nicholson e così come ho molto piacere anche adesso che tu abbia apprezzato “Man on the Moon” perché invece in molti, magari ingenuamente attirati da trailer sbagliati o dalla stessa figura di Carrey (che si è dimostrato oramai essere un attore completo a tutto tondo), sono rimasti delusi pensando di andare a vedere un film dalla comicità semplicistica o da carnasciale ed invece si sono rovinati la visione di un capolavoro!
    Ancora una volta stupisci per la tua sensibilità.
    Vorrei averti conosciuto prima!

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    • Grazie Kasa! Beh direi che, almeno, entrambi abbiamo imparato a conoscere abbastanza bene i gusti cinematografici dell’altro, tutto sommato piuttosto simili.
      In effetti Caine è un attore che ha interpretato un numero spropositato di ruoli sia principali che secondari.. sarebbe stato ingiusto confrontarlo con Giamatti (non sto parlando di un confronto tra talenti, ma tra due carriere diverse, vista anche la differenza di età tra i due). Non si discute su “Man of the moon”, un capolavoro…. chissà magari un giorno una recensione potrebbe scapparci….

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  3. “(Ron) Howard ci prova sempre a dipingere affreschi storici, ma mentre Spielberg usa un pennello di setole di tasso e vernice ad olio grassa e brillante, l’ex- Richie Cunningham usa il pantone.”
    STANDING OVATION da 90 minuti per KASABAKE.

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    • Hahaha!
      Ovviamente quella era solo la punta dell’iceberg, una piccola frecciatina che mi ha molto gasato e divertito e per la quale dovevo subito farti i dovuti complimenti e ringraziamenti.
      La monografia nel complesso, come sempre, si merita anch’essa tanti applausi per le tante cose giuste e interessanti che dice. E Paul Giamatti è uno di quegli attori che merita sempre più attenzione di quanta gliene viene data.
      Tra i film che hai citato, quello che più mi sta a cuore è Man on the Moon, uno dei miei film preferiti di sempre, che mi ha insegnato tanto sulla vita e ha condizionato molto la mia personalità e in particolare il mio approccio al mondo dello spettacolo. Non voglio sembrare melodrammatico né tantomeno esagerato, ma per me i film, nel loro piccolo, servono anche a questo.
      In ogni caso, potrei aver detto le stesse cose anche per The Truman Show e sarebbe stato sempre tutto vero. Ma preferisco di più l’altro, perché il film di Peter Weir rimane un film dalla classica struttura hollywoodiana, trionfalista e in fin dei conti buonista, mentre Man on the Moon ha invece quell’aria di dannazione e quell’atteggiamento realmente provocatorio e rivoluzionario di chi è consapevole di combattere una guerra che non può mai vincere, che danno quasi la sensazione che il film faccia di tutto per NON piacere allo spettatore. Più che piacere vuole dare fastidio e farti capire che la tua vita, il tuo modo di vivere è basato tutto su convenzioni, su abitudini e sul senso comune che ti fanno dare il mondo intero per scontato.

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  4. Spesso, quando leggo i tuoi post sono afflitto dallo sconforto.
    Eh si, perchè vorrei tanto aggiungere qualcosa che tu non abbia già detto ma francamente mi riesce impossibile perchè, sempre, i tuoi post sono enciclopedici (nell’accezione etimologica del termine: ciclo + paideia).
    Comunque, spinto dal tuo post, sono andato a scorrere la filmografia di Giamatti, scoprendo quanto tu abbia – ancora una volta – ragione nel delineare i tratti salienti dell'”attore di supporto” (perifrasi questa da preferire ad “attore non protagonista”), perchè tanti sono i film in cui lui ha partecipato ma che – nonostante la mia memoria tendenzialmente elefantiaca quando si tratta di film e cast – faccio fatica a ricorda:
    Donnie Brasco, regia di Mike Newell (1997)
    Il matrimonio del mio migliore amico (My Best Friend’s Wedding), regia di P.J. Hogan (1997)
    Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan), regia di Steven Spielberg (1998)
    Il negoziatore (The Negotiator), regia di F. Gary Gray (1998)
    Confidence – La truffa perfetta (Confidence), regia di James Foley (2003)
    The Illusionist – L’illusionista (The Illusionist), regia di Neil Burger (2006)

    Che tra l’altro son tutti filmoni che ricordo benissimo ma di lui proprio non ho memoria.

    Strana la vita: esser dotati di un così raro talento ma esser costretti, proprio per la natura stessa del proprio talento, a restare nell’ombra ignoti e sconosciuti.
    Sembra quasi la biografia di un supereroe che non può esporsi e far sapere che se le cose vanno bene è soprattutto per merito suo!!!

    Chiudo qui, sennò divento – come al solito – melenso e banale!!
    Salut!!!!!

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  5. Tu sai di essere il mio mentore dentro Word Press, vero?
    Non era casuale il mio non-scherzoso “Kasabake Thanx”, perché, davvero, se bloggo è per merito tuo, quindi, come puoi immaginare, mi avvicino ai tuoi commenti sempre con un timore reverenziale, anche un po’ stupido (Holmes mi sputerebbe per il peccato di modestia, ma io certo Holmes non sono e quindi un po’ di insicurezza ci può stare…) e pensa con quale piacere poi leggo, come adesso, quasi sempre complimenti da parte tua… il che non vuol dire, attenzione, essere d’accordo su tutto, perché quello sarebbe “paraculaggine”, ma vuol dire rispetto per un opinione (chi si cura di ciò che dice un asino?) detta da una persona che si rispetta a sua volta e tu lo fai sempre con me.
    Perciò grazie moltissimo.
    Detto questo, passo a commentare la tua nota: siamo perfettamente in sintonia!
    Quando a suo tempo misi Giamatti nel mio pantheon personale fu proprio per quella micidiale combinazione di essere uno dei più portentosi attori di supporto, ma anche, quando finalmente qualcuno gli ha dato l’occasione di uscire dall’ombra, un grande protagonista… insomma, come hai detto anche tu, il nostro Paul di filmoni ne ha fatti tantissimi come non-protagonista ed era impossibile se non sbagliato parlare di tutto.
    In conclusione due cose: primo, sei spesso elegiaco nei commenti, quanto ironico nei post e questa ricchezza di timbri la adoro; secondo, la frase finale che chiude il tuo commento “esser dotati di un così raro talento ma esser costretti, proprio per la natura stessa del proprio talento, a restare nell’ombra ignoti e sconosciuti […] un supereroe che non può esporsi e far sapere che se le cose vanno bene è soprattutto per merito suo” è praticamente il significante di ciò che il commissario Gordon dice con voce fuori campo nel finale di “The Dark Knight”.
    Potrai essere più cool?
    (no, non lo fare… non fare ironia sul “cool”… ti ho visto, togli le mani dalla tastiera… da bravo, Lapi, su…ok)

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    • Ho divelto i tasti C, U, L e O dalla tastiera per evitare il commento ridanciano che la tua chiusa serviva su un piatto d’argento.
      Quindi sappi che mi devi una tastiera nuova 😀

      Sai, stavo facendo mente locale e, rovistando tra il mio palazzo della memoria, ho cercato di trovare altri attori ascrivibili alla stessa categoria di Giamatti: portentosi ma sempre sullo sfondo.
      – Morgan Freeman
      – Ben Kingsley
      – Ciarán Hinds (attore che ho iniziato ad apprezzare in Rome)
      – James Gandolfini
      – Forest Whitaker

      Questi sono i primi che mi vengono in mente, ma la lista potrebbe allungarsi e di molto.
      Quasi quasi comincio a buttar giù qualche appunto per una “Top 20 supporting actors”….

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  6. Ho dato senso all’acronimo ROFL quando ho letto l’incipit del tuo commento, rotolandomi letteralmente dalle risate!!

    Una Top 20 Supporting Actors… sarebbe davvero una bella idea… molto Lapinsu… e poi perché fermarsi agli uomini? Già che ci sei, con un sottotitolo vincente così (“portentosi ma sullo sfondo”) ci si spara anche una bella Top 20 Supporting Actress…
    Si, perché la finezza sta proprio nel trovare attori e attrici che corrispondano a quel dettame da te sopra sintetizzato: insomma, coloro che hanno fatto ruoli minori semplicemente all’inizio della loro carriera, per poi con il tempo trovare il successo e vedersi poi affidare parti da protagonista, non possono rientrare in questa categoria o quanto meno non in modo veritiero…
    Non è semplice, perché le caratteristiche, che io ho identificato nei nomi citati da me nel post (D’Onofrio, Helizondo) ed in quelli elencati da te, prevedono proprio la loro natura di “spalle” o di “caratteristi”, magari anche legati all’etnia, come John Leguizamo sempre presente quando serve un colombiano o John Rhys-Davies, per anni l’egiziano di riferimento nei film action da “I Predatori dell’Arca Perduta” in poi… ma questi due, pur avendo le caratteristiche che dicevo, per esempio , non li inserirei in una Top 20, perchè sono davvero solo dei caratteristi e non degli attori Top…
    Insomma ho sonno, straparlo, vado a letto e come sempre ti ringrazio per le belle idee…
    ‘Notte, ‘Notte

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  7. L ho adorato in lady in the water di shyamalan, il film non e’ il massimo, ma la parte di paul e’ memorabile…. E ti diro’ nonostante condivida molto del tuo (ottimo) post, a me in ironclad paul non e’ dispiaciuto…. Diciamo che dovunque lo veda mi piace sempre!!! Ottima scelta, giustissimo dare visibilità ad un attore troppo spesso passato in sordina.
    Ciao kasa un salutone.

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    • Grandissimo Lupo, sono contentissimo che anche tu consideri Giamatti un attore di grande spessore, così come sono contento che ti sia piaciuto il mio post, che ti assicuro è stato scritto con il cuore ed una grande passione e devozione per un artista che considero davvero degno di un attenzione che molte volte non gli viene data.
      Come diceva Lapinsu, in un altro commento, un portento che sembra invisibile, che è poi il destino di tutti i grandi attori di supporto.
      E’ proprio per questa devozione ed affetto che mi sono permesso quasi di “stroncarlo” in un film che non mi è piaciuto ed in cui ho trascinato negativamente anche la sua bravura, ma resta un grande e non lo dico per piaceria o ruffianeria nei tuoi confronti, a cui invece è piaciuto anche in “Ironclad”, ma perché ci ho dedicato tutto il post!
      Per fare questa digressione su Paul, mi sono rivisto in dvd un film che mi aveva addirittura fatto arrabbiare al cinema, “Parkland”: il mio giudizio sul film non è cambiato (praticamente un offesa al “JFK” di Stone) ma rivedendo Giamatti l’ho trovato ancora più grande… è incredibile!
      In questi giorni, invece, mi sto divertendo come un matto a scrivere un post in cui ti ho pensato moltissimo (oh, in senso amicale, mica fraintendere…), tutto dedicato ad un regista davvero poco conosciuto ai più (tranne che a te sicuramente), autore di film di bassissimo budget ma grandi idee… ti do un indizio malefico… sfere rotanti con lame affilate, cadaveri rubati e trasformati in schiavi nani, Elvis Presley che combatte contro un demone e una droga chiamata salsa di soia… se ci sei, tieni il segreto per te e non divulgarlo dentro Word Press o almeno prima che finisca il mio post!

      P.S. A proposito di M. Night Shyamalan, lo sai che mi è piaciuto un sacco il pilot di “Wayward Pines“? Aspetto il 14 per vedere come procede nella seconda puntata, diretta da altri…
      Alla prossima mitico!

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        • Lupo! Sono riuscito finalmente a completare il mio lungo post sul grande Don e ne sono contentissimo, ma temo si tratti di una cosa un po’ troppom per addetti ai lavori… tu che sai parlare meglio di me alle grandi platee, mi aiuteresti a spargere il verbo? L’umanità deve conoscere questo genio!
          Seminiamo cultura, Lupo, seminiamo!

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  8. Boia… era ovvio che mi rispondevi al volo… con chiunque ho parlato (e quando dico chiunque parlo anche trai vari blogger dentro Word Press) mi guardavano perplessi anche quando ho fatto i nomi dei film… ma tu, al volo! Pam, beccato! Eh, la cultura di base…

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  9. Dopo la lettura di ogni pezzo, mi rendo conto, ogni volta di più, della vastità delle tue conoscenze. Articolo fantastico… proprio come Giamatti. Amo questo attore perché recita in sordina, mai sopra le righe anche quando deve “dare di matto”. Se trovi il tempo, ma te lo chiedo proprio da non competente, mi spieghi cosa intendi “una sintassi ovviamente datata per i gusti odierni” (paragrafo Sideways-in viaggio con Jack).
    Con tutti i referendum che si fanno ce ne vorrebbe uno per eliminare defintivamente la pseudo traduzione in italiano dei titoli dei film stranieri e già che ci siamo anche i sottotitoli “in viaggio con Jack”… mah!!
    A presto

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    • Mi hai inondato di complimenti ed il mio ego si sta gonfiando a dismisura… dovrei bastonarlo un po’, ma gli hai appena offerta il suo cibo più prezioso ed ossia permettermi di pontificare!

      L’hai voluto tu, maldido!!

      Ci sono artisti che si sono sempre preoccupati di coniugare il linguaggio del proprio animo (quindi la parte più esoterica ed ermetica e pertanto maggiormente lirica) con quello del grande pubblico: in questo senso, ad esempio, un grandissimo comunicatore è di certo Steven Spielberg, capace di portare il contenuto della sua narrazione nel più lontano e difficile dei cuori, parlando una lingua comprensibilissimi anche se splendida; nel campo della commedia sentimentale o del dramma sentimentale, io penso che anche Payne appartenga a questa categoria e quindi direi che è in ottima compagnia!

      Tuttavia, questa scelta stilistica ovvero quella di comporre i vari segmenti filmici (le frasi, per così dire del discorso filmico) con una sintassi contemporanea (quindi usando i flashback, le pause, io dialoghi, gli zoom, le carrellate, i piani sequenza e tutta la punteggiatura messa disposizione dal linguaggio filmico), rendono i film di questi autori molto comunicativi ma più a rischio di invecchiamento, al confronto di altri registi che abbiano scelto linguaggi più innovativi (quindi meno comprensibili per i loro contemporanei) ma per lo stesso motivo anche più longevi: quando negli anni ’70 andava di moda nelle scene di tensione zoomare direttamente in faccia del protagonista, nessuno si preoccupava che l’effetto visivo fosse disturbante perché lo facevano tutti e solo in pochi sostituivano quel facile effetto con una carrellata o un effetto vertigo (quando ti avvicini con lo zoom ed intanto ti allontani con la cinepresa), ma riguardando questi film oggi si prova una sensazione di spaesamento, specie se chi guarda è uno spettatore abituato solo ad altri segni di interpunzione e che vive l’anacronismo visivo, quindi, quasi come un difetto.

      Allo stesso modo, la sintassi contemporanea al suo tempo (senza innovazioni particolari) crea un ritmo di certo adatto al pubblico del suo tempo (vedi i lunghi dialoghi dei film anni ’50 e ’60, le scene madri, la teatralità che veniva direttamente dai set costruiti in studio su un palco vero e proprio), ma questo rende la pellicola datata e meno valida per le generazioni successivi.

      Ovviamente i maestri sanno questo e cambiano la loro sintassi in progressione all’abilità di concepire i gusti del pubblico e sintonizzarsi su di esso: pensa ad esempio all’uso dei cosiddetti landscape (con quelle riprese di orizzonti vastissimi) ed ai campi lunghi che Payne ha usato in Nebraska, al realismo delle scene interne ai bar, agli sfacciati primissimi piani del protagonista che gira orgoglioso con il suo pick-up nuovo fiammante), così come ricorda quelle carrellate lungo la spiaggia, fatte per riprendere in modo più emotivamente coinvolgente padre e figlia che discutono sul tradimento, in “Paradiso Amaro”… siamo anni luce lontani dalle tecniche di narrazione di “Sideways”, così come lo stesso Spielberg di “Shugarland Express”, con i suoi tempi lunghissimi, le highway piene di auto della polizia, i piani-americani della protagonista che piange a telecamera immobile e senza commento musicale (quasi impossibile oggi), sono tutte cose che ci narrano dell’evoluzione di questi due registi ed anche di come il rivedere loro vecchi film, senza storicizzarli adeguatamente, li mette a rischio di critica da parte dello spettatore disattento.
      Alla prossima Fed e scusa il polpettone, davvero!!

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  10. Grazie 2 volte invece amico mio, in primo luogo perché il polpettone a me piace, in secondo luogo perché ora ho capito perfettamente cosa hai inteso dire.
    Anch’io, come tutti ovviamente, ho la sensazione talvolta del film “vecchio” e che spesso rinunci anche a riguardare proprio perché “la sintassi filmica” (come giustamente deve essere chiamata) è datata. Magari un film che all’epoca ti piacque tantissimo, oggi non lo vedi più volentieri. A parte certi capolavori s’intende che vanno sempre bene, ivi inclusa la scena madre.
    Tuttavia in Sideways non ho provato (e non provo) quella sensazione, chissà perché, forse perché lo adoro o forse perché adoro il vino? 🙂

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    • Tu lo sai, vero, che potrei stare ore a parlare con te di cinema?
      Odio oltretutto non poterlo fare, perché la passione ti porta a veder e sentire cose che si arricchiscono di nuovi sentori quando parli con persone con la spiccata sensibilità artistica come te ed allora diventa una vera giostra…
      Ora ti lascio che il mio trasloco incombe, ma continuiamo a commentarci ogni volta che sarà possibile perché è davvero troppo piacevole, anche quando la stessa cosa, guardata dai nostri due diversi punti di vista può mostrare sembianze differenti, come è giusto che sia, come è bello che sia, perché come dicono le sorelle Wachowski “<emAll Boundaries are Conventions”…
      Buona serata, amico!

      P.S. Il vino non si può non adorare, non si può solo bere… è cultura, piacere, vita, storia, geografia. socialità… per me e mia moglie è da sempre anche, assieme al cibo, la chiave con cui decifrare tutto quello che incontriamo nei nostri viaggi, anche se brevi,anche se vicini

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